La strutturale fragilità delle aree interne del nostro paese interroga profondamente il rapporto coevolutivo tra uomo e ambiente che si è irrimediabilmente compromesso dopo l’avvento dell’industrializzazione. E’ in questo preciso momento storico che la modernità irrompe a recidere ogni legame con la terra favorendo un processo di abbandono. Quel rapporto produttivo e rigenerativo che legava le comunità insediate ai loro territori si sbriciola. Come conseguenza decade quell’attività di cura e di presidio delle risorse ambientali che ha finito col rendere ancora più vulnerabili i nostri territori. A partire dal caso di studio di Civita di Bagnoregio il presente contributo cercherà di scandagliare la relazione tra pratiche sociali e fragilità territoriali. Rispetto a questo tema, il piccolo borgo laziale rappresenta un caso di studio paradigmatico. Si tratta, infatti, di un luogo da sempre in lotta con una natura ostile. Conosciuta come la città che muore, deve questa sua denominazione alla sua particolare conformazione geomorfologica che trasforma la morte in una promessa regolarmente e invariabilmente mantenuta. Il destino del piccolo borgo laziale è, infatti, legato all’instabilità dei suoi troni di tufo, all’azione erosiva delle acque che dilavano le argille producendo crolli, frane e smottamenti. Gran parte del nucleo originario di Civita si è sbriciolato nelle ampie vallate circostanti. Dove prima c’era la vita sono rimaste solo voragini e baratri incorniciati dalle malferme ramificazioni dei calanchi. La vicenda di Civita non è tuttavia leggibile come una resa incondizionata a un destino ostile. La storia della sua gente è anche e soprattutto una storia fatta di resistenza, di caparbietà e di fedeltà al borgo. Una storia in cui l’uso della terra, la sua coltivazione e il suo presidio costante garantivano capacità di cura e protezione ambientale. Il borgo di Civita che svetta fiero in cima alla sua rupe sarebbe oggi solo un cumulo di detriti in assenza di una comunità operosa capace di costruire e preservare il proprio spazio di vita. Lo spopolamento sopraggiunto a partire dagli anni sessanta, ha decretato un’eutanasia silenziosa del mondo contadino e un serio squilibrio all’interno dello spazio d’interazione specifica uomo-natura: erosione fisica e sociale, precarietà del suolo e delle persone. All’interno di questo quadro Civita può scommettere su un futuro che non sia la semplice banalizzazione turistica delle sue forme architettoniche. E’ necessario che la vita torni ad innervare il borgo. Da questa prospettiva Civita può ambiare a diventare un grande laboratorio territoriale dove poter predisporre tecniche, pratiche, ed economie capaci di curare la vulnerabilità della terra. Un luogo di sperimentazioni avanzate dove produrre interventi all’avanguardia per la difesa del suolo, dove mettere in circolo un’economia della conoscenza necessaria per l’ascolto profondo delle ferite del suolo, dove praticare forme non capitalistiche di organizzazione della vita economico-sociale capaci di ridefinire un rinnovato rapporto con il territorio. In virtù della sua specificità, Civita potrebbe dunque diventare il luogo simbolo di una sfida in cui la fragilità territoriale possa tornare a essere un campo di attenzione potenzialmente in grado di restituire nuova vita a una terra scarnificata. Perché, al di là di approcci tecnicistici, è proprio la vita di nuove comunità a poter garantire presidio e cura alle ferite della terra.
Reinventare un nuovo rapporto coevolutivo tra uomo e ambiente come antidoto alla fragilità della terra / Attili, Giovanni. - In: PLANUM. - ISSN 1723-0993. - L'Urbanistica italiana di fronte all'Agenda 2030. Portare territori e comunità sulla strada della sostenibilità e della resilienza:2.1 Workshop(2020), pp. 810-815. (Intervento presentato al convegno L'Urbanistica italiana di fronte all'Agenda 2030. Portare territori e comunità sulla strada della sostenibilità e della resilienza tenutosi a Matera-Bari).
Reinventare un nuovo rapporto coevolutivo tra uomo e ambiente come antidoto alla fragilità della terra
Giovanni Attili
2020
Abstract
La strutturale fragilità delle aree interne del nostro paese interroga profondamente il rapporto coevolutivo tra uomo e ambiente che si è irrimediabilmente compromesso dopo l’avvento dell’industrializzazione. E’ in questo preciso momento storico che la modernità irrompe a recidere ogni legame con la terra favorendo un processo di abbandono. Quel rapporto produttivo e rigenerativo che legava le comunità insediate ai loro territori si sbriciola. Come conseguenza decade quell’attività di cura e di presidio delle risorse ambientali che ha finito col rendere ancora più vulnerabili i nostri territori. A partire dal caso di studio di Civita di Bagnoregio il presente contributo cercherà di scandagliare la relazione tra pratiche sociali e fragilità territoriali. Rispetto a questo tema, il piccolo borgo laziale rappresenta un caso di studio paradigmatico. Si tratta, infatti, di un luogo da sempre in lotta con una natura ostile. Conosciuta come la città che muore, deve questa sua denominazione alla sua particolare conformazione geomorfologica che trasforma la morte in una promessa regolarmente e invariabilmente mantenuta. Il destino del piccolo borgo laziale è, infatti, legato all’instabilità dei suoi troni di tufo, all’azione erosiva delle acque che dilavano le argille producendo crolli, frane e smottamenti. Gran parte del nucleo originario di Civita si è sbriciolato nelle ampie vallate circostanti. Dove prima c’era la vita sono rimaste solo voragini e baratri incorniciati dalle malferme ramificazioni dei calanchi. La vicenda di Civita non è tuttavia leggibile come una resa incondizionata a un destino ostile. La storia della sua gente è anche e soprattutto una storia fatta di resistenza, di caparbietà e di fedeltà al borgo. Una storia in cui l’uso della terra, la sua coltivazione e il suo presidio costante garantivano capacità di cura e protezione ambientale. Il borgo di Civita che svetta fiero in cima alla sua rupe sarebbe oggi solo un cumulo di detriti in assenza di una comunità operosa capace di costruire e preservare il proprio spazio di vita. Lo spopolamento sopraggiunto a partire dagli anni sessanta, ha decretato un’eutanasia silenziosa del mondo contadino e un serio squilibrio all’interno dello spazio d’interazione specifica uomo-natura: erosione fisica e sociale, precarietà del suolo e delle persone. All’interno di questo quadro Civita può scommettere su un futuro che non sia la semplice banalizzazione turistica delle sue forme architettoniche. E’ necessario che la vita torni ad innervare il borgo. Da questa prospettiva Civita può ambiare a diventare un grande laboratorio territoriale dove poter predisporre tecniche, pratiche, ed economie capaci di curare la vulnerabilità della terra. Un luogo di sperimentazioni avanzate dove produrre interventi all’avanguardia per la difesa del suolo, dove mettere in circolo un’economia della conoscenza necessaria per l’ascolto profondo delle ferite del suolo, dove praticare forme non capitalistiche di organizzazione della vita economico-sociale capaci di ridefinire un rinnovato rapporto con il territorio. In virtù della sua specificità, Civita potrebbe dunque diventare il luogo simbolo di una sfida in cui la fragilità territoriale possa tornare a essere un campo di attenzione potenzialmente in grado di restituire nuova vita a una terra scarnificata. Perché, al di là di approcci tecnicistici, è proprio la vita di nuove comunità a poter garantire presidio e cura alle ferite della terra.File | Dimensione | Formato | |
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Note: http://media.planum.bedita.net/63/f3/Atti_XXII_Conferenza_Nazionale_SIU_Matera-Bari_WORKSHOP_2.1_Planum_Publisher_2020.pdf
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