The Judgement of the Italian Constitutional Court 29 January 1996 n. 15 faces the question of the use of the regional or minority language before judicial authorities. This article analyses and discusses a specific sentence of the above-mentioned judgement, where the Court interprets art. 27 of the UN Covenant on Civil and Political Rights in a rather restrictive way: “art. 27 ensures the right of the members of the linguistic minority to use their mother language in their mutual relations, as a way of being of these persons and an instrument of their cultural identity, but not the guarantee of the external use of that language in their relationship with individuals or authorities not belonging to the same minority group”. The Court therefore rejects the doctrinal position of those few scholars who have adopted a functional and teleological interpretation of art. 27, with the consequence of greatly widening the scope of the rule. According to this position, which was initially supported in the 1979 Report by Francesco Capotorti, UN Special Rapporteur of the Study on the Rights of Persons belonging to Ethnic, Religious and Linguistic Minorities, art. 27 presupposes a positive action by States in order to allow persons belonging to ethnic, cultural and linguistic minorities to preserve their identity, for example by creating schools and other educational institutions where the education of children could be provided in the minority language, or, as in the case at issue, by ensuring the use of the minority language before administrative or judicial authorities. It is to be noted, however, that the 1996 judgement of the Constitutional Court conflicts with the interpretative practice of the UN Committee on Human Rights, relating either to the individual complaints and to the State periodic reports.

La sentenza della Corte Costituzionale 29 gennaio 1996 n. 15 affronta la questione dell’impiego della lingua materna nel processo da parte di cittadini appartenenti alla minoranza slovena. Questo articolo analizza ed argomenta un passaggio quasi incidentale della sentenza, nel quale la Corte interpreta l’art. 27 del Patto sui diritti civili e politici al fine ultimo di negare fondamento ad ogni argomentazione di costituzionalità che intendesse basarsi sull’art. 10 della Cost. Secondo la Corte, “il richiamo contenuto nell’ordinanza di rimessione all’art. 27 del Patto risulta ininfluente, se non addirittura controproducente, dal punto di vista del contenuto di quest’ultimo, essendovi prevista la garanzia dell’uso della lingua propria nella comunicazione tra i componenti della medesima minoranza, come modo d’essere e strumento della propria identità culturale, ma non la garanzia dell’uso esterno di quella lingua nei rapporti con soggetti o autorità non appartenenti alla stessa comunità, ciò che è, invece, il nucleo della questione in esame”. La Corte prende nettamente posizione, nell’ambito della questione interpretativa concernente la disposizione in esame, a favore della lettura più restrittiva, vale a dire di quella secondo la quale l’art. 27 si limiterebbe a proteggere la libertà dei membri di una minoranza di adottare determinate iniziative, quali ad esempio la creazione e la gestione di scuole private, l’istituzione di musei, l’organizzazione di manifestazioni culturali, ecc. imponendo agli Stati un dovere di mera astensione dal porre in essere delle misure che interferissero con tale libertà. La norma non giungerebbe pertanto a tutelare anche un diritto delle persone appartenenti a minoranze a usufruire di strutture ed istituti appositamente predisposti dallo Stato al fine di preservare la propria identità culturale, linguistica e religiosa. In definitiva, la Corte respinge l’idea che il regime di tutela di cui all’art. 27 del Patto possa implicare un vero e proprio obbligo per gli Stati di adottare misure di natura positiva. Questa presa di posizione della Corte rispecchia l’opinione prevalente della dottrina, secondo cui l’obbligo posto a carico dello Stato dalla norma in questione avrebbe una natura meramente negativa e una portata piuttosto limitata. Una voce fuori dal coro è rappresentata dal rapporto del 1979 di Francesco Capotorti, nella sua qualità di UN Special Rapporteur dello Study on the Rights of Persons belonging to Ethnic, Religious and Linguistic Minorities. Nella stessa direzione del rapporto Capotorti, vale a dire verso un ampliamento della portata e dei contenuti dell’art. 27, si è mosso anche il Comitato delle N.U. per il diritti dell’uomo, sia nell’ambito dell’esame delle comunicazioni individuali sottoposte alla sua attenzione, sia nel quadro della sua attività di monitoraggio dei rapporti presentati periodicamente dagli Stati.

Sull'uso della lingua minoritaria nel processo secondo il Patto relativo ai diritti civili e politici / Fabbricotti, Alberta. - In: RIVISTA DI DIRITTO INTERNAZIONALE. - ISSN 0035-6158. - STAMPA. - 81:(1998), pp. 144-168.

Sull'uso della lingua minoritaria nel processo secondo il Patto relativo ai diritti civili e politici

FABBRICOTTI, Alberta
1998

Abstract

The Judgement of the Italian Constitutional Court 29 January 1996 n. 15 faces the question of the use of the regional or minority language before judicial authorities. This article analyses and discusses a specific sentence of the above-mentioned judgement, where the Court interprets art. 27 of the UN Covenant on Civil and Political Rights in a rather restrictive way: “art. 27 ensures the right of the members of the linguistic minority to use their mother language in their mutual relations, as a way of being of these persons and an instrument of their cultural identity, but not the guarantee of the external use of that language in their relationship with individuals or authorities not belonging to the same minority group”. The Court therefore rejects the doctrinal position of those few scholars who have adopted a functional and teleological interpretation of art. 27, with the consequence of greatly widening the scope of the rule. According to this position, which was initially supported in the 1979 Report by Francesco Capotorti, UN Special Rapporteur of the Study on the Rights of Persons belonging to Ethnic, Religious and Linguistic Minorities, art. 27 presupposes a positive action by States in order to allow persons belonging to ethnic, cultural and linguistic minorities to preserve their identity, for example by creating schools and other educational institutions where the education of children could be provided in the minority language, or, as in the case at issue, by ensuring the use of the minority language before administrative or judicial authorities. It is to be noted, however, that the 1996 judgement of the Constitutional Court conflicts with the interpretative practice of the UN Committee on Human Rights, relating either to the individual complaints and to the State periodic reports.
1998
La sentenza della Corte Costituzionale 29 gennaio 1996 n. 15 affronta la questione dell’impiego della lingua materna nel processo da parte di cittadini appartenenti alla minoranza slovena. Questo articolo analizza ed argomenta un passaggio quasi incidentale della sentenza, nel quale la Corte interpreta l’art. 27 del Patto sui diritti civili e politici al fine ultimo di negare fondamento ad ogni argomentazione di costituzionalità che intendesse basarsi sull’art. 10 della Cost. Secondo la Corte, “il richiamo contenuto nell’ordinanza di rimessione all’art. 27 del Patto risulta ininfluente, se non addirittura controproducente, dal punto di vista del contenuto di quest’ultimo, essendovi prevista la garanzia dell’uso della lingua propria nella comunicazione tra i componenti della medesima minoranza, come modo d’essere e strumento della propria identità culturale, ma non la garanzia dell’uso esterno di quella lingua nei rapporti con soggetti o autorità non appartenenti alla stessa comunità, ciò che è, invece, il nucleo della questione in esame”. La Corte prende nettamente posizione, nell’ambito della questione interpretativa concernente la disposizione in esame, a favore della lettura più restrittiva, vale a dire di quella secondo la quale l’art. 27 si limiterebbe a proteggere la libertà dei membri di una minoranza di adottare determinate iniziative, quali ad esempio la creazione e la gestione di scuole private, l’istituzione di musei, l’organizzazione di manifestazioni culturali, ecc. imponendo agli Stati un dovere di mera astensione dal porre in essere delle misure che interferissero con tale libertà. La norma non giungerebbe pertanto a tutelare anche un diritto delle persone appartenenti a minoranze a usufruire di strutture ed istituti appositamente predisposti dallo Stato al fine di preservare la propria identità culturale, linguistica e religiosa. In definitiva, la Corte respinge l’idea che il regime di tutela di cui all’art. 27 del Patto possa implicare un vero e proprio obbligo per gli Stati di adottare misure di natura positiva. Questa presa di posizione della Corte rispecchia l’opinione prevalente della dottrina, secondo cui l’obbligo posto a carico dello Stato dalla norma in questione avrebbe una natura meramente negativa e una portata piuttosto limitata. Una voce fuori dal coro è rappresentata dal rapporto del 1979 di Francesco Capotorti, nella sua qualità di UN Special Rapporteur dello Study on the Rights of Persons belonging to Ethnic, Religious and Linguistic Minorities. Nella stessa direzione del rapporto Capotorti, vale a dire verso un ampliamento della portata e dei contenuti dell’art. 27, si è mosso anche il Comitato delle N.U. per il diritti dell’uomo, sia nell’ambito dell’esame delle comunicazioni individuali sottoposte alla sua attenzione, sia nel quadro della sua attività di monitoraggio dei rapporti presentati periodicamente dagli Stati.
MINORANZE NAZIONALI; LINGUE MINORITARIE; COSTITUZIONE ITALIANA; PATTO SUI DIRITTI CIVILI E POLITICI
01 Pubblicazione su rivista::01a Articolo in rivista
Sull'uso della lingua minoritaria nel processo secondo il Patto relativo ai diritti civili e politici / Fabbricotti, Alberta. - In: RIVISTA DI DIRITTO INTERNAZIONALE. - ISSN 0035-6158. - STAMPA. - 81:(1998), pp. 144-168.
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