1. Il contributo concorsuale, ad avviso del legislatore del ’30, deve individuarsi mediante il criterio causale in senso naturalistico, per cui gli antecedenti posti in essere dai concorrenti possono essere penalmente rilevanti, solo allorché gli stessi costituiscano “condizioni necessarie” dell’evento offensivo. Nondimeno, lo stesso legislatore, con il primo comma dell’art. 114 c.p.i., consente l’attenuazione sanzionatoria all’opera di minima importanza, in presenza della quale si versa senz’altro al di fuori del contributo essenziale. Sembra facile intuire la contraddizione logica: da un lato, la rilevanza penale di una condotta di partecipazione si fonda sulla sua effettiva condizionalità; dall’altro, la diminuzione della pena dipende invece dalla marginalità oggettiva, ossia dalla mancata condizionalità della stessa. La richiesta della condicio sine qua non, per connettere il fatto illecito alla singola partecipazione materiale, finisce per essere un criterio eccessivamente esigente. L’imputazione causale fatta dai compilatori del codice Rocco è altresì colpita da contestazioni nel settore del concorso morale, laddove il secondo termine della catena eziologica si riduce in un dato mentale, e l’accertamento della c.d. causalità psichica perciò rischia di cadere in una valutazione sostanzialmente di carattere presuntivo. La degradazione dalla formula di effettiva causalità a quella di prognosi postuma, sul piano formale, è incompatibile con la regola dettata dall’art. 115 c.p.i.; sul piano sostanziale, prevalendo l’atteggiamento soggettivo rispetto all’efficacia causale, viola il principio di offensività. Nel concorso di persone nel reato, l’evento offensivo si realizza in forza della “concatenazione” e del “susseguirsi” delle azioni individuali. Dalla sua peculiarità strutturale rapportata alla produzione del risultato storico, emerge l’inidoneità dell’imputazione causale alla stregua del reato monosoggettivo. Per stabilire la rilevanza penale-concorsuale non è più necessaria la condicio sine qua non, essendo sufficiente un’effettiva incidenza sulla realizzazione criminosa. Dalla reale concorsualità si ricava il criterio oggettivo di imputazione valido per ciascun concorrente. Il nesso di condizionalità deve essere meramente intercorrente tra la riunione delle singole condotte partecipative e l’evento offensivo. Solo su questa scorta potrebbe essere logicamente giustificato il passo in avanti verso la graduazione giudiziale della pena per ciascun concorrente in chiave oggettiva. La posticipazione, a partire dal codice Zanardelli, dell’incidenza prodotta da circostanze, insieme all’introduzione dei criteri-guida di quantificazione della pena-base quale novità del codice Rocco, contribuiscono ad instaurare il meccanismo di commisurazione della pena in senso moderno. L’art. 133 c.p.i. riveste un connotato onnicomprensivo, che implica un rapporto di genere a specie intercorrente tra circostanze improprie e quelle proprie. Da ciò sorgerebbe il problema dell’eventuale bis in idem. Davanti a questa specifica convergenza di norme, anche se si intenda il termine “idem” per il fatto legale, l’inapplicabilità dell’art. 15 c.p.i. - in ragione della realtà del contrasto tra le norme ai fini eterogenei - non vale necessariamente a giustificare la doppia valutazione del medesimo fattore, in quanto anche l’art. 63, comma 1 c.p.i., quale disposizione speciale rispetto all’art. 15 c.p.i., viene interpretato nel senso del ne bis in idem. Resta invece da notare l’orientamento, condiviso dalla Corte di Strasburgo, per il quale il punto di riferimento dell’idem deve essere, anziché l’astratta previsione, il fatto concreto. Detto questo, ci sarà il discorso che di ogni elemento già considerato in sede di fissazione della pena-base è sempre vietata la rivalutazione per stabilire la variazione sanzionatoria ancorata alle circostanze. Quindi, va esaminata caso per caso la reale sussistenza di una duplicazione nella valutazione. Sennonché, nell’esercizio del potere discrezionale, senza l’effettivo controllo garantistico, il giudice non è obbligato ad esporre in modo dettagliato i parametri concretamente apprezzati per la fissazione della pena-base. Da ciò risulta comprensibile come sfumi ogni preoccupazione per l’eventuale bis in idem nella pratica giudiziale. In tema di quantificazione della pena-base dei concorrenti, data l’ammissione a livello costituzionale della connotazione retributiva di pena a cagione dell’art. 27, comma 3 Cost., va affermata una diretta correlazione tra l’istanza rieducativa e l’imprescindibilità degli elementi scolpiti dalla prima parte dell’art. 133 c.p.i.. Nella prospettiva teorica, verrebbe trovato un effetto differenziatore di pena tanto nel comma 1, n.1 di questa norma, concernente le modalità dell’azione, che dovrebbero intendere in proposito le caratteristiche delle condotte individuali, quanto nel n. 3 del medesimo comma dell’art. 133 c.p.i. riferito all’intensità del dolo dei singoli concorrenti. In giurisprudenza emerge tuttavia una tendenza diversa: le pressoché esclusive considerazioni del fatto concorsuale nel suo complesso e la conseguente equiparazione della pena-base nella maggior parte dei casi. Tale tendenza unitaria rimane altresì individuabile in sede di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. Anche tra le pochissime pronunce in cui per l’esecutore materiale e per l’ausiliatore è stata identificata una pena-base differente, l’accaduta diversificazione sanzionatoria, invece di essere riconducibile alla distinta rilevanza oggettiva di ciascuna condotta nella produzione dell’evento tipico, risulta fondata sui moltissimi precedenti penali o giudiziari dell’esecutore da cui se ne può desumere un’elevata capacità a delinquere. Una volta determinata la pena-base dei concorrenti, intervengono le circostanze proprie, in specie quelle del concorso di cui agli artt. 111, 112 e 114 c.p.i., tra le quali la più significativa ed al contempo più controversa consiste nella diminuzione per il contributo di minima importanza di cui all’art. 114, comma 1 c.p.i.. La prevalente dottrina italiana, sulla base del testo normativo, riconoscendo a questa circostanza un carattere oggettivistico, per la sua concessione ritiene necessario il valore lievissimo dell’opera rispetto all’evento storico. Sembra altrettanto pacifico escludere il contributo necessario dal campo di minima partecipazione, con la conseguenza che quest’attenuante vada riferita solo al contributo agevolatore. Ciò non significa tuttavia che tutti i contributi non essenziali meritino una pena ridotta, occorrendo ulteriormente pesarne l’efficienza oggettiva sull’impresa delittuosa. In giurisprudenza, dall’atteggiamento di tipo oltremodo restrittivo di fronte all’attenuante in discorso, tenuto presente il criterio di assoluta marginalità eziologica dell’apporto desunta dalla sua trascurabilità, sostituibilità o non indispensabilità, si può in qualche misura comprenderne la rarissima applicazione, che induce l’esito del giudizio pratico verso due poli, o esentare il soggetto dalla responsabilità penale, o condannare lo stesso alla pena per il reato stabilita senza concessione dell’attenuazione sanzionatoria. Nelle pochissime ipotesi di concessione è infatti rinvenibile un evidente ammorbidimento del canone valutativo, rappresentato, o dalla semplificazione della richiesta ad un valore marginale rispetto al contributo altrui, o dalla sostanziale valorizzazione della condizione subordinata del partecipe, oppure dal fittizio giudizio sulla non indispensabilità dell’opera caratterizzato in realtà da dubbi sulla rilevanza penale. Considerata l’incompetenza dell’attuale norma nei riguardi della funzione differenziatrice emerge la necessità della riforma: trasformare la sua applicazione facoltativa in obbligatoria e contemperarne il rigorismo testuale. A questo scopo, si rende necessaria una nuova alternativa fondamentale tra la proporzione della pena rispetto alla gravità della singola partecipazione, da un verso, e l’inasprimento sanzionatorio sollevato dalle esigenze generalpreventive contro la compartecipazione criminosa, dall’altro. In tal proposito, a vincolare la discrezionalità arbitraria del legislatore, occorre sottoporre la scelta al pluridimensionale controllo costituzionale garantito dagli artt. 3 e 27 Cost.. 2. Una delle caratteristiche fondamentali della disciplina cinese è rappresentata dal fermo paradigma intersoggettivo caratterizzante l’intero istituto della compartecipazione criminosa: la regola punitiva per i compartecipi si sostanzia nella concreta comparazione dell’entità oggettiva tra i vari apporti; e la maggior parte dei problemi in ordine all’imputazione, quale presupposto della punizione, è infatti risolta - almeno in modo formale - dal rapporto comune nella commissione del reato intercorrente tra i vari soggetti partecipanti. La normativa cinese in tale ambito è contrassegnata in generale dal modello in cui alle varie categorie di partecipazione tipizzate sulla base del ruolo assunto non corrisponde né l’autonomo titolo di reato né la distinta cornice edittale sanzionatoria. Con la bipartizione tra reo principale e complice, la legge cinese scandisce il proprio criterio fondamentale della commisurazione della pena, consistente nella concreta importanza del contributo alla realizzazione criminosa. Si trova la diminuzione obbligatoria della pena sganciata dalla figura partecipativa astrattamente delineata, ma collegata alla minore rilevanza oggettiva della condotta posta in essere concretamente. Nondimeno, solo al complice potendosi riconoscere l’applicazione della figura circostanziale, la concezione di reo principale risulta in realtà qualificata come figura-base di compartecipe, perché con l’avvento della riforma del 1997, la pena non va più aumentata per chi abbia arrecato un contributo di grande importanza. 3. Una siffatta soluzione cinese sembra collocarsi a metà strada tra modello unitario e modello differenziato. Rispetto alla disciplina italiana attualmente vigente, la legislazione cinese tende a separare in modo più netto l’aspetto dell’an della responsabilità dei compartecipi da quello riguardante il suo quantum, mantenendo la determinatezza delle forme di partecipazione e garantendo per altra via una loro differenziazione a livello sanzionatorio. A proposito della commisurazione della pena dei concorrenti, rispetto all’ordinamento italiano, il sistema cinese è più caratterizzato dall’idea oggettivistica. È tuttavia da confermare la maggior severità in termini sanzionatori del modello concorsuale italiano. Il discorso, invece degli effetti finali della legge, concerne il suo trattamento generalmente svantaggioso per coloro che abbiano concorso nel reato, rappresentato innanzitutto dal “perfetto” mantenimento del principio di equiparazione della pena per tutti i compartecipi tanto sul piano legislativo quanto nell’ambito applicativo. In confronto, nell’ordinamento cinese, grazie alla previsione dell’art. 27 c.p.c., che impone un trattamento favorevole a chi si sia impegnato meno di altri, la diminuzione sanzionatoria a seconda delle note oggettive finisce per essere un’attività normale dell’individuazione concreta della pena per i compartecipi. La minore severità del regime cinese è peraltro riconoscibile attraverso il raffronto dell’unica aggravante ex art. 29, comma 1 c.p.c., con la nutrita serie di aggravanti delineate dagli artt. 111 e 112 c.p.i.. Se è innegabile che la normativa concorsuale italiana possa essere spiegata principalmente in chiave repressiva quale strumento di lotta contro la criminalità plurisoggettiva, altrettanto vero è, allora, che le norme degli artt. 25-29 c.p.c. tendano ad adeguare la sanzione al disvalore della condotta partecipativa posta in essere da ciascuno. Una siffatta scelta è legata alle peculiarità della legislazione penale cinese: a) la pena edittale per i reati di parte speciale si collega alla gravità del danno prodotto; b) l’aumento della sanzione legale a cagione della maggiore gravità del danno implica un sensibile aumento del minimo edittale; c) solo in presenza di una circostanza attenuante ad effetto speciale, sarebbe concedibile una riduzione giudiziale della pena al di sotto del minimo edittale. In questo contesto, se la diminuente inerente all’importanza dell’opera prestata da taluno dei partecipi fosse normativamente formulata allo stesso modo dell’art. 114, comma 1 c.p.i., si avrebbero risposte punitive straordinariamente severe. Ai fini di una sanzione proporzionata, conviene peraltro estenderne relativamente l’operativià nella pratica giudiziale. In una prospettiva de iure condendo, si dovrebbero mantenere separati i due piani della qualificazione e quantificazione del contributo concorsuale. Atta ad orientare l’individuazione giudiziale delle condotte penalmente rilevanti, potrebbe ritenersi sufficientemente univoca la riformulazione del seguente tenore: chiunque, dolosamente, partecipa all’esecuzione del reato, o istiga altri a commettere lo stesso, o presta un aiuto nella sua preparazione o esecuzione, ovvero organizza l’attività criminosa medesima soggiace alla pena per questo prevista, salve le disposizioni degli articoli seguenti. Sul piano sanzionatorio, la soluzione preferibile può cogliersi nell’esplicita prescrizione normativa dei parametri di cui il giudice deve tener conto nella graduazione della pena tra i compartecipi, affiancandosi l’uno all’altro i criteri dell’importanza oggettiva del contributo al reato e del grado di colpevolezza del compartecipe. Avvertito il pregio dello schema fedele al raffronto ai fini sanzionatori nell’ambito delle condotte di tutti i compartecipi, che consiste nel far meglio rispettare il principio di proporzione, non dovrebbe registrare mutamenti di rilievo la disposizione dell’art. 27 c.p.c.. Successivamente, in chiave normativa il riconoscimento alla colpevolezza di un ruolo autonomo nella commisurazione della pena richiede di coordinare gli effetti giuridici contenuti negli artt. 27 e 28 c.p.c.. Allo stesso fine, conviene anche integrare il novero dei soggetti passivi richiamati dall’aggravante dell’art. 29 c.p.c., legata ad un maggiore grado di colpevolezza, inserendo, al di là del minore di anni diciotto, la persona in stato di infermità o di totale o parziale incapacità psichica.

LA COMMISURAZIONE DELLA PENA NEL CASO DI CONCORSO DI PERSONE NEL REATO / Geng, Jianing. - (2017 Feb 21).

LA COMMISURAZIONE DELLA PENA NEL CASO DI CONCORSO DI PERSONE NEL REATO

GENG, JIANING
21/02/2017

Abstract

1. Il contributo concorsuale, ad avviso del legislatore del ’30, deve individuarsi mediante il criterio causale in senso naturalistico, per cui gli antecedenti posti in essere dai concorrenti possono essere penalmente rilevanti, solo allorché gli stessi costituiscano “condizioni necessarie” dell’evento offensivo. Nondimeno, lo stesso legislatore, con il primo comma dell’art. 114 c.p.i., consente l’attenuazione sanzionatoria all’opera di minima importanza, in presenza della quale si versa senz’altro al di fuori del contributo essenziale. Sembra facile intuire la contraddizione logica: da un lato, la rilevanza penale di una condotta di partecipazione si fonda sulla sua effettiva condizionalità; dall’altro, la diminuzione della pena dipende invece dalla marginalità oggettiva, ossia dalla mancata condizionalità della stessa. La richiesta della condicio sine qua non, per connettere il fatto illecito alla singola partecipazione materiale, finisce per essere un criterio eccessivamente esigente. L’imputazione causale fatta dai compilatori del codice Rocco è altresì colpita da contestazioni nel settore del concorso morale, laddove il secondo termine della catena eziologica si riduce in un dato mentale, e l’accertamento della c.d. causalità psichica perciò rischia di cadere in una valutazione sostanzialmente di carattere presuntivo. La degradazione dalla formula di effettiva causalità a quella di prognosi postuma, sul piano formale, è incompatibile con la regola dettata dall’art. 115 c.p.i.; sul piano sostanziale, prevalendo l’atteggiamento soggettivo rispetto all’efficacia causale, viola il principio di offensività. Nel concorso di persone nel reato, l’evento offensivo si realizza in forza della “concatenazione” e del “susseguirsi” delle azioni individuali. Dalla sua peculiarità strutturale rapportata alla produzione del risultato storico, emerge l’inidoneità dell’imputazione causale alla stregua del reato monosoggettivo. Per stabilire la rilevanza penale-concorsuale non è più necessaria la condicio sine qua non, essendo sufficiente un’effettiva incidenza sulla realizzazione criminosa. Dalla reale concorsualità si ricava il criterio oggettivo di imputazione valido per ciascun concorrente. Il nesso di condizionalità deve essere meramente intercorrente tra la riunione delle singole condotte partecipative e l’evento offensivo. Solo su questa scorta potrebbe essere logicamente giustificato il passo in avanti verso la graduazione giudiziale della pena per ciascun concorrente in chiave oggettiva. La posticipazione, a partire dal codice Zanardelli, dell’incidenza prodotta da circostanze, insieme all’introduzione dei criteri-guida di quantificazione della pena-base quale novità del codice Rocco, contribuiscono ad instaurare il meccanismo di commisurazione della pena in senso moderno. L’art. 133 c.p.i. riveste un connotato onnicomprensivo, che implica un rapporto di genere a specie intercorrente tra circostanze improprie e quelle proprie. Da ciò sorgerebbe il problema dell’eventuale bis in idem. Davanti a questa specifica convergenza di norme, anche se si intenda il termine “idem” per il fatto legale, l’inapplicabilità dell’art. 15 c.p.i. - in ragione della realtà del contrasto tra le norme ai fini eterogenei - non vale necessariamente a giustificare la doppia valutazione del medesimo fattore, in quanto anche l’art. 63, comma 1 c.p.i., quale disposizione speciale rispetto all’art. 15 c.p.i., viene interpretato nel senso del ne bis in idem. Resta invece da notare l’orientamento, condiviso dalla Corte di Strasburgo, per il quale il punto di riferimento dell’idem deve essere, anziché l’astratta previsione, il fatto concreto. Detto questo, ci sarà il discorso che di ogni elemento già considerato in sede di fissazione della pena-base è sempre vietata la rivalutazione per stabilire la variazione sanzionatoria ancorata alle circostanze. Quindi, va esaminata caso per caso la reale sussistenza di una duplicazione nella valutazione. Sennonché, nell’esercizio del potere discrezionale, senza l’effettivo controllo garantistico, il giudice non è obbligato ad esporre in modo dettagliato i parametri concretamente apprezzati per la fissazione della pena-base. Da ciò risulta comprensibile come sfumi ogni preoccupazione per l’eventuale bis in idem nella pratica giudiziale. In tema di quantificazione della pena-base dei concorrenti, data l’ammissione a livello costituzionale della connotazione retributiva di pena a cagione dell’art. 27, comma 3 Cost., va affermata una diretta correlazione tra l’istanza rieducativa e l’imprescindibilità degli elementi scolpiti dalla prima parte dell’art. 133 c.p.i.. Nella prospettiva teorica, verrebbe trovato un effetto differenziatore di pena tanto nel comma 1, n.1 di questa norma, concernente le modalità dell’azione, che dovrebbero intendere in proposito le caratteristiche delle condotte individuali, quanto nel n. 3 del medesimo comma dell’art. 133 c.p.i. riferito all’intensità del dolo dei singoli concorrenti. In giurisprudenza emerge tuttavia una tendenza diversa: le pressoché esclusive considerazioni del fatto concorsuale nel suo complesso e la conseguente equiparazione della pena-base nella maggior parte dei casi. Tale tendenza unitaria rimane altresì individuabile in sede di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. Anche tra le pochissime pronunce in cui per l’esecutore materiale e per l’ausiliatore è stata identificata una pena-base differente, l’accaduta diversificazione sanzionatoria, invece di essere riconducibile alla distinta rilevanza oggettiva di ciascuna condotta nella produzione dell’evento tipico, risulta fondata sui moltissimi precedenti penali o giudiziari dell’esecutore da cui se ne può desumere un’elevata capacità a delinquere. Una volta determinata la pena-base dei concorrenti, intervengono le circostanze proprie, in specie quelle del concorso di cui agli artt. 111, 112 e 114 c.p.i., tra le quali la più significativa ed al contempo più controversa consiste nella diminuzione per il contributo di minima importanza di cui all’art. 114, comma 1 c.p.i.. La prevalente dottrina italiana, sulla base del testo normativo, riconoscendo a questa circostanza un carattere oggettivistico, per la sua concessione ritiene necessario il valore lievissimo dell’opera rispetto all’evento storico. Sembra altrettanto pacifico escludere il contributo necessario dal campo di minima partecipazione, con la conseguenza che quest’attenuante vada riferita solo al contributo agevolatore. Ciò non significa tuttavia che tutti i contributi non essenziali meritino una pena ridotta, occorrendo ulteriormente pesarne l’efficienza oggettiva sull’impresa delittuosa. In giurisprudenza, dall’atteggiamento di tipo oltremodo restrittivo di fronte all’attenuante in discorso, tenuto presente il criterio di assoluta marginalità eziologica dell’apporto desunta dalla sua trascurabilità, sostituibilità o non indispensabilità, si può in qualche misura comprenderne la rarissima applicazione, che induce l’esito del giudizio pratico verso due poli, o esentare il soggetto dalla responsabilità penale, o condannare lo stesso alla pena per il reato stabilita senza concessione dell’attenuazione sanzionatoria. Nelle pochissime ipotesi di concessione è infatti rinvenibile un evidente ammorbidimento del canone valutativo, rappresentato, o dalla semplificazione della richiesta ad un valore marginale rispetto al contributo altrui, o dalla sostanziale valorizzazione della condizione subordinata del partecipe, oppure dal fittizio giudizio sulla non indispensabilità dell’opera caratterizzato in realtà da dubbi sulla rilevanza penale. Considerata l’incompetenza dell’attuale norma nei riguardi della funzione differenziatrice emerge la necessità della riforma: trasformare la sua applicazione facoltativa in obbligatoria e contemperarne il rigorismo testuale. A questo scopo, si rende necessaria una nuova alternativa fondamentale tra la proporzione della pena rispetto alla gravità della singola partecipazione, da un verso, e l’inasprimento sanzionatorio sollevato dalle esigenze generalpreventive contro la compartecipazione criminosa, dall’altro. In tal proposito, a vincolare la discrezionalità arbitraria del legislatore, occorre sottoporre la scelta al pluridimensionale controllo costituzionale garantito dagli artt. 3 e 27 Cost.. 2. Una delle caratteristiche fondamentali della disciplina cinese è rappresentata dal fermo paradigma intersoggettivo caratterizzante l’intero istituto della compartecipazione criminosa: la regola punitiva per i compartecipi si sostanzia nella concreta comparazione dell’entità oggettiva tra i vari apporti; e la maggior parte dei problemi in ordine all’imputazione, quale presupposto della punizione, è infatti risolta - almeno in modo formale - dal rapporto comune nella commissione del reato intercorrente tra i vari soggetti partecipanti. La normativa cinese in tale ambito è contrassegnata in generale dal modello in cui alle varie categorie di partecipazione tipizzate sulla base del ruolo assunto non corrisponde né l’autonomo titolo di reato né la distinta cornice edittale sanzionatoria. Con la bipartizione tra reo principale e complice, la legge cinese scandisce il proprio criterio fondamentale della commisurazione della pena, consistente nella concreta importanza del contributo alla realizzazione criminosa. Si trova la diminuzione obbligatoria della pena sganciata dalla figura partecipativa astrattamente delineata, ma collegata alla minore rilevanza oggettiva della condotta posta in essere concretamente. Nondimeno, solo al complice potendosi riconoscere l’applicazione della figura circostanziale, la concezione di reo principale risulta in realtà qualificata come figura-base di compartecipe, perché con l’avvento della riforma del 1997, la pena non va più aumentata per chi abbia arrecato un contributo di grande importanza. 3. Una siffatta soluzione cinese sembra collocarsi a metà strada tra modello unitario e modello differenziato. Rispetto alla disciplina italiana attualmente vigente, la legislazione cinese tende a separare in modo più netto l’aspetto dell’an della responsabilità dei compartecipi da quello riguardante il suo quantum, mantenendo la determinatezza delle forme di partecipazione e garantendo per altra via una loro differenziazione a livello sanzionatorio. A proposito della commisurazione della pena dei concorrenti, rispetto all’ordinamento italiano, il sistema cinese è più caratterizzato dall’idea oggettivistica. È tuttavia da confermare la maggior severità in termini sanzionatori del modello concorsuale italiano. Il discorso, invece degli effetti finali della legge, concerne il suo trattamento generalmente svantaggioso per coloro che abbiano concorso nel reato, rappresentato innanzitutto dal “perfetto” mantenimento del principio di equiparazione della pena per tutti i compartecipi tanto sul piano legislativo quanto nell’ambito applicativo. In confronto, nell’ordinamento cinese, grazie alla previsione dell’art. 27 c.p.c., che impone un trattamento favorevole a chi si sia impegnato meno di altri, la diminuzione sanzionatoria a seconda delle note oggettive finisce per essere un’attività normale dell’individuazione concreta della pena per i compartecipi. La minore severità del regime cinese è peraltro riconoscibile attraverso il raffronto dell’unica aggravante ex art. 29, comma 1 c.p.c., con la nutrita serie di aggravanti delineate dagli artt. 111 e 112 c.p.i.. Se è innegabile che la normativa concorsuale italiana possa essere spiegata principalmente in chiave repressiva quale strumento di lotta contro la criminalità plurisoggettiva, altrettanto vero è, allora, che le norme degli artt. 25-29 c.p.c. tendano ad adeguare la sanzione al disvalore della condotta partecipativa posta in essere da ciascuno. Una siffatta scelta è legata alle peculiarità della legislazione penale cinese: a) la pena edittale per i reati di parte speciale si collega alla gravità del danno prodotto; b) l’aumento della sanzione legale a cagione della maggiore gravità del danno implica un sensibile aumento del minimo edittale; c) solo in presenza di una circostanza attenuante ad effetto speciale, sarebbe concedibile una riduzione giudiziale della pena al di sotto del minimo edittale. In questo contesto, se la diminuente inerente all’importanza dell’opera prestata da taluno dei partecipi fosse normativamente formulata allo stesso modo dell’art. 114, comma 1 c.p.i., si avrebbero risposte punitive straordinariamente severe. Ai fini di una sanzione proporzionata, conviene peraltro estenderne relativamente l’operativià nella pratica giudiziale. In una prospettiva de iure condendo, si dovrebbero mantenere separati i due piani della qualificazione e quantificazione del contributo concorsuale. Atta ad orientare l’individuazione giudiziale delle condotte penalmente rilevanti, potrebbe ritenersi sufficientemente univoca la riformulazione del seguente tenore: chiunque, dolosamente, partecipa all’esecuzione del reato, o istiga altri a commettere lo stesso, o presta un aiuto nella sua preparazione o esecuzione, ovvero organizza l’attività criminosa medesima soggiace alla pena per questo prevista, salve le disposizioni degli articoli seguenti. Sul piano sanzionatorio, la soluzione preferibile può cogliersi nell’esplicita prescrizione normativa dei parametri di cui il giudice deve tener conto nella graduazione della pena tra i compartecipi, affiancandosi l’uno all’altro i criteri dell’importanza oggettiva del contributo al reato e del grado di colpevolezza del compartecipe. Avvertito il pregio dello schema fedele al raffronto ai fini sanzionatori nell’ambito delle condotte di tutti i compartecipi, che consiste nel far meglio rispettare il principio di proporzione, non dovrebbe registrare mutamenti di rilievo la disposizione dell’art. 27 c.p.c.. Successivamente, in chiave normativa il riconoscimento alla colpevolezza di un ruolo autonomo nella commisurazione della pena richiede di coordinare gli effetti giuridici contenuti negli artt. 27 e 28 c.p.c.. Allo stesso fine, conviene anche integrare il novero dei soggetti passivi richiamati dall’aggravante dell’art. 29 c.p.c., legata ad un maggiore grado di colpevolezza, inserendo, al di là del minore di anni diciotto, la persona in stato di infermità o di totale o parziale incapacità psichica.
21-feb-2017
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