1876. Ad Aversa, piccolo paese oggi in provincia di Caserta, si decise di aprire presso la casa penale, primo caso italiano, un nuovo braccio chiamato “Sezione per maniaci presso la Casa penale per invalidi di Aversa”. Dieci anni dopo, assumendo la denominazione che a lungo ha caratterizzato le istituzioni italiane di questo tipo – e che ancora resta in uso nel linguaggio colloquiale –, a Montelupo Fiorentino, non lontano da Firenze, fu aperto qualcosa di analogo alla sezione per maniaci di Aversa. La villa dell’Ambrogiana, già Casa di Pena, divenne manicomio criminale. Ad essi seguì il manicomio criminale di Reggio Emilia. 1892. Ricostruito nel 1994. Sant’Eframo a Napoli. 1922. Il manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto. 1925. Castiglione delle Stiviere. 1939. Poi ricostruito interamente nel 1998. Pozzuoli, 1955. Tuttavia, l’obiettivo del mio lavoro, frutto di un fieldwork durato da Settembre 2015 a Dicembre 2016, non è quello di seguire le tracce di queste istituzioni, scrivendo la storia della loro origine e del loro sviluppo. È quello, invece, di offrire un’etnografia di uno solo di essi. *** Prodotti dall’intersezione di due mondi sociali e istituzionali, quello carcerario e quello psichiatricomanicomiale, gli OPG si presentano come una manifestazione compiuta, perfetta, di quelle istituzioni che, con lessico ormai comune, vengono chiamate “istituzioni totali”. Parlare di istituzioni totali significa fare riferimento ad alcuni specifici luoghi sociali in cui il distacco dalla vita esterna all’istituzione stessa ed il controllo sociale che viene esercitato all’interno di essa – controllo minuto e silenzioso o evidente e violento – producono nel soggetto che vi è intrappolato una progressiva desocializzazione, disculturazione, fino al raggiungimento di uno stato di non-persona. Si tratta allora di un’istituzione fortemente normativizzante, all’interno della quale l’esercizio delle funzioni precipue che la caratterizzano avviene attraverso un’intrusione e una pervasività assoluta in tutte le sfere che concorrono a produrre soggettività e strutturare soggetti. Tale rappresentazione è stata, nel mio lavoro, una idea di riferimento, nel senso che un’etnografia di un OPG implicava relazionarsi al concetto primariamente di istituzione, quindi di istituzione totale, dandolo quantomeno come assunto di partenza, come contesto generale del campo di ricerca. La tesi, tuttavia, era quella di muoversi in direzione differente rispetto a quella che, in un recentissimo contributo, Piero Vereni ha definito la “dimensione funzionale” dell’istituzione. Questo non per personale ostilità di fronte ad un tale impianto analitico. La letteratura sul carcere ha conosciuto, negli ultimi tempi, una nuova età di rigoglio e importanti lavori sono stati consacrati ad una antropologia e sociologia dei luoghi carcerari. Tali lavori, di indiscutibile valore, tentano di indagare i legami funzionali che stabiliscono relazioni di inquietante prossimità tra una certa ontologia dello Stato moderno ed i meccanismi di produzione e riproduzione della marginalità e della devianza. Si tratterebbe, insomma, di rintracciare i dispositivi attraverso cui un determinato sistema di disuguaglianze, attraverso un apparato categoriale, concorre a circoscrivere la soggettività deviante e come, a livello istituzionale, dispositivi tecnici e concettuali vengano predisposti per la collocazione al margine di tale soggettività. D’altra parte, in modo totalmente complementare, la stessa creazione del soggetto deviante e la sua istituzionalizzazione, procedendo questa volta dal basso verso l’alto, confermerebbero e rafforzerebbero lo stesso sistema di disuguaglianze il cui fine è proprio indicare alla pubblica attenzione questi soggetti. Un’analitica funzionale ed un’ermeneutica strutturale che si implicano vicendevolmente in un movimento eternamente circolare. Un’etnografia di questo tipo, tuttavia, mi pareva potenzialmente sterile, tenendo in considerazione l’eccezionalità del contesto etnografico. Nel momento in cui ho avuto modo di accedere all’OPG, infatti, era già stata approvata la legge 81/2014 che ne disponeva la chiusura. Un’istituzione particolare, la mia: prodotto di un incontro storico tra discorsi eterogenei, principio – forse – di produzione di nuove soggettività di cui, tuttavia, se ne poteva iniziare a intravedere il tramonto mentre nuove istituzioni, apparentemente pensate per scopi simili, iniziavano a nascere, sparse qua e là nelle varie regioni italiane. Ipotizzando che in un momento, per certi versi epocale, di transizione istituzionale, una serie di logiche interne tendessero a palesarsi in modo particolarmente accentuato, ho preferito rivolgere la mia attenzione alle specificità della vita interna all’OPG. Partendo dal presupposto che questa istituzione fosse abitata da una brulicante popolazione che all’interno di essa agisse una parte importante della propria vita sociale, ho scelto di dirigere lo sguardo sui sistemi di strutturazione delle logiche interpersonali, sulle modalità pratiche attraverso le quali i soggetti costruiscono il proprio sé attraverso l’incontro (o lo scontro) intersoggettivo. Una ricerca di poetiche e politiche dell’alterità attraverso le quali ripensare sé stessi come soggetti attivi (o – eventualmente – passivi). Il mio lavoro, allora, cerca di ricostruire la narrazione dell’incontro problematico e non sempre lineare con i soggetti che costituiscono il mondo sociale dell’OPG e che, nella maggior parte dei casi, mi si sono presentati – per biografia, per valori morali, per modalità di autocoinvolgersi in relazioni emotive ed affettive – come totalmente altri rispetto all’osservatore che tentava di “comprendere”, rispetto – quindi – a me. D’altra parte, esso è anche il tentativo di induzione, a partire dalla personale esperienza di ricerca, che miri a cogliere alcune specificità dell’essere all’interno di una struttura detentiva e psichiatrica che spesso vengono tralasciate in favore di una rappresentazione monolitica che ponga l’accento sulle “storture” di queste istituzioni. Dando dunque per scontata la validità interpretativa di quei lavori cui sopra accennavo e la loro utilità nell’afferrare, in una prospettiva spesso macrosociale, le ombre più dense di simili istituzioni, ho tentato di mostrare ciò che, in OPG, è presenza sociale, capacità di agire, prossimità. Ciò che ho tentato di mostrare dell’OPG è una dinamica interna, una rappresentazione dell’istituzione che si concentri maggiormente su tutto ciò che è orizzontale e relazionale. Il mio interesse è stato quello di ripensare prevalentemente ciò che accade all’interno dell’istituzione, la sua quotidianità, le pratiche attraverso cui si producono e vengono gestite le relazioni interpersonali e intergruppali. Ciò che mi sembra affermarsi, attraverso questa prospettiva esasperantemente microscopica, è che esiste la possibilità di rileggere tali relazioni con un taglio che privilegi il momento dell’incontro sulla rigidità del dominio e la costruzione di soggettività molteplici sulla cristallizzazione dell’egemonia. Ciò implica, come corollario, un’attenzione specifica su ciò che è processuale rispetto a ciò che si presenta come immagine statica del mondo. Il primato del continuo sul discreto. La fluidità e la plasticità che si pongono in primo piano tendendo a relativizzare la monumentalizzazione dell’evento. L’OPG è uno spazio sociale complesso. I significati e i valori che lo attraversano e che lo strutturano sono eterogenei. Non sono dunque facilmente classificabili e categorizzabili. Esso non è semplicemente un’istituzione violenta né uno degli ingranaggi sociali attraverso cui si “inventa” la marginalità. Lo è in parte ma, allo stesso tempo, al suo interno si può rintracciare una rappresentazione del sociale estremamente contraddittoria e sfaccettata che rifugge a qualsiasi immagine monolitica e totalizzante. Internati, psichiatri, agenti della Polpen, infermieri, psicologi, operatori si muovono costantemente attraverso una fitta rete di relazioni interpersonali che costruiscono un mondo sociale, il cui correlato diretto è un orizzonte morale di senso, disseminato di barriere materiali e simboliche. Tali barriere, tuttavia, non sono date una volta per tutte e non sono poste a custodia di una settorialità insuperabile. La principale caratteristica delle barriere che segnano il confine tra i segmenti sociali dell’OPG è il loro essere negoziali. Sono rivedibili, ripensabili. La plasticità dei confini che costruiscono questo specifico arcipelago istituzionale è – mi pare – un dato distintivo di questo mondo sociale. Attraverso la negoziazione ininterrotta degli status soggettivi e sociali, dei ruoli che si possono rivestire in OPG, delle modalità di incontro, di scontro e di comunicazione i soggetti si costituiscono come potenzialmente mobili all’interno dell’istituzione. Ciò implica che l’appartenenza ad un segmento sociale, sebbene fondamentale per l’autorappresentazione dei soggetti e le poetiche di rappresentazione dell’alterità, è sempre parziale e momentanea. È per questa ragione che, come cercavo di sottolineare poco sopra, bisogna analizzare questa istituzione con una particolare attenzione ai fenomeni processuali che la investono. L’Ospedale Psichiatrico Giudiziario è un campo di battaglia in cui la negoziazione passa attraverso l’acquisizione di informazioni che vadano a costituire una forma particolare di capitale simbolico da reinvestire nella dinamica contrattuale delle relazioni. È in questo modo che i soggetti attraversano le frontiere che tentano di definirli in una unicità immobile. È attraverso questo strano mercanteggiare, questo passaggio di informazione o il rifiuto di accettare questa logica informale e negoziale che gli attori sociali diventano altro da sé, altro da ciò che li blocca in un ruolo istituzionale dato. È inoltre attraverso queste pratiche che i soggetti che abitano l’OPG ripensano la propria identità, la decostruiscono, la rafforzano. Dall’altro lato, l’altra faccia della medaglia di questa identità è il suo essere reversibile e riscrivibile. Superando, anche solo per brevi momenti temporali, il limite e la frontiera i soggetti frantumano la propria identità pregressa per crearne una nuova. È quello che mi sembra rispondere alla costituzione di un generale regime di prossimità o, all’opposto, di totale alterità. Tutto ciò, ovviamente, non va ridotto ad un dato meramente cognitivo o intenzionale della coscienza degli attori sociali. È, in modo molto più profondo e radicato, il repertorio di pratiche grazie al quale i soggetti esperiscono la loro esistenza all’interno dell’OPG e affermano la propria presenza. In una medesima prospettiva, ho cercato di cogliere alcuni aspetti del “detto” più malato che il malato possa proferire. Il segno della sua malattia. Il delirio. Dopo aver accettato che l’informazione, il capitale che ad essa si collega ed il loro uso possano essere colti sotto una molteplicità di piani – politico, strategico, emotivo, affettivo – che però non possono prescindere da una analisi delle logiche discorsive – di significati ed enunciati – che ne garantiscono la circolazione e la produzione, ho provato a ipotizzare che anche il delirio potesse essere pensato sempre come campo del discorso. Non più, appunto, come segno della malattia – cosa che implicherebbe entrare nel discorso della psichiatria. Né, meno che mai, come parola della resistenza politica, cui ridare la legittimità ontologica di una verità non compresa. Non si è trattato di ragionare della parola dell’internato né come segno di malattia né come una possibilità legittima di espressione del soggetto che la società, o qualcuno su sua procura, ha eliso. Si trattava, invece, di assumere la parola in quanto tale, la parola come parola, e cercare di interrogarsi su quali relazioni essa avesse con un campo di discorso e con l’esteriorità del mondo, a prescindere dalla sua prossimità alla mia – alla nostra – percezione del vero e del reale. Ho cercato cioè di problematizzare anche ciò che sembrava quanto mai delirante, la parola del folle, disinteressandomi del suo valore semiotico per il discorso che la osserva in funzione della cura e di quello che la custodisce in nome della libertà degli oppressi. Quello che da questi discorsi è emerso – o mi è sembrato emergere – è una relazione conflittuale con il tempo. E in effetti il tempo dell’OPG è un tempo non ordinario. Ragionare del tempo in OPG significa riflettere su un tempo che si arresta, che diventa un istante infinito che si dilata fino a collassare su sé stesso. È il tempo del regime di proroga, ovvero del dispositivo giuridico cui tutti gli internati sono sottoposti. In tale sistema, in cui il fine pena non è definito, la linearità del tempo, in cui i soggetti, abitualmente, inscrivono sé stessi ed in cui l’immaginazione del Sé e la progettualità sono il dato essenziale per affermare il proprio essere nel presente, scompare. L’orizzonte della temporalizzazione fluttua, inconsistente, e mette a repentaglio l’essere sociale dei soggetti. Cosa ci sarà domani? Molto probabilmente un oggi identico a sé stesso. E una tale risposta la si può dare per ogni giorno passato o a venire senza che si possa tenere il conto di ciò che transita e che si differenzia. L’attesa indefinita – a volte infinita – diviene la stasi assoluta. In questo contesto, alcuni manipolano il proprio tempo attraverso una struttura narrativa che ripropone ininterrottamente il rapporto che il soggetto ha con sé stesso e con il proprio tempo. Un modo differente di trasporre l’ineluttabilità dei fatti e di altre verità su un piano di realtà differente all’interno del quale il soggetto abbia ancora capacità di agire. A ciò si contrappone il discorso psichiatrico, che invece non può non considerare questo “detto” se non come malato. Sono due forme antagoniste di verità sul sé. Ed entrambe hanno un effetto performativo. Quella psichiatrica produce il contesto discorsivo entro cui vedere, isolare e – a volte – curare la malattia. Quella dell’internato invece ha una direttrice di azione differente: essa gli consente non solo di traslare il suo sé su un piano all’interno del quale egli abbia ancora una possibilità di controllo ma, ben più in profondità, questa riaffermazione di una presenza gli permette di sovvertire i codici morali che ne sanciscono la permanenza in un contesto detentivo. È un modo di produrre un orizzonte morale differente all’interno del quale la stasi del tempo non abbia più significato e la libertà imminente diventi pensabile. Il detto del malato diventa allora un atto linguistico da prendere in quanto tale, senza sovrascrivere in modo preliminare alcuna sovrainterpretazione che tenga fuori il soggetto che lo enuncia. Ciò che si deve interrogare, invece, è il contesto in cui esso viene enunciato e in cui esso assume, oltre al semplice significato, il suo senso complessivo. Parlare di questo “detto” che si relaziona in modo attivo al tempo, che esercita sul tempo un controllo e, facendo ciò, traspone il soggetto in un ordine temporale altro poiché in quello presente vi è solo crisi, significa in modo implicito – vale la pena sottolinearlo – parlare di una forma di sofferenza radicata fin nel profondo del Sé del soggetto che parla. Analizzare il mondo istituzione in questo modo significa introdurre anche una riflessione su cosa sia il potere all’interno di un tale sistema sociale. È evidente che esiste una forma di potere intesa come momento dell’esercizio di una certa verticalità, di un dominio, di un controllo. Vorrei, tuttavia, intendere questi termini – verticalità, dominio, controllo – in senso non normativo, ovvero non collegando ad essi alcun giudizio morale e politico. Non si tratta, in questa sede, di procedere ad una critica sistematica dei dislivelli potenziali che strutturano gli universi istituzionali ed il loro modo di tradursi in atto, in pratiche. Parlando infatti di universo istituzionale voglio intendere una logica che potrebbe essere pensata come simile all’interno di ogni declinazione storica e contingente di ciò che è lo Stato. In quest’ottica, un OPG potrebbe non differire da un qualsiasi contesto universitario, da un reparto sanitario, da un ufficio amministrativo. In quanto istituzione esso è strutturato secondo un organigramma piramidale, secondo una gerarchia sociale che separa i ruoli, le funzioni e i compiti dei vari attori sociali che in esso agiscono. L’esercizio del potere di tipo verticale, che si manifesta procedendo dall’alto verso il basso, è unidirezionale e formalmente non reversibile. Sottolineare l’esistenza di una tale forma di differenziazione sociale all’interno del contesto istituzionale rischia di essere assolutamente banale. Parlare di potere, invece, mi sembra interessante se lo si fa partendo da una prospettiva foucaultiana. E non potrebbe non essere così, visto che ciò che ho tentato di far emergere è l’assoluta preminenza all’interno dell’OPG di tutto ciò che è discorso e pratiche di enunciazione. Ciò che intendo ipotizzare – ma che sarebbe complesso affermare in una teoria generale e consistente, visto lo stadio ancora seminale di questa ricerca – è che non si possa tenere fuori dall’analisi complessiva delle pratiche agite in OPG un certo modo di intendere il potere: un fitto insieme di relazioni che legano i soggetti tra di loro e, in più, li legano ad un determinato campo del discorso. Significa dunque reinserire la dimensione del potere, ma rivolgersi ad esso non come ad una essenza, cercando di evitare qualsiasi metafisica o ontologia del potere – come ha sempre auspicato Michel Foucault –, ma pensarlo come quel campo di possibilità attraverso il quale i soggetti assumono una posizione all’interno di quel campo di battaglia che è l’OPG e si pensano e si dicono in funzione degli altri. Il potere allora – o meglio le relazioni di potere, che è un modo di considerare il potere che dovrebbe evitare fraintendimenti essenzializzanti – diventa, in questo modo di considerare i soggetti e i discorsi, una struttura e una funzione di posizione nel campo sociale. Il potere non è un’entità a sé stante bensì un “qualcosa” di diffuso, che attraversa i soggetti su cui si esercita e li trasforma. Per questo motivo è corretto parlare di relazioni di potere mentre sarebbe fuorviante ridurre la complessità del contesto istituzionale dell’OPG a mere relazioni di domino. A ciò bisogna aggiungere che non si può confondere la molteplicità cangiante e ubiqua delle relazioni di potere con la fissità delle relazioni di dominio poiché, come ha chiaramente espresso Foucault, il potere – colto in questa prospettiva – può esistere solo a condizione della presenza di una specifica dimensione esperienziale del soggetto: la libertà. Il regime che permette la produzione di condizioni che possano lasciare emergere un soggetto, una soggettività, delle pratiche di veridizione sussiste solamente nell’ordine della libertà. Il potere, nella sua massima espressione, esiste infatti unicamente come interazione complessa tra un sistema di segni, un set di capacità oggettive e un insieme di relazioni di potere e, in quanto tale, esso non può mai negare la libertà dei soggetti che esso contribuisce a creare. Questo tipo di libertà, correlato essenziale del soggetto foucaultiano, è precisamente la possibilità di invertire le relazioni di potere e di divenire agente di produzione di verità. Il potere si costituisce, dunque, come un agente di produzione di discorso. È proprio in questo senso che avanzerei la mia ipotesi: non è possibile pensare all’OPG senza includere questa dimensione del potere come struttura relazionale. Al di fuori di questa condizione di possibilità, sarebbe impensabile far emergere quell’incessante attività negoziale e discorsiva che coinvolge i soggetti e che permette loro di pensarsi e ripensarsi, costruirsi e disfarsi secondo ordini molteplici di prossimità e alterità.

Resti tra noi. Relazioni di possibilità e di libertà in un ospedale psichiatrico giudiziario / Quarta, Luigigiovanni. - (2018 Feb 22).

Resti tra noi. Relazioni di possibilità e di libertà in un ospedale psichiatrico giudiziario

QUARTA, LUIGIGIOVANNI
22/02/2018

Abstract

1876. Ad Aversa, piccolo paese oggi in provincia di Caserta, si decise di aprire presso la casa penale, primo caso italiano, un nuovo braccio chiamato “Sezione per maniaci presso la Casa penale per invalidi di Aversa”. Dieci anni dopo, assumendo la denominazione che a lungo ha caratterizzato le istituzioni italiane di questo tipo – e che ancora resta in uso nel linguaggio colloquiale –, a Montelupo Fiorentino, non lontano da Firenze, fu aperto qualcosa di analogo alla sezione per maniaci di Aversa. La villa dell’Ambrogiana, già Casa di Pena, divenne manicomio criminale. Ad essi seguì il manicomio criminale di Reggio Emilia. 1892. Ricostruito nel 1994. Sant’Eframo a Napoli. 1922. Il manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto. 1925. Castiglione delle Stiviere. 1939. Poi ricostruito interamente nel 1998. Pozzuoli, 1955. Tuttavia, l’obiettivo del mio lavoro, frutto di un fieldwork durato da Settembre 2015 a Dicembre 2016, non è quello di seguire le tracce di queste istituzioni, scrivendo la storia della loro origine e del loro sviluppo. È quello, invece, di offrire un’etnografia di uno solo di essi. *** Prodotti dall’intersezione di due mondi sociali e istituzionali, quello carcerario e quello psichiatricomanicomiale, gli OPG si presentano come una manifestazione compiuta, perfetta, di quelle istituzioni che, con lessico ormai comune, vengono chiamate “istituzioni totali”. Parlare di istituzioni totali significa fare riferimento ad alcuni specifici luoghi sociali in cui il distacco dalla vita esterna all’istituzione stessa ed il controllo sociale che viene esercitato all’interno di essa – controllo minuto e silenzioso o evidente e violento – producono nel soggetto che vi è intrappolato una progressiva desocializzazione, disculturazione, fino al raggiungimento di uno stato di non-persona. Si tratta allora di un’istituzione fortemente normativizzante, all’interno della quale l’esercizio delle funzioni precipue che la caratterizzano avviene attraverso un’intrusione e una pervasività assoluta in tutte le sfere che concorrono a produrre soggettività e strutturare soggetti. Tale rappresentazione è stata, nel mio lavoro, una idea di riferimento, nel senso che un’etnografia di un OPG implicava relazionarsi al concetto primariamente di istituzione, quindi di istituzione totale, dandolo quantomeno come assunto di partenza, come contesto generale del campo di ricerca. La tesi, tuttavia, era quella di muoversi in direzione differente rispetto a quella che, in un recentissimo contributo, Piero Vereni ha definito la “dimensione funzionale” dell’istituzione. Questo non per personale ostilità di fronte ad un tale impianto analitico. La letteratura sul carcere ha conosciuto, negli ultimi tempi, una nuova età di rigoglio e importanti lavori sono stati consacrati ad una antropologia e sociologia dei luoghi carcerari. Tali lavori, di indiscutibile valore, tentano di indagare i legami funzionali che stabiliscono relazioni di inquietante prossimità tra una certa ontologia dello Stato moderno ed i meccanismi di produzione e riproduzione della marginalità e della devianza. Si tratterebbe, insomma, di rintracciare i dispositivi attraverso cui un determinato sistema di disuguaglianze, attraverso un apparato categoriale, concorre a circoscrivere la soggettività deviante e come, a livello istituzionale, dispositivi tecnici e concettuali vengano predisposti per la collocazione al margine di tale soggettività. D’altra parte, in modo totalmente complementare, la stessa creazione del soggetto deviante e la sua istituzionalizzazione, procedendo questa volta dal basso verso l’alto, confermerebbero e rafforzerebbero lo stesso sistema di disuguaglianze il cui fine è proprio indicare alla pubblica attenzione questi soggetti. Un’analitica funzionale ed un’ermeneutica strutturale che si implicano vicendevolmente in un movimento eternamente circolare. Un’etnografia di questo tipo, tuttavia, mi pareva potenzialmente sterile, tenendo in considerazione l’eccezionalità del contesto etnografico. Nel momento in cui ho avuto modo di accedere all’OPG, infatti, era già stata approvata la legge 81/2014 che ne disponeva la chiusura. Un’istituzione particolare, la mia: prodotto di un incontro storico tra discorsi eterogenei, principio – forse – di produzione di nuove soggettività di cui, tuttavia, se ne poteva iniziare a intravedere il tramonto mentre nuove istituzioni, apparentemente pensate per scopi simili, iniziavano a nascere, sparse qua e là nelle varie regioni italiane. Ipotizzando che in un momento, per certi versi epocale, di transizione istituzionale, una serie di logiche interne tendessero a palesarsi in modo particolarmente accentuato, ho preferito rivolgere la mia attenzione alle specificità della vita interna all’OPG. Partendo dal presupposto che questa istituzione fosse abitata da una brulicante popolazione che all’interno di essa agisse una parte importante della propria vita sociale, ho scelto di dirigere lo sguardo sui sistemi di strutturazione delle logiche interpersonali, sulle modalità pratiche attraverso le quali i soggetti costruiscono il proprio sé attraverso l’incontro (o lo scontro) intersoggettivo. Una ricerca di poetiche e politiche dell’alterità attraverso le quali ripensare sé stessi come soggetti attivi (o – eventualmente – passivi). Il mio lavoro, allora, cerca di ricostruire la narrazione dell’incontro problematico e non sempre lineare con i soggetti che costituiscono il mondo sociale dell’OPG e che, nella maggior parte dei casi, mi si sono presentati – per biografia, per valori morali, per modalità di autocoinvolgersi in relazioni emotive ed affettive – come totalmente altri rispetto all’osservatore che tentava di “comprendere”, rispetto – quindi – a me. D’altra parte, esso è anche il tentativo di induzione, a partire dalla personale esperienza di ricerca, che miri a cogliere alcune specificità dell’essere all’interno di una struttura detentiva e psichiatrica che spesso vengono tralasciate in favore di una rappresentazione monolitica che ponga l’accento sulle “storture” di queste istituzioni. Dando dunque per scontata la validità interpretativa di quei lavori cui sopra accennavo e la loro utilità nell’afferrare, in una prospettiva spesso macrosociale, le ombre più dense di simili istituzioni, ho tentato di mostrare ciò che, in OPG, è presenza sociale, capacità di agire, prossimità. Ciò che ho tentato di mostrare dell’OPG è una dinamica interna, una rappresentazione dell’istituzione che si concentri maggiormente su tutto ciò che è orizzontale e relazionale. Il mio interesse è stato quello di ripensare prevalentemente ciò che accade all’interno dell’istituzione, la sua quotidianità, le pratiche attraverso cui si producono e vengono gestite le relazioni interpersonali e intergruppali. Ciò che mi sembra affermarsi, attraverso questa prospettiva esasperantemente microscopica, è che esiste la possibilità di rileggere tali relazioni con un taglio che privilegi il momento dell’incontro sulla rigidità del dominio e la costruzione di soggettività molteplici sulla cristallizzazione dell’egemonia. Ciò implica, come corollario, un’attenzione specifica su ciò che è processuale rispetto a ciò che si presenta come immagine statica del mondo. Il primato del continuo sul discreto. La fluidità e la plasticità che si pongono in primo piano tendendo a relativizzare la monumentalizzazione dell’evento. L’OPG è uno spazio sociale complesso. I significati e i valori che lo attraversano e che lo strutturano sono eterogenei. Non sono dunque facilmente classificabili e categorizzabili. Esso non è semplicemente un’istituzione violenta né uno degli ingranaggi sociali attraverso cui si “inventa” la marginalità. Lo è in parte ma, allo stesso tempo, al suo interno si può rintracciare una rappresentazione del sociale estremamente contraddittoria e sfaccettata che rifugge a qualsiasi immagine monolitica e totalizzante. Internati, psichiatri, agenti della Polpen, infermieri, psicologi, operatori si muovono costantemente attraverso una fitta rete di relazioni interpersonali che costruiscono un mondo sociale, il cui correlato diretto è un orizzonte morale di senso, disseminato di barriere materiali e simboliche. Tali barriere, tuttavia, non sono date una volta per tutte e non sono poste a custodia di una settorialità insuperabile. La principale caratteristica delle barriere che segnano il confine tra i segmenti sociali dell’OPG è il loro essere negoziali. Sono rivedibili, ripensabili. La plasticità dei confini che costruiscono questo specifico arcipelago istituzionale è – mi pare – un dato distintivo di questo mondo sociale. Attraverso la negoziazione ininterrotta degli status soggettivi e sociali, dei ruoli che si possono rivestire in OPG, delle modalità di incontro, di scontro e di comunicazione i soggetti si costituiscono come potenzialmente mobili all’interno dell’istituzione. Ciò implica che l’appartenenza ad un segmento sociale, sebbene fondamentale per l’autorappresentazione dei soggetti e le poetiche di rappresentazione dell’alterità, è sempre parziale e momentanea. È per questa ragione che, come cercavo di sottolineare poco sopra, bisogna analizzare questa istituzione con una particolare attenzione ai fenomeni processuali che la investono. L’Ospedale Psichiatrico Giudiziario è un campo di battaglia in cui la negoziazione passa attraverso l’acquisizione di informazioni che vadano a costituire una forma particolare di capitale simbolico da reinvestire nella dinamica contrattuale delle relazioni. È in questo modo che i soggetti attraversano le frontiere che tentano di definirli in una unicità immobile. È attraverso questo strano mercanteggiare, questo passaggio di informazione o il rifiuto di accettare questa logica informale e negoziale che gli attori sociali diventano altro da sé, altro da ciò che li blocca in un ruolo istituzionale dato. È inoltre attraverso queste pratiche che i soggetti che abitano l’OPG ripensano la propria identità, la decostruiscono, la rafforzano. Dall’altro lato, l’altra faccia della medaglia di questa identità è il suo essere reversibile e riscrivibile. Superando, anche solo per brevi momenti temporali, il limite e la frontiera i soggetti frantumano la propria identità pregressa per crearne una nuova. È quello che mi sembra rispondere alla costituzione di un generale regime di prossimità o, all’opposto, di totale alterità. Tutto ciò, ovviamente, non va ridotto ad un dato meramente cognitivo o intenzionale della coscienza degli attori sociali. È, in modo molto più profondo e radicato, il repertorio di pratiche grazie al quale i soggetti esperiscono la loro esistenza all’interno dell’OPG e affermano la propria presenza. In una medesima prospettiva, ho cercato di cogliere alcuni aspetti del “detto” più malato che il malato possa proferire. Il segno della sua malattia. Il delirio. Dopo aver accettato che l’informazione, il capitale che ad essa si collega ed il loro uso possano essere colti sotto una molteplicità di piani – politico, strategico, emotivo, affettivo – che però non possono prescindere da una analisi delle logiche discorsive – di significati ed enunciati – che ne garantiscono la circolazione e la produzione, ho provato a ipotizzare che anche il delirio potesse essere pensato sempre come campo del discorso. Non più, appunto, come segno della malattia – cosa che implicherebbe entrare nel discorso della psichiatria. Né, meno che mai, come parola della resistenza politica, cui ridare la legittimità ontologica di una verità non compresa. Non si è trattato di ragionare della parola dell’internato né come segno di malattia né come una possibilità legittima di espressione del soggetto che la società, o qualcuno su sua procura, ha eliso. Si trattava, invece, di assumere la parola in quanto tale, la parola come parola, e cercare di interrogarsi su quali relazioni essa avesse con un campo di discorso e con l’esteriorità del mondo, a prescindere dalla sua prossimità alla mia – alla nostra – percezione del vero e del reale. Ho cercato cioè di problematizzare anche ciò che sembrava quanto mai delirante, la parola del folle, disinteressandomi del suo valore semiotico per il discorso che la osserva in funzione della cura e di quello che la custodisce in nome della libertà degli oppressi. Quello che da questi discorsi è emerso – o mi è sembrato emergere – è una relazione conflittuale con il tempo. E in effetti il tempo dell’OPG è un tempo non ordinario. Ragionare del tempo in OPG significa riflettere su un tempo che si arresta, che diventa un istante infinito che si dilata fino a collassare su sé stesso. È il tempo del regime di proroga, ovvero del dispositivo giuridico cui tutti gli internati sono sottoposti. In tale sistema, in cui il fine pena non è definito, la linearità del tempo, in cui i soggetti, abitualmente, inscrivono sé stessi ed in cui l’immaginazione del Sé e la progettualità sono il dato essenziale per affermare il proprio essere nel presente, scompare. L’orizzonte della temporalizzazione fluttua, inconsistente, e mette a repentaglio l’essere sociale dei soggetti. Cosa ci sarà domani? Molto probabilmente un oggi identico a sé stesso. E una tale risposta la si può dare per ogni giorno passato o a venire senza che si possa tenere il conto di ciò che transita e che si differenzia. L’attesa indefinita – a volte infinita – diviene la stasi assoluta. In questo contesto, alcuni manipolano il proprio tempo attraverso una struttura narrativa che ripropone ininterrottamente il rapporto che il soggetto ha con sé stesso e con il proprio tempo. Un modo differente di trasporre l’ineluttabilità dei fatti e di altre verità su un piano di realtà differente all’interno del quale il soggetto abbia ancora capacità di agire. A ciò si contrappone il discorso psichiatrico, che invece non può non considerare questo “detto” se non come malato. Sono due forme antagoniste di verità sul sé. Ed entrambe hanno un effetto performativo. Quella psichiatrica produce il contesto discorsivo entro cui vedere, isolare e – a volte – curare la malattia. Quella dell’internato invece ha una direttrice di azione differente: essa gli consente non solo di traslare il suo sé su un piano all’interno del quale egli abbia ancora una possibilità di controllo ma, ben più in profondità, questa riaffermazione di una presenza gli permette di sovvertire i codici morali che ne sanciscono la permanenza in un contesto detentivo. È un modo di produrre un orizzonte morale differente all’interno del quale la stasi del tempo non abbia più significato e la libertà imminente diventi pensabile. Il detto del malato diventa allora un atto linguistico da prendere in quanto tale, senza sovrascrivere in modo preliminare alcuna sovrainterpretazione che tenga fuori il soggetto che lo enuncia. Ciò che si deve interrogare, invece, è il contesto in cui esso viene enunciato e in cui esso assume, oltre al semplice significato, il suo senso complessivo. Parlare di questo “detto” che si relaziona in modo attivo al tempo, che esercita sul tempo un controllo e, facendo ciò, traspone il soggetto in un ordine temporale altro poiché in quello presente vi è solo crisi, significa in modo implicito – vale la pena sottolinearlo – parlare di una forma di sofferenza radicata fin nel profondo del Sé del soggetto che parla. Analizzare il mondo istituzione in questo modo significa introdurre anche una riflessione su cosa sia il potere all’interno di un tale sistema sociale. È evidente che esiste una forma di potere intesa come momento dell’esercizio di una certa verticalità, di un dominio, di un controllo. Vorrei, tuttavia, intendere questi termini – verticalità, dominio, controllo – in senso non normativo, ovvero non collegando ad essi alcun giudizio morale e politico. Non si tratta, in questa sede, di procedere ad una critica sistematica dei dislivelli potenziali che strutturano gli universi istituzionali ed il loro modo di tradursi in atto, in pratiche. Parlando infatti di universo istituzionale voglio intendere una logica che potrebbe essere pensata come simile all’interno di ogni declinazione storica e contingente di ciò che è lo Stato. In quest’ottica, un OPG potrebbe non differire da un qualsiasi contesto universitario, da un reparto sanitario, da un ufficio amministrativo. In quanto istituzione esso è strutturato secondo un organigramma piramidale, secondo una gerarchia sociale che separa i ruoli, le funzioni e i compiti dei vari attori sociali che in esso agiscono. L’esercizio del potere di tipo verticale, che si manifesta procedendo dall’alto verso il basso, è unidirezionale e formalmente non reversibile. Sottolineare l’esistenza di una tale forma di differenziazione sociale all’interno del contesto istituzionale rischia di essere assolutamente banale. Parlare di potere, invece, mi sembra interessante se lo si fa partendo da una prospettiva foucaultiana. E non potrebbe non essere così, visto che ciò che ho tentato di far emergere è l’assoluta preminenza all’interno dell’OPG di tutto ciò che è discorso e pratiche di enunciazione. Ciò che intendo ipotizzare – ma che sarebbe complesso affermare in una teoria generale e consistente, visto lo stadio ancora seminale di questa ricerca – è che non si possa tenere fuori dall’analisi complessiva delle pratiche agite in OPG un certo modo di intendere il potere: un fitto insieme di relazioni che legano i soggetti tra di loro e, in più, li legano ad un determinato campo del discorso. Significa dunque reinserire la dimensione del potere, ma rivolgersi ad esso non come ad una essenza, cercando di evitare qualsiasi metafisica o ontologia del potere – come ha sempre auspicato Michel Foucault –, ma pensarlo come quel campo di possibilità attraverso il quale i soggetti assumono una posizione all’interno di quel campo di battaglia che è l’OPG e si pensano e si dicono in funzione degli altri. Il potere allora – o meglio le relazioni di potere, che è un modo di considerare il potere che dovrebbe evitare fraintendimenti essenzializzanti – diventa, in questo modo di considerare i soggetti e i discorsi, una struttura e una funzione di posizione nel campo sociale. Il potere non è un’entità a sé stante bensì un “qualcosa” di diffuso, che attraversa i soggetti su cui si esercita e li trasforma. Per questo motivo è corretto parlare di relazioni di potere mentre sarebbe fuorviante ridurre la complessità del contesto istituzionale dell’OPG a mere relazioni di domino. A ciò bisogna aggiungere che non si può confondere la molteplicità cangiante e ubiqua delle relazioni di potere con la fissità delle relazioni di dominio poiché, come ha chiaramente espresso Foucault, il potere – colto in questa prospettiva – può esistere solo a condizione della presenza di una specifica dimensione esperienziale del soggetto: la libertà. Il regime che permette la produzione di condizioni che possano lasciare emergere un soggetto, una soggettività, delle pratiche di veridizione sussiste solamente nell’ordine della libertà. Il potere, nella sua massima espressione, esiste infatti unicamente come interazione complessa tra un sistema di segni, un set di capacità oggettive e un insieme di relazioni di potere e, in quanto tale, esso non può mai negare la libertà dei soggetti che esso contribuisce a creare. Questo tipo di libertà, correlato essenziale del soggetto foucaultiano, è precisamente la possibilità di invertire le relazioni di potere e di divenire agente di produzione di verità. Il potere si costituisce, dunque, come un agente di produzione di discorso. È proprio in questo senso che avanzerei la mia ipotesi: non è possibile pensare all’OPG senza includere questa dimensione del potere come struttura relazionale. Al di fuori di questa condizione di possibilità, sarebbe impensabile far emergere quell’incessante attività negoziale e discorsiva che coinvolge i soggetti e che permette loro di pensarsi e ripensarsi, costruirsi e disfarsi secondo ordini molteplici di prossimità e alterità.
22-feb-2018
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Tesi dottorato Quarta

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Tipologia: Tesi di dottorato
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11573/1110758
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