Obiettivo della dissertazione è indagare il ruolo delle nuove tecnologie digitali e l’emergere di concetti derivati dal pensiero scientifico e filosofico contemporaneo - quali quelli di organizzazione, autorganizzazione, feedback/ricorsività - all’interno di alcune ricerche architettoniche contemporanee. Ciò che, in particolare, caratterizza tali ricerche è la centralità del processo progettuale e la tendenza, attraverso strumenti di generazione della forma dinamici ed evolutivi, ad assimilare sempre più l’architettura e le sue dinamiche organizzative al mondo vivente. L’emergere in architettura di questo nuovo paradigma, caratterizzato dal prevalere degli aspetti relazionali, è strettamente legato all’uso dello strumento informatico (e dunque alla “rivoluzione informatica” in architettura) ed è il riflesso di un pensiero più ampio che caratterizza la nostra epoca: esiste, cioè, uno stretto legame tra processo creativo e tecnica e, di conseguenza, l’introduzione di nuovi strumenti e tecnologie modifica radicalmente non solo il modo di rapportarsi alla creazione artistica ma, più in generale, le modalità secondo cui conosciamo e percepiamo ogni realtà. L’importanza della rivoluzione informatica in architettura è, perciò, strettamente legata non solo ai nuovi strumenti che introduce ma, più in generale, alla visione del mondo che afferma: la stretta relazione tra forma, strumento e pensiero è, dunque, il filo conduttore di una riflessione che intende indagare le potenzialità degli strumenti digitali in architettura e le sue conseguenze sulla pratica progettuale. L’architettura come creazione o manipolazione di forme è, allora, messa in relazione sia agli strumenti informatici utilizzati (e in particolare a quella pratica sempre più diffusa, che è la progettazione per algoritmi) sia alla visione del mondo derivante dal pensiero scientifico e filosofico contemporaneo. Punto di partenza della dissertazione è, per questo, il tema più vasto della “questione della tecnica” che diventa anche il quadro di riferimento generale per comprendere le architetture successivamente analizzate. Una riflessione sul problema della tecnica è sembrata, infatti, utile per indagare non solo le possibili conseguenze e le implicazioni dell’uso dei nuovi strumenti tecnologici nel campo dell’architettura ma anche per riflettere sul tema più generale del rapporto tra uomo e ambiente e tra natura e artificio, alla luce dei progressi sempre più rapidi della tecnologia e delle sue conseguenze sull’intero pianeta. Alcuni strumenti bibliografici – dal fondamentale saggio di Martin Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo (1938) ai più recenti testi di Michela Nacci, Pensare la tecnica. Un secolo di incomprensioni (2000) e della sociologa francese Céline Lafontaine, L'Empire cybernétique: des machines à penserà la pensée machine (2004) – hanno permesso di ripercorrere alcune delle riflessioni filosofiche e scientifiche sviluppate nel corso del Novecento, con particolare riferimento all’opposizione tra “tecnoscettici” e “transumanisti”: tra chi, cioè, vede nella tecnica un pericolo estremo e una minaccia per l’uomo e per l’ambiente e chi ne esalta, invece, le potenzialità. Attraverso i testi di autori quali Giuseppe O. Longo (Homo Technologicus, 2001), Carlo Sini (L’uomo, la macchina, l’automa. lavoro e conoscenza tra futuro prossimo e passato remoto, 2009) e Kevin Kelly (Out of control: la nuova biologia delle macchine, dei sistemi sociali e del mondo dell'economia, 1996) ci si è soffermati in particolare sui recenti fenomeni del post-umano e del transumanesimo: sulla prefigurazione, cioè, come ultima frontiera dell’applicazione delle teorie informatiche e cibernetiche, di un’evoluzione della specie umana attraverso l’ibridazione con la macchina. Tra demonizzazione e celebrazione della tecnica si è cercato di individuare un possibile percorso epistemologico per superare il carattere autoreferenziale e di dominio - che, comunque, lo sviluppo tecnologico assume nella civiltà occidentale - e porre le basi di un’etica della responsabilità in grado di orientare il rapporto con la tecnica anche nella nostra disciplina. È, allora, nel pensiero di due importanti protagonisti del Novecento, Martin Heidegger e Werner Heisenberg, che è stato individuato un possibile percorso di interpretazione del rapporto uomo/tecnica e uomo/natura. Tali temi rivestono un ruolo centrale nella costruzione del pensiero filosofico di Heidegger e, nonostante il forte pessimismo della sua visione - che considera la tecnica un processo inarrestabile di “dominio” dell’uomo sulla natura - è possibile individuare nei suoi scritti non solo una messa in guardia contri i pericoli della tecnica e un monito ad “aver cura” degli enti di natura, ma anche l’apertura a una speranza, l’indicazione di una strada che porti alla salvezza per l’uomo, la possibilità di trovare nella tecnica stessa una via di salvezza. Contemporaneo di Heidegger, Heisenberg è uno dei protagonisti della rivoluzione che nei primi decenni del Novecento, attraverso la meccanica quantistica e il principio di indeterminazione, sconvolse l’intero assetto delle scienze della natura: ma il suo ruolo va tuttavia ben oltre la portata scientifica delle sue ricerche e, toccando concetti fondamentali come quelli di realtà, spazio e tempo, ha avuto implicazioni filosofiche e risonanze più vaste: il principio di indeterminazione e, più in generale, la meccanica quantistica non hanno solo messo in crisi numerosi concetti fondamentali della fisica classica ma hanno posto le basi per una riflessione di carattere epistemologico e filosofico sulla necessità di instaurare nuovi rapporti tra uomo e natura, tra scienza e tecnica. A partire dagli anni Trenta Heidegger e Heisenberg furono protagonisti di una serie di incontri e colloqui che divennero importanti occasioni di confronto tra il pensiero filosofico dell’uno e le esperienze scientifiche dell’altro. Particolarmente rilevante è stata poi la partecipazione di entrambi a un ciclo di conferenze organizzate a Monaco dall’Accademia bavarese delle Belle Arti (presso la Technische Höchschule) nel 1953 dal titolo “La arti nell’età della tecnica”: in un momento di crisi che non riguardava solo le scienze e la filosofia ma ogni aspetto della vita dell’uomo – politico, sociale, economico, artistico - scopo del convegno era discutere del ruolo dell’arte e della figura dell’artista in un’epoca di grandi trasformazioni. Heidegger interviene al convegno con la conferenza La questione della tecnica, lo scritto che forse meglio sintetizza la sua posizione sul problema della tecnica e che tiene conto, spesso polemizzando con esso, dell’intervento di Heisenberg, dal titolo L’immagine della natura nella fisica contemporanea. Dall’analisi di entrambi i testi (il cui contenuto è stato analizzato in maniera puntuale nell’appendice al capitolo primo), nonchè dei principali scritti di Heidegger e di Heisenberg sul problema della tecnica e attraverso il riferimento a critici quali Otto Pöggeler e Pietro Chiodi, è stato possibile individuare possibili convergenze fra le posizioni dei due autori: entrambi, infatti, dopo aver delineato un quadro di riferimento volto a comprendere la questione della tecnica, il suo ruolo nella storia dell’umanità, i suoi rapporti con la scienza e con la filosofia, i pericoli cui espone l’uomo e la natura, individuano nella tecnica stessa una possibilità di salvezza, la possibilità di una strada da percorrere per ritrovare un rapporto più autentico con la natura e con l’essenza stessa dell’uomo. La definizione dell’essenza della tecnica moderna come Ge-stell (imposizione) che riduce la natura a “fondo da impiegare”(la terra come bacino carbonifero, il suolo come riserva di minerali, il fiume come produttore di forza idrica, ecc.) è il concetto chiave del pensiero di Heidegger. È questo modo di rapportarsi agli enti di natura il pericolo estremo, ciò che preclude all’uomo la possibilità di arrivare a un “disvelamento” più originario, a una verità più profonda: la relazione strumentale con l’ambiente ci impedisce di arrivare alla consapevolezza della natura sistemica del reale e ci fa continuare ad agire nei termini del dualismo cartesiano mente-materia e di contrapposizioni come uomo-ambiente. Se attraverso la tecnica intesa come Ge-stell la realtà sta di fronte all’uomo come ente separato e distinto da lui, oggetto da utilizzare e consumare, la nuova epistemologia delineata da Heisenberg pone la relazione al centro di ogni processo conoscitivo e creativo: l’impossibilità di rapportarci al reale in maniera oggettiva, conseguenza del principio di indeterminazione, determina lo sfumare dei confini tra soggetto e oggetto e, mettendo in crisi il dualismo cartesiano mente-materia e uomo-ambiente, costituisce la premessa per una consapevolezza della natura sistemica e interrelata della realtà di cui anche l’uomo fa parte. Definire possibilità e limiti della tecnica è, dunque, la sfida che, alla luce del pensiero di Heidegger e Heisenberg, ci pone la contemporaneità. La consapevolezza del limite suggerita da Heisenberg e la possibilità di un pensiero meditativo come ascolto di cui parla Heidegger possono guidare non solo la ricerca tecno-scientifica ma anche l’architettura verso nuovi percorsi di sostenibilità, di crescita e di sviluppo, verso un uso della tecnologia che sia non tanto uno strumento per mitigare gli effetti negativi dell’intervento umano sull’ambiente, quanto un mezzo per definire nuovi equilibri tra natura e artificio, tra artefatti e mondo vivente. Superare il concetto di im-posizione per abbracciare il pensiero relazionale emerso dalla scienza contemporanea, vuol dire, allora, in architettura elaborare una concezione del progetto in grado di far interagire tutti gli elementi legati al contesto e alla fruizione, superare logiche progettuali top-down (che sono quelle proprie della macchina o del robot, i cui comportamenti sono programmati a priori), schemi rigidi e preordinati, per aprirsi a processi bottom-up, che simulando i processi naturali, costruiscono a partire dalle relazioni tra gli elementi in gioco livelli di complessità sempre maggiori. A partire da ciò, la tecnologia può diventare lo “strumento” in grado di realizzare questo passaggio da una concezione dell’architettura come oggetto, entità statica, chiusa e autonoma a una che privilegi le interconnessioni dinamiche, le interrelazioni: l’elemento di svolta per l’architettura contemporanea non è, allora, costituito dalla tecnica in sé ma dalla capacità di stabilire una connessione e integrazione tra ecologia e informazione, di riproporre, cioè, attraverso gli strumenti informatici, le dinamiche evolutive presenti in natura. La possibilità di tradurre tali concetti in logiche di organizzazione per la generazione del progetto è indagata (nel secondo capitolo) a partire dagli sviluppi della cibernetica e del pensiero sistemico. Il rinnovamento della scienza avviato da Heisenberg prosegue, infatti, negli anni Quaranta con le ricerche cibernetiche e la Teoria Generale dei Sistemi che - attraverso i concetti di sistema, retroazione, informazione e organizzazione - sottolineano ulteriormente l’importanza delle interconnessioni e delle relazioni, pongono l’accento sul contesto, sulla necessità che ogni programma di modificazione parta dalla valutazione delle relazioni con l’esistente, determinano sempre più il passaggio da una conoscenza manipolatrice a una che mira alla comprensione dei fenomeni. Il concetto di organizzazione sistemica introdotto dalla prima cibernetica si amplia con il pensiero di Gregory Bateson che (in particolare attraverso gli scritti: Mente e Natura, un’unità necessaria e Verso un’ecologia della mente), introducendo le interazioni tra organismo e ambiente e l’idea di una struttura che connette mente e natura, segna il superamento dell’ idea di una realtà costituita da oggetti isolati e autosufficienti, regolati da leggi universali e necessarie, indipendenti dal soggetto conoscente e dal proprio ambiente. È proprio la relazione fra l’uomo e il più ampio sistema in cui vive – l’organismo-nel-suo-ambiente - a diventare centrale nella riflessione di Bateson che, rompendo con la tradizione di pensiero moderna e la sua concezione strumentale del rapporto con la natura, afferma una visione sistemica del mondo naturale e vede nell’uomo, nel sistema sociale e nell’ambiente naturale tre sistemi autocorrettivi considerati nel loro accoppiamento coevolutivo. La nuova visione introdotta dalla cibernetica influenza inoltre, già a partire dagli anni Cinquanta, anche gli sviluppi della biologia e della genetica, ponendo le basi, con il successivo passaggio al concetto di autorganizzazione, per una nuova definizione del concetto di vita. Il riferimento agli studi di Humberto Maturana e Francisco Varela (con l’introduzione dei concetti di autopoiesi e accoppiamento strutturale), di Conrad H. Waddington (con i concetti di creodo e paesaggio epigenetico), di Stuart Kaufmann (con i modelli di reti genetiche) e agli studi sulla vita artificiale (da von Neumann alle ricerche di Thomas Ray e John Horton Conway) ha permesso allora di individuare nel concetto di autorganizzazione il fondamento di una nuova fenomenologia del vivente (basata sulla tesi che la vita è forma e la forma è una realtà in divenire che si genera attraverso una molteplicità di interazioni fra l’organismo e il contesto in cui si muove) a partire da cui si pone, anche per l’architettura, la sfida di creare sistemi che si autorganizzino, che siano in grado, cioè, di creare equilibri dinamici tra l’uomo e tutte le componenti dell’ambiente in cui vive, di dissolvere le tradizionali opposizioni tra forma e funzione, tra parte e tutto, tra organismo e ambiente. È soprattutto a partire dagli anni Novanta che la ricerca architettonica comincia a sperimentare la possibilità di generare la forma attraverso processi genetici ed evolutivi. Tuttavia il pensiero sistemico e relazionale, che tenta di superare l’ordine gerarchico e il determinismo della scienza classica (sul modello della meccanica quantistica di Heisenberg), comincia negli stessi anni Venti-Trenta a spostare l’attenzione di alcuni architetti verso la logica della vita come processo essenzialmente formale e creativo, secondo una visione relazionale tra la forma in evoluzione e l’ambiente. Negli stessi anni Venti, in cui gran parte del Movimento Moderno elaborava un pensiero progettuale basato su una rigida codificazione e sulla piena fiducia nella razionalità tecnica e scientifica del piano, affiorano testimonianze di un modo diverso di intendere l’architettura: l’espressionismo di Eric Mendhelson e di Hans Scharoun, le "architetture alpine" di Bruno Taut, l’organicare di Hugo Häring o l’architettura organica di F. Lloyd Wright e Alvar Aalto. La dissertazione si sofferma in particolare sulle ricerche di Bruno Taut (La dissoluzione della città), Hugo Häring (Il segreto della forma) e Frederick Kiesler (On Correalism and Biotechnique) che, in alternativa alle logiche del funzionalismo, suggeriscono un’architettura ispirata alle logiche della vita e del pensiero sistemico. È solo a partire dai primi anni Sessanta però che diversi gli architetti che cominciano a far propria la visione sistemica emersa nel pensiero scientifico e a elaborare un’idea di architettura come parte di una dinamica naturale più complessa, sottosistema soggetto alle stesse leggi dell’universo: in seguito a una maggiore attenzione al tema del rapporto tra architettura e natura, dovuta alle prime denunce dei segnali della crisi ambientale (dalla diminuzione di risorse alle distruzioni causate dall’inquinamento) e a all’influsso delle teorie cibernetiche e informatiche, l’architettura comincia infatti a elaborare ricerche di una nuova integrazione fra costruito e ambiente, attuate attraverso il ricorso alla flessibilità e alla tecnologizzazione delle strutture per rispondere a esigenze di autocontrollo e autorganizzazione. Si è individuato in particolare nelle ricerche di Richard Buckminster Fuller, di Frei Otto, di Archigram e del Movimento Metabolista gli esempi più significativi di una dimensione relazionale del progetto e l’attenzione al processo piuttosto che alla forma: in queste ricerche l’architettura è vista come parte di una dinamica complessa in cui intervengono aspetti di ordine diverso - naturale, sociale, antropologico, politico, scientifico - e al cui centro c’è l’uomo. L'ideale di migliorare la qualità della vita dell’uomo è, infatti, il principale obiettivo di queste ricerche che, anche attraverso l'utilizzo di nuovi materiali e la sperimentazione di nuove tecnologie produttive e costruttive, tendono a una maggiore integrazione tra tecnica e natura e a proporre alternative allo sfruttamento delle risorse naturali messo in atto dal sistema industriale. Le ricerche degli anni Sessanta hanno anticipato molti dei temi che oggi la rivoluzione informatica ha portato in primo piano: i concetti di nomadismo, leggerezza, trasparenza, provvisorietà, flessibilità; le sperimentazioni sull'architettura bioclimatica; l'automatismo e la riflessione sulle strutture mobili sono divenuti centrali in molte ricerche architettoniche contemporanee sempre più basate sul concetto di sistema, sia nell’esito finale (prodotto) sia nel processo progettuale. Tuttavia è soprattutto negli ultimi due decenni che l’architettura, servendosi di strumenti di progettazione dinamici e generativi, ha tentato di trasferire al proprio interno le più recenti acquisizioni della scienza e della tecnica, trasformandosi (spesso) da oggetto meccanico a organismo intelligente, capace di captare e metabolizzare interazioni complesse con l’ambiente e l’utente: a porsi, dunque, come parte di una dinamica ampliata, sistema soggetto alle medesime leggi della natura. Si è visto, allora, nel tema del rapporto fra “tecnica, materia, forma” la premessa fondamentale per indagare l’elaborazione di un pensiero sistemico nella ricerca architettonica contemporanea: è da un lato, il pensiero della complessità - con gli sviluppi delle scienze (analizzate nell’appendice al capitolo terzo) e della filosofia - e, dall’altro, il diffondersi delle nuove tecnologie digitali a determinare una visione dinamica ed evolutiva della forma. Le ricerche scientifiche e il pensiero filosofico più recenti parlano di una realtà complessa e interrelata, le cui forme non sono strutture rigide ma “manifestazioni flessibili” dei processi sottostanti e, non più descrivibili con gli strumenti della geometria euclidea, rimandano a concetti quali quelli di frattale, superficie topologica, caos deterministico, ecc. Se la scienza descrive un universo le cui manifestazioni sono tutte, dalle particelle suba¬tomiche alle galassie, parte di una totalità ininterrotta, e la vita stessa si dispiega nella materia in stadi sempre più elevati di organizzazione, anche il pensiero filosofico suggeri¬sce l’idea di una realtà interconnessa e continua. Particolarmente importanti da questo punto di vista, anche per l’influenza che hanno avuto su molti architetti, sono le riflessioni di Gilles Deleuze e Félix Guattari: i concetti di phylum macchinico, introdotto in Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie (1980) e di piega, in Le pli. Leibniz et le Baroque (Deleuze 1988), descrivono una realtà permeata da una materia-energia continua che non ammette il vuoto ma si evolve e involve differenziandosi. A partire da questi presupposti è stato possibile definire la problematica della genesi della forma nel progetto di architettura, mettendone soprattutto in evidenza il carattere dinamico ed evolutivo: dalla geometria topologica alle ipersuperfici, dai blob alle pieghe, è in atto una chiara tendenza a cercare ed esplorare le proprietà della forma come fonti di sistemi di organizzazione. Metodi computazionali di esplorazione e generazione della forma, analoghi a quelli che governano sia la vita biologica che la materia inorganica, introducono nel processo progettuale possibilità di autogenerazione del modello in base alla variazione dei dati immessi dal progettista, in alcuni, casi, definiscono persino possibilità di autorganizzazione e autoaccrescimento, per cui, attraverso principi di retroazione, il modello si autoalimenta in un’evoluzione in cui il progetto definitivo rappresenta solo un’istantanea, ovvero un fermo-immagine di un flusso divenire. Sono le tecnologie digitali a segnare in architettura l’avvento di un nuovo paradigma: non solo perché, attraverso software di modellazione e disegno automatico, consentono di rappresentare e controllare facilmente forme molto complesse ma, soprattutto, perché modificano profondamente le modalità temporali e spaziali dell’intero processo progettuale: introducono multiple e differenti variabili, che non necessariamente hanno un’organizzazione gerarchica; azzerano il tempo lineare introducendo simultaneità e istantaneità; creano nuove configurazioni ibride trovando spesso nella natura non solo una fonte di ispirazione ma un vero e proprio modello da replicare; modificano profondamente, attraverso le più recenti tecnologie CAD/CAM, il rapporto tra concezione ed esecuzione del progetto. Il riferimento al testo di Kostas Terzidis, Expressive Form: A conceptual approach to computational design (2003) ha permesso di individuare e definire due possibili modalità di utilizzo degli strumenti informatici in architettura: quella che Terzidis definisce computation (calcolo) - che consiste nel determinare qualcosa con metodi logico-matematici – e quella che è definita computerization (informatizzazione) - che consiste invece, nell’immettere, elaborare o memorizzare informazioni in un sistema informatico. Se inizialmente, attraverso i primi software CAD nati negli anni Ottanta, il modo di utilizzare i computer in architettura era quello della computerization - entità o processi che sono già concettualizzati nella mente del progettista sono immessi, manipolati e memorizzati in un sistema informatico - dalla seconda metà degli anni Novanta gli strumenti informatici sono utilizzati per modificare gli stessi processi generativi del progetto: l’uso del calcolo (computation) o dell’elaborazione (computing), attraverso il computer, diventa strumento progettuale. Uno degli aspetti innovativi delle ricerche più recenti consiste nel nuovo ruolo che tali strumenti assumono nel processo progettuale e nelle relazioni che si instaurano tra proget¬tista e strumento informatico. Le ultime frontiere del computing stanno poi profondamente modificando le possibilità di applicazione dei processi computazionali e lo stesso ruolo dell’architetto: è la progettazione dello stesso strumento informatico a integrarsi nel processo progettuale e a consentire al progettista di non esserne più dipendente, ma di averne il pieno dominio. Lo scripting ha introdotto la possibilità per l’utente di adattare, personalizzare o riconfigurare completamente i programmi in base alle proprie predilezioni e modalità di lavoro: nuove famiglie di software, dotati di un’interfaccia grafica tale per cui lavorare sui codici non è più un lavoro per soli esperti di programmazione, consentono al progettista stesso di scrivere le regole, formali e non, che in varia maniera contribuiranno alla genesi della forma. Mark Burry parla di Scripting Cultures (M. Burry, Scripting Cultures. Architectural Design and Programming, 2011) per indicare il passaggio da un’era in cui gli architetti usano il software a una in cui lo creano. La programmazione tramite script, si sta dunque affermando come uno degli sviluppi più interessanti della progettazione digitale, e nella sua diffusione, attraverso eventi come Smartgeometry o di comunità online come il forum di Grasshopper®, è visto l’affermarsi di un vero e proprio pensiero algoritmico che sta rivoluzionando la pratica architettonica, dando agli architetti gli strumenti per controllare e modellare una realtà estremamente varia e articolata. Un ulteriore aspetto evidenziato riguardo al ruolo degli strumenti digitali nel processo progettuale è proprio il ricorso a procedimenti quali gli algoritmi genetici - alla base di molti programmi digitali per la generazione della forma utilizzati in architettura – che permettono di attuare strategie induttive per esplorare processi generativi o simulare fenomeni complessi. A partire dal ruolo che hanno avuto negli studi sull’intelligenza e sulla vita artificiale (per cui si è fatti riferimento in particolare al testo di Claus Emmeche, Il giardino nella macchina. Della vita artificiale, 1996), attraverso gli scritti di vati autori (Florian Sauter, Cecil Balmond, Karl S. Chu, Sanford Kwinter) si è cercato di approfondire il ruolo degli algoritmi genetici come strumenti che oggi l’architettura ha a disposizione per inserirsi nel divenire della natura. Le più recenti frontiere della progettazione digitale sembrano, inoltre, oggi realizzare quello stretto e reciproco legame tra tecnica, materia e forma che Focillon, in Vita delle forme, indica come essenza stessa della forma, l’indissolubilità di concezione ed esecuzione - per cui il principio interno della forma è la sua esteriorizzazione e la forma esiste in quanto si realizza nello spazio qualificandolo – attraverso strumenti che consentono di integrare tecnica, materia e forma in quello che Branko Kolarevic definisce continuum digitale (lo stretto le¬game tra ideazione e realizzazione che gli strumenti digitali consentono oggi di creare). I software di modellazione digitale basati su NURBS (Non-Uniform Rational B-Splines) hanno aperto un universo di forme complesse che, prima dell’avvento delle tecnologie CAD/CAM, erano difficili da concepire, sviluppare e rappresentare, ma soprattutto da realizzare. La ricerca di Branko Kolarevic, attraverso il testo Architecture in the digital age (2005), è stato il principale strumento che ha indirizzato la ricerca sulle potenzialità del passaggio dalla morfogenesi computazionale alla digital computation, evidenziando l’importanza che il modello digitale assume come elemento che unifica progettazione ed esecuzione in unico processo in cui l’architetto, definendo già in fase di progettazione tutti i parametri necessari alla costruzione, assume un ruolo centrale, ruolo che Kolarevic assimila a quello del capomastro medievale o alla figura dell’artista-artigiano della Bauhaus. Dalla ricerca di Kolarevic (B. Kolarevic, A.M. Malkawi, Performative Architecture. Beyond Instrumentality, 2005) è stato ripreso anche il concetto di performatività per indicare il passaggio dalla forma ai processi di formazione basati sulle prestazioni, su pattern indeterminati, dinamiche di utilizzo, possibilità di modifiche spaziali e temporali, individuando due possibili percorsi di ricerca, ovvero, modalità secondo cui il principio di organizzazione/autorganizzazione si applica all’architettura: da una parte il principio di organizzazione come sistema di informazioni svincolato dalla materia; dall’altra il concetto di sistema applicato al prodotto, che assume esso stesso capacità di adattamento e cambiamento. Appartengono al primo gruppo (“performatività del virtuale”) tutte quelle ricerche che applicano il concetto di sistema al processo di generazione della forma, con un prodotto finale che può anche essere un oggetto statico; al secondo (“performatività del reale”)quei sistemi architettonici che, pur essendo oggetti eteropoietici, sono in grado di generare risposte all’ambiente. Le recenti sperimentazioni architettoniche riguardano, allora, da una parte processi progettuali che introducono possibilità di autogenerazione ed evoluzione del modello in base alla variazione dei dati immessi dal progettista, dall’altra architetture che interpretano principalmente la de-formazione come possibile risposta all’ambiente, trasformandosi ovvero cambiando interattivamente la propria forma in funzione del vento, della luce, dei suoni, della temperatura, del flusso di visitatori, ecc. In entrambi i casi di tratta di esperienze progettuali che creano organismi simili a quelli viventi, in cui la forma cioè non è qualcosa di statico e di fisso, quanto piuttosto un orizzonte di riferimento, una soglia verso cui tendere per il proprio accoppiamento strutturale. Tra le varie ricerche contemporanee che hanno elaborato modelli capaci di simulare processi naturali, si è scelto di concentrare l’attenzione sui lavori dei F.O.A., Greg Lynn e Makoto Sei Watanabe, ritenuti particolarmente significativi ed esemplificativi di quello che è stato definito un “paradigma evolutivo” per l’architettura , non solo perché fanno dei processi morfogenetici il centro del loro lavoro, ma anche per le modalità, teoriche e operative, con cui concetti propri delle scienze biologiche, quali quelli di filogenesi, simbiogenesi ed epigenesi, sono trasposti in modelli architettonici e metodi progettuali. Tra le ricerche che, invece, tentano di stabilire feedback continui tra architettura, ambiente e fruitore, nei paragrafi successivi saranno analizzati i recenti lavori di Achim Menges e R&Sie(n): in entrambe lo strumento informatico diventa un mezzo per incorporare l’architettura nel contesto naturale o urbano e per integrare l’esperienza stessa del fruitore all’interno del processo progettuale ed esito. Le conclusioni finali vogliono sottolineare il mutato ruolo dell’architetto in seguito all’affermarsi del paradigma informatico sottolineando, da una parte l’importanza, ancora centrale, della sensibilità, della creatività, dell’immaginazione del progettista e della necessità di una mediazione tra tecnica e soggettività per ritrovare quella consapevolezza del limite in cui Heisenberg vede la bussola necessaria per “tornare a orientarsi”; dall’altra - attraverso il pensiero di Hans Jonas, Edgar Morin e Renzo Piano - la necessità di richiamarsi a un’etica della responsabilità come fondamento non solo di un’architettura sostenibile – una pratica rivolta cioè verso un uso più attento delle risorse, un minor impatto ambientale, un rapporto più armonico con il contesto, una maggiore attenzione al benessere e alla qualità della vita - ma soprattutto come costruzione di ambienti di vita per l’uomo, apertura all’ascolto per stabilire rapporti di condivisione attiva del contesto ambientale ed umano in cui l’architettura si inserisce. Riconoscere la complessità dei legami tra uomo e natura, e su questo fondare una nuova etica in architettura, vuol dire, allora, essere consapevoli della rete di connessioni che ci lega al resto del mondo naturale, rinunciare a dominare la natura per cooperare e coevolvere con essa, superare la posizione demiurgica dell’architetto che im-pone la propria opera sulla natura, per elaborare una ricerca che è partecipe del divenire della natura, sapendone cogliere la ricchezza, promuovere e alimentare l’imprevedibilità degli esiti. Senza questa spinta etica, afferma Renzo Piano, l’architettura, anche quando cerca di assimilarsi al mondo vivente (attraverso architetture fluide, adattabili e sensibili al cambiamento), diventa “pura gestualità”.

SVILUPPI DEL PENSIERO SISTEMICO NELL'ARCHITETTURA CONTEMPORANEA / Causarano, ROBERTA MARIA. - (2014 Dec 12).

SVILUPPI DEL PENSIERO SISTEMICO NELL'ARCHITETTURA CONTEMPORANEA

CAUSARANO, ROBERTA MARIA
12/12/2014

Abstract

Obiettivo della dissertazione è indagare il ruolo delle nuove tecnologie digitali e l’emergere di concetti derivati dal pensiero scientifico e filosofico contemporaneo - quali quelli di organizzazione, autorganizzazione, feedback/ricorsività - all’interno di alcune ricerche architettoniche contemporanee. Ciò che, in particolare, caratterizza tali ricerche è la centralità del processo progettuale e la tendenza, attraverso strumenti di generazione della forma dinamici ed evolutivi, ad assimilare sempre più l’architettura e le sue dinamiche organizzative al mondo vivente. L’emergere in architettura di questo nuovo paradigma, caratterizzato dal prevalere degli aspetti relazionali, è strettamente legato all’uso dello strumento informatico (e dunque alla “rivoluzione informatica” in architettura) ed è il riflesso di un pensiero più ampio che caratterizza la nostra epoca: esiste, cioè, uno stretto legame tra processo creativo e tecnica e, di conseguenza, l’introduzione di nuovi strumenti e tecnologie modifica radicalmente non solo il modo di rapportarsi alla creazione artistica ma, più in generale, le modalità secondo cui conosciamo e percepiamo ogni realtà. L’importanza della rivoluzione informatica in architettura è, perciò, strettamente legata non solo ai nuovi strumenti che introduce ma, più in generale, alla visione del mondo che afferma: la stretta relazione tra forma, strumento e pensiero è, dunque, il filo conduttore di una riflessione che intende indagare le potenzialità degli strumenti digitali in architettura e le sue conseguenze sulla pratica progettuale. L’architettura come creazione o manipolazione di forme è, allora, messa in relazione sia agli strumenti informatici utilizzati (e in particolare a quella pratica sempre più diffusa, che è la progettazione per algoritmi) sia alla visione del mondo derivante dal pensiero scientifico e filosofico contemporaneo. Punto di partenza della dissertazione è, per questo, il tema più vasto della “questione della tecnica” che diventa anche il quadro di riferimento generale per comprendere le architetture successivamente analizzate. Una riflessione sul problema della tecnica è sembrata, infatti, utile per indagare non solo le possibili conseguenze e le implicazioni dell’uso dei nuovi strumenti tecnologici nel campo dell’architettura ma anche per riflettere sul tema più generale del rapporto tra uomo e ambiente e tra natura e artificio, alla luce dei progressi sempre più rapidi della tecnologia e delle sue conseguenze sull’intero pianeta. Alcuni strumenti bibliografici – dal fondamentale saggio di Martin Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo (1938) ai più recenti testi di Michela Nacci, Pensare la tecnica. Un secolo di incomprensioni (2000) e della sociologa francese Céline Lafontaine, L'Empire cybernétique: des machines à penserà la pensée machine (2004) – hanno permesso di ripercorrere alcune delle riflessioni filosofiche e scientifiche sviluppate nel corso del Novecento, con particolare riferimento all’opposizione tra “tecnoscettici” e “transumanisti”: tra chi, cioè, vede nella tecnica un pericolo estremo e una minaccia per l’uomo e per l’ambiente e chi ne esalta, invece, le potenzialità. Attraverso i testi di autori quali Giuseppe O. Longo (Homo Technologicus, 2001), Carlo Sini (L’uomo, la macchina, l’automa. lavoro e conoscenza tra futuro prossimo e passato remoto, 2009) e Kevin Kelly (Out of control: la nuova biologia delle macchine, dei sistemi sociali e del mondo dell'economia, 1996) ci si è soffermati in particolare sui recenti fenomeni del post-umano e del transumanesimo: sulla prefigurazione, cioè, come ultima frontiera dell’applicazione delle teorie informatiche e cibernetiche, di un’evoluzione della specie umana attraverso l’ibridazione con la macchina. Tra demonizzazione e celebrazione della tecnica si è cercato di individuare un possibile percorso epistemologico per superare il carattere autoreferenziale e di dominio - che, comunque, lo sviluppo tecnologico assume nella civiltà occidentale - e porre le basi di un’etica della responsabilità in grado di orientare il rapporto con la tecnica anche nella nostra disciplina. È, allora, nel pensiero di due importanti protagonisti del Novecento, Martin Heidegger e Werner Heisenberg, che è stato individuato un possibile percorso di interpretazione del rapporto uomo/tecnica e uomo/natura. Tali temi rivestono un ruolo centrale nella costruzione del pensiero filosofico di Heidegger e, nonostante il forte pessimismo della sua visione - che considera la tecnica un processo inarrestabile di “dominio” dell’uomo sulla natura - è possibile individuare nei suoi scritti non solo una messa in guardia contri i pericoli della tecnica e un monito ad “aver cura” degli enti di natura, ma anche l’apertura a una speranza, l’indicazione di una strada che porti alla salvezza per l’uomo, la possibilità di trovare nella tecnica stessa una via di salvezza. Contemporaneo di Heidegger, Heisenberg è uno dei protagonisti della rivoluzione che nei primi decenni del Novecento, attraverso la meccanica quantistica e il principio di indeterminazione, sconvolse l’intero assetto delle scienze della natura: ma il suo ruolo va tuttavia ben oltre la portata scientifica delle sue ricerche e, toccando concetti fondamentali come quelli di realtà, spazio e tempo, ha avuto implicazioni filosofiche e risonanze più vaste: il principio di indeterminazione e, più in generale, la meccanica quantistica non hanno solo messo in crisi numerosi concetti fondamentali della fisica classica ma hanno posto le basi per una riflessione di carattere epistemologico e filosofico sulla necessità di instaurare nuovi rapporti tra uomo e natura, tra scienza e tecnica. A partire dagli anni Trenta Heidegger e Heisenberg furono protagonisti di una serie di incontri e colloqui che divennero importanti occasioni di confronto tra il pensiero filosofico dell’uno e le esperienze scientifiche dell’altro. Particolarmente rilevante è stata poi la partecipazione di entrambi a un ciclo di conferenze organizzate a Monaco dall’Accademia bavarese delle Belle Arti (presso la Technische Höchschule) nel 1953 dal titolo “La arti nell’età della tecnica”: in un momento di crisi che non riguardava solo le scienze e la filosofia ma ogni aspetto della vita dell’uomo – politico, sociale, economico, artistico - scopo del convegno era discutere del ruolo dell’arte e della figura dell’artista in un’epoca di grandi trasformazioni. Heidegger interviene al convegno con la conferenza La questione della tecnica, lo scritto che forse meglio sintetizza la sua posizione sul problema della tecnica e che tiene conto, spesso polemizzando con esso, dell’intervento di Heisenberg, dal titolo L’immagine della natura nella fisica contemporanea. Dall’analisi di entrambi i testi (il cui contenuto è stato analizzato in maniera puntuale nell’appendice al capitolo primo), nonchè dei principali scritti di Heidegger e di Heisenberg sul problema della tecnica e attraverso il riferimento a critici quali Otto Pöggeler e Pietro Chiodi, è stato possibile individuare possibili convergenze fra le posizioni dei due autori: entrambi, infatti, dopo aver delineato un quadro di riferimento volto a comprendere la questione della tecnica, il suo ruolo nella storia dell’umanità, i suoi rapporti con la scienza e con la filosofia, i pericoli cui espone l’uomo e la natura, individuano nella tecnica stessa una possibilità di salvezza, la possibilità di una strada da percorrere per ritrovare un rapporto più autentico con la natura e con l’essenza stessa dell’uomo. La definizione dell’essenza della tecnica moderna come Ge-stell (imposizione) che riduce la natura a “fondo da impiegare”(la terra come bacino carbonifero, il suolo come riserva di minerali, il fiume come produttore di forza idrica, ecc.) è il concetto chiave del pensiero di Heidegger. È questo modo di rapportarsi agli enti di natura il pericolo estremo, ciò che preclude all’uomo la possibilità di arrivare a un “disvelamento” più originario, a una verità più profonda: la relazione strumentale con l’ambiente ci impedisce di arrivare alla consapevolezza della natura sistemica del reale e ci fa continuare ad agire nei termini del dualismo cartesiano mente-materia e di contrapposizioni come uomo-ambiente. Se attraverso la tecnica intesa come Ge-stell la realtà sta di fronte all’uomo come ente separato e distinto da lui, oggetto da utilizzare e consumare, la nuova epistemologia delineata da Heisenberg pone la relazione al centro di ogni processo conoscitivo e creativo: l’impossibilità di rapportarci al reale in maniera oggettiva, conseguenza del principio di indeterminazione, determina lo sfumare dei confini tra soggetto e oggetto e, mettendo in crisi il dualismo cartesiano mente-materia e uomo-ambiente, costituisce la premessa per una consapevolezza della natura sistemica e interrelata della realtà di cui anche l’uomo fa parte. Definire possibilità e limiti della tecnica è, dunque, la sfida che, alla luce del pensiero di Heidegger e Heisenberg, ci pone la contemporaneità. La consapevolezza del limite suggerita da Heisenberg e la possibilità di un pensiero meditativo come ascolto di cui parla Heidegger possono guidare non solo la ricerca tecno-scientifica ma anche l’architettura verso nuovi percorsi di sostenibilità, di crescita e di sviluppo, verso un uso della tecnologia che sia non tanto uno strumento per mitigare gli effetti negativi dell’intervento umano sull’ambiente, quanto un mezzo per definire nuovi equilibri tra natura e artificio, tra artefatti e mondo vivente. Superare il concetto di im-posizione per abbracciare il pensiero relazionale emerso dalla scienza contemporanea, vuol dire, allora, in architettura elaborare una concezione del progetto in grado di far interagire tutti gli elementi legati al contesto e alla fruizione, superare logiche progettuali top-down (che sono quelle proprie della macchina o del robot, i cui comportamenti sono programmati a priori), schemi rigidi e preordinati, per aprirsi a processi bottom-up, che simulando i processi naturali, costruiscono a partire dalle relazioni tra gli elementi in gioco livelli di complessità sempre maggiori. A partire da ciò, la tecnologia può diventare lo “strumento” in grado di realizzare questo passaggio da una concezione dell’architettura come oggetto, entità statica, chiusa e autonoma a una che privilegi le interconnessioni dinamiche, le interrelazioni: l’elemento di svolta per l’architettura contemporanea non è, allora, costituito dalla tecnica in sé ma dalla capacità di stabilire una connessione e integrazione tra ecologia e informazione, di riproporre, cioè, attraverso gli strumenti informatici, le dinamiche evolutive presenti in natura. La possibilità di tradurre tali concetti in logiche di organizzazione per la generazione del progetto è indagata (nel secondo capitolo) a partire dagli sviluppi della cibernetica e del pensiero sistemico. Il rinnovamento della scienza avviato da Heisenberg prosegue, infatti, negli anni Quaranta con le ricerche cibernetiche e la Teoria Generale dei Sistemi che - attraverso i concetti di sistema, retroazione, informazione e organizzazione - sottolineano ulteriormente l’importanza delle interconnessioni e delle relazioni, pongono l’accento sul contesto, sulla necessità che ogni programma di modificazione parta dalla valutazione delle relazioni con l’esistente, determinano sempre più il passaggio da una conoscenza manipolatrice a una che mira alla comprensione dei fenomeni. Il concetto di organizzazione sistemica introdotto dalla prima cibernetica si amplia con il pensiero di Gregory Bateson che (in particolare attraverso gli scritti: Mente e Natura, un’unità necessaria e Verso un’ecologia della mente), introducendo le interazioni tra organismo e ambiente e l’idea di una struttura che connette mente e natura, segna il superamento dell’ idea di una realtà costituita da oggetti isolati e autosufficienti, regolati da leggi universali e necessarie, indipendenti dal soggetto conoscente e dal proprio ambiente. È proprio la relazione fra l’uomo e il più ampio sistema in cui vive – l’organismo-nel-suo-ambiente - a diventare centrale nella riflessione di Bateson che, rompendo con la tradizione di pensiero moderna e la sua concezione strumentale del rapporto con la natura, afferma una visione sistemica del mondo naturale e vede nell’uomo, nel sistema sociale e nell’ambiente naturale tre sistemi autocorrettivi considerati nel loro accoppiamento coevolutivo. La nuova visione introdotta dalla cibernetica influenza inoltre, già a partire dagli anni Cinquanta, anche gli sviluppi della biologia e della genetica, ponendo le basi, con il successivo passaggio al concetto di autorganizzazione, per una nuova definizione del concetto di vita. Il riferimento agli studi di Humberto Maturana e Francisco Varela (con l’introduzione dei concetti di autopoiesi e accoppiamento strutturale), di Conrad H. Waddington (con i concetti di creodo e paesaggio epigenetico), di Stuart Kaufmann (con i modelli di reti genetiche) e agli studi sulla vita artificiale (da von Neumann alle ricerche di Thomas Ray e John Horton Conway) ha permesso allora di individuare nel concetto di autorganizzazione il fondamento di una nuova fenomenologia del vivente (basata sulla tesi che la vita è forma e la forma è una realtà in divenire che si genera attraverso una molteplicità di interazioni fra l’organismo e il contesto in cui si muove) a partire da cui si pone, anche per l’architettura, la sfida di creare sistemi che si autorganizzino, che siano in grado, cioè, di creare equilibri dinamici tra l’uomo e tutte le componenti dell’ambiente in cui vive, di dissolvere le tradizionali opposizioni tra forma e funzione, tra parte e tutto, tra organismo e ambiente. È soprattutto a partire dagli anni Novanta che la ricerca architettonica comincia a sperimentare la possibilità di generare la forma attraverso processi genetici ed evolutivi. Tuttavia il pensiero sistemico e relazionale, che tenta di superare l’ordine gerarchico e il determinismo della scienza classica (sul modello della meccanica quantistica di Heisenberg), comincia negli stessi anni Venti-Trenta a spostare l’attenzione di alcuni architetti verso la logica della vita come processo essenzialmente formale e creativo, secondo una visione relazionale tra la forma in evoluzione e l’ambiente. Negli stessi anni Venti, in cui gran parte del Movimento Moderno elaborava un pensiero progettuale basato su una rigida codificazione e sulla piena fiducia nella razionalità tecnica e scientifica del piano, affiorano testimonianze di un modo diverso di intendere l’architettura: l’espressionismo di Eric Mendhelson e di Hans Scharoun, le "architetture alpine" di Bruno Taut, l’organicare di Hugo Häring o l’architettura organica di F. Lloyd Wright e Alvar Aalto. La dissertazione si sofferma in particolare sulle ricerche di Bruno Taut (La dissoluzione della città), Hugo Häring (Il segreto della forma) e Frederick Kiesler (On Correalism and Biotechnique) che, in alternativa alle logiche del funzionalismo, suggeriscono un’architettura ispirata alle logiche della vita e del pensiero sistemico. È solo a partire dai primi anni Sessanta però che diversi gli architetti che cominciano a far propria la visione sistemica emersa nel pensiero scientifico e a elaborare un’idea di architettura come parte di una dinamica naturale più complessa, sottosistema soggetto alle stesse leggi dell’universo: in seguito a una maggiore attenzione al tema del rapporto tra architettura e natura, dovuta alle prime denunce dei segnali della crisi ambientale (dalla diminuzione di risorse alle distruzioni causate dall’inquinamento) e a all’influsso delle teorie cibernetiche e informatiche, l’architettura comincia infatti a elaborare ricerche di una nuova integrazione fra costruito e ambiente, attuate attraverso il ricorso alla flessibilità e alla tecnologizzazione delle strutture per rispondere a esigenze di autocontrollo e autorganizzazione. Si è individuato in particolare nelle ricerche di Richard Buckminster Fuller, di Frei Otto, di Archigram e del Movimento Metabolista gli esempi più significativi di una dimensione relazionale del progetto e l’attenzione al processo piuttosto che alla forma: in queste ricerche l’architettura è vista come parte di una dinamica complessa in cui intervengono aspetti di ordine diverso - naturale, sociale, antropologico, politico, scientifico - e al cui centro c’è l’uomo. L'ideale di migliorare la qualità della vita dell’uomo è, infatti, il principale obiettivo di queste ricerche che, anche attraverso l'utilizzo di nuovi materiali e la sperimentazione di nuove tecnologie produttive e costruttive, tendono a una maggiore integrazione tra tecnica e natura e a proporre alternative allo sfruttamento delle risorse naturali messo in atto dal sistema industriale. Le ricerche degli anni Sessanta hanno anticipato molti dei temi che oggi la rivoluzione informatica ha portato in primo piano: i concetti di nomadismo, leggerezza, trasparenza, provvisorietà, flessibilità; le sperimentazioni sull'architettura bioclimatica; l'automatismo e la riflessione sulle strutture mobili sono divenuti centrali in molte ricerche architettoniche contemporanee sempre più basate sul concetto di sistema, sia nell’esito finale (prodotto) sia nel processo progettuale. Tuttavia è soprattutto negli ultimi due decenni che l’architettura, servendosi di strumenti di progettazione dinamici e generativi, ha tentato di trasferire al proprio interno le più recenti acquisizioni della scienza e della tecnica, trasformandosi (spesso) da oggetto meccanico a organismo intelligente, capace di captare e metabolizzare interazioni complesse con l’ambiente e l’utente: a porsi, dunque, come parte di una dinamica ampliata, sistema soggetto alle medesime leggi della natura. Si è visto, allora, nel tema del rapporto fra “tecnica, materia, forma” la premessa fondamentale per indagare l’elaborazione di un pensiero sistemico nella ricerca architettonica contemporanea: è da un lato, il pensiero della complessità - con gli sviluppi delle scienze (analizzate nell’appendice al capitolo terzo) e della filosofia - e, dall’altro, il diffondersi delle nuove tecnologie digitali a determinare una visione dinamica ed evolutiva della forma. Le ricerche scientifiche e il pensiero filosofico più recenti parlano di una realtà complessa e interrelata, le cui forme non sono strutture rigide ma “manifestazioni flessibili” dei processi sottostanti e, non più descrivibili con gli strumenti della geometria euclidea, rimandano a concetti quali quelli di frattale, superficie topologica, caos deterministico, ecc. Se la scienza descrive un universo le cui manifestazioni sono tutte, dalle particelle suba¬tomiche alle galassie, parte di una totalità ininterrotta, e la vita stessa si dispiega nella materia in stadi sempre più elevati di organizzazione, anche il pensiero filosofico suggeri¬sce l’idea di una realtà interconnessa e continua. Particolarmente importanti da questo punto di vista, anche per l’influenza che hanno avuto su molti architetti, sono le riflessioni di Gilles Deleuze e Félix Guattari: i concetti di phylum macchinico, introdotto in Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie (1980) e di piega, in Le pli. Leibniz et le Baroque (Deleuze 1988), descrivono una realtà permeata da una materia-energia continua che non ammette il vuoto ma si evolve e involve differenziandosi. A partire da questi presupposti è stato possibile definire la problematica della genesi della forma nel progetto di architettura, mettendone soprattutto in evidenza il carattere dinamico ed evolutivo: dalla geometria topologica alle ipersuperfici, dai blob alle pieghe, è in atto una chiara tendenza a cercare ed esplorare le proprietà della forma come fonti di sistemi di organizzazione. Metodi computazionali di esplorazione e generazione della forma, analoghi a quelli che governano sia la vita biologica che la materia inorganica, introducono nel processo progettuale possibilità di autogenerazione del modello in base alla variazione dei dati immessi dal progettista, in alcuni, casi, definiscono persino possibilità di autorganizzazione e autoaccrescimento, per cui, attraverso principi di retroazione, il modello si autoalimenta in un’evoluzione in cui il progetto definitivo rappresenta solo un’istantanea, ovvero un fermo-immagine di un flusso divenire. Sono le tecnologie digitali a segnare in architettura l’avvento di un nuovo paradigma: non solo perché, attraverso software di modellazione e disegno automatico, consentono di rappresentare e controllare facilmente forme molto complesse ma, soprattutto, perché modificano profondamente le modalità temporali e spaziali dell’intero processo progettuale: introducono multiple e differenti variabili, che non necessariamente hanno un’organizzazione gerarchica; azzerano il tempo lineare introducendo simultaneità e istantaneità; creano nuove configurazioni ibride trovando spesso nella natura non solo una fonte di ispirazione ma un vero e proprio modello da replicare; modificano profondamente, attraverso le più recenti tecnologie CAD/CAM, il rapporto tra concezione ed esecuzione del progetto. Il riferimento al testo di Kostas Terzidis, Expressive Form: A conceptual approach to computational design (2003) ha permesso di individuare e definire due possibili modalità di utilizzo degli strumenti informatici in architettura: quella che Terzidis definisce computation (calcolo) - che consiste nel determinare qualcosa con metodi logico-matematici – e quella che è definita computerization (informatizzazione) - che consiste invece, nell’immettere, elaborare o memorizzare informazioni in un sistema informatico. Se inizialmente, attraverso i primi software CAD nati negli anni Ottanta, il modo di utilizzare i computer in architettura era quello della computerization - entità o processi che sono già concettualizzati nella mente del progettista sono immessi, manipolati e memorizzati in un sistema informatico - dalla seconda metà degli anni Novanta gli strumenti informatici sono utilizzati per modificare gli stessi processi generativi del progetto: l’uso del calcolo (computation) o dell’elaborazione (computing), attraverso il computer, diventa strumento progettuale. Uno degli aspetti innovativi delle ricerche più recenti consiste nel nuovo ruolo che tali strumenti assumono nel processo progettuale e nelle relazioni che si instaurano tra proget¬tista e strumento informatico. Le ultime frontiere del computing stanno poi profondamente modificando le possibilità di applicazione dei processi computazionali e lo stesso ruolo dell’architetto: è la progettazione dello stesso strumento informatico a integrarsi nel processo progettuale e a consentire al progettista di non esserne più dipendente, ma di averne il pieno dominio. Lo scripting ha introdotto la possibilità per l’utente di adattare, personalizzare o riconfigurare completamente i programmi in base alle proprie predilezioni e modalità di lavoro: nuove famiglie di software, dotati di un’interfaccia grafica tale per cui lavorare sui codici non è più un lavoro per soli esperti di programmazione, consentono al progettista stesso di scrivere le regole, formali e non, che in varia maniera contribuiranno alla genesi della forma. Mark Burry parla di Scripting Cultures (M. Burry, Scripting Cultures. Architectural Design and Programming, 2011) per indicare il passaggio da un’era in cui gli architetti usano il software a una in cui lo creano. La programmazione tramite script, si sta dunque affermando come uno degli sviluppi più interessanti della progettazione digitale, e nella sua diffusione, attraverso eventi come Smartgeometry o di comunità online come il forum di Grasshopper®, è visto l’affermarsi di un vero e proprio pensiero algoritmico che sta rivoluzionando la pratica architettonica, dando agli architetti gli strumenti per controllare e modellare una realtà estremamente varia e articolata. Un ulteriore aspetto evidenziato riguardo al ruolo degli strumenti digitali nel processo progettuale è proprio il ricorso a procedimenti quali gli algoritmi genetici - alla base di molti programmi digitali per la generazione della forma utilizzati in architettura – che permettono di attuare strategie induttive per esplorare processi generativi o simulare fenomeni complessi. A partire dal ruolo che hanno avuto negli studi sull’intelligenza e sulla vita artificiale (per cui si è fatti riferimento in particolare al testo di Claus Emmeche, Il giardino nella macchina. Della vita artificiale, 1996), attraverso gli scritti di vati autori (Florian Sauter, Cecil Balmond, Karl S. Chu, Sanford Kwinter) si è cercato di approfondire il ruolo degli algoritmi genetici come strumenti che oggi l’architettura ha a disposizione per inserirsi nel divenire della natura. Le più recenti frontiere della progettazione digitale sembrano, inoltre, oggi realizzare quello stretto e reciproco legame tra tecnica, materia e forma che Focillon, in Vita delle forme, indica come essenza stessa della forma, l’indissolubilità di concezione ed esecuzione - per cui il principio interno della forma è la sua esteriorizzazione e la forma esiste in quanto si realizza nello spazio qualificandolo – attraverso strumenti che consentono di integrare tecnica, materia e forma in quello che Branko Kolarevic definisce continuum digitale (lo stretto le¬game tra ideazione e realizzazione che gli strumenti digitali consentono oggi di creare). I software di modellazione digitale basati su NURBS (Non-Uniform Rational B-Splines) hanno aperto un universo di forme complesse che, prima dell’avvento delle tecnologie CAD/CAM, erano difficili da concepire, sviluppare e rappresentare, ma soprattutto da realizzare. La ricerca di Branko Kolarevic, attraverso il testo Architecture in the digital age (2005), è stato il principale strumento che ha indirizzato la ricerca sulle potenzialità del passaggio dalla morfogenesi computazionale alla digital computation, evidenziando l’importanza che il modello digitale assume come elemento che unifica progettazione ed esecuzione in unico processo in cui l’architetto, definendo già in fase di progettazione tutti i parametri necessari alla costruzione, assume un ruolo centrale, ruolo che Kolarevic assimila a quello del capomastro medievale o alla figura dell’artista-artigiano della Bauhaus. Dalla ricerca di Kolarevic (B. Kolarevic, A.M. Malkawi, Performative Architecture. Beyond Instrumentality, 2005) è stato ripreso anche il concetto di performatività per indicare il passaggio dalla forma ai processi di formazione basati sulle prestazioni, su pattern indeterminati, dinamiche di utilizzo, possibilità di modifiche spaziali e temporali, individuando due possibili percorsi di ricerca, ovvero, modalità secondo cui il principio di organizzazione/autorganizzazione si applica all’architettura: da una parte il principio di organizzazione come sistema di informazioni svincolato dalla materia; dall’altra il concetto di sistema applicato al prodotto, che assume esso stesso capacità di adattamento e cambiamento. Appartengono al primo gruppo (“performatività del virtuale”) tutte quelle ricerche che applicano il concetto di sistema al processo di generazione della forma, con un prodotto finale che può anche essere un oggetto statico; al secondo (“performatività del reale”)quei sistemi architettonici che, pur essendo oggetti eteropoietici, sono in grado di generare risposte all’ambiente. Le recenti sperimentazioni architettoniche riguardano, allora, da una parte processi progettuali che introducono possibilità di autogenerazione ed evoluzione del modello in base alla variazione dei dati immessi dal progettista, dall’altra architetture che interpretano principalmente la de-formazione come possibile risposta all’ambiente, trasformandosi ovvero cambiando interattivamente la propria forma in funzione del vento, della luce, dei suoni, della temperatura, del flusso di visitatori, ecc. In entrambi i casi di tratta di esperienze progettuali che creano organismi simili a quelli viventi, in cui la forma cioè non è qualcosa di statico e di fisso, quanto piuttosto un orizzonte di riferimento, una soglia verso cui tendere per il proprio accoppiamento strutturale. Tra le varie ricerche contemporanee che hanno elaborato modelli capaci di simulare processi naturali, si è scelto di concentrare l’attenzione sui lavori dei F.O.A., Greg Lynn e Makoto Sei Watanabe, ritenuti particolarmente significativi ed esemplificativi di quello che è stato definito un “paradigma evolutivo” per l’architettura , non solo perché fanno dei processi morfogenetici il centro del loro lavoro, ma anche per le modalità, teoriche e operative, con cui concetti propri delle scienze biologiche, quali quelli di filogenesi, simbiogenesi ed epigenesi, sono trasposti in modelli architettonici e metodi progettuali. Tra le ricerche che, invece, tentano di stabilire feedback continui tra architettura, ambiente e fruitore, nei paragrafi successivi saranno analizzati i recenti lavori di Achim Menges e R&Sie(n): in entrambe lo strumento informatico diventa un mezzo per incorporare l’architettura nel contesto naturale o urbano e per integrare l’esperienza stessa del fruitore all’interno del processo progettuale ed esito. Le conclusioni finali vogliono sottolineare il mutato ruolo dell’architetto in seguito all’affermarsi del paradigma informatico sottolineando, da una parte l’importanza, ancora centrale, della sensibilità, della creatività, dell’immaginazione del progettista e della necessità di una mediazione tra tecnica e soggettività per ritrovare quella consapevolezza del limite in cui Heisenberg vede la bussola necessaria per “tornare a orientarsi”; dall’altra - attraverso il pensiero di Hans Jonas, Edgar Morin e Renzo Piano - la necessità di richiamarsi a un’etica della responsabilità come fondamento non solo di un’architettura sostenibile – una pratica rivolta cioè verso un uso più attento delle risorse, un minor impatto ambientale, un rapporto più armonico con il contesto, una maggiore attenzione al benessere e alla qualità della vita - ma soprattutto come costruzione di ambienti di vita per l’uomo, apertura all’ascolto per stabilire rapporti di condivisione attiva del contesto ambientale ed umano in cui l’architettura si inserisce. Riconoscere la complessità dei legami tra uomo e natura, e su questo fondare una nuova etica in architettura, vuol dire, allora, essere consapevoli della rete di connessioni che ci lega al resto del mondo naturale, rinunciare a dominare la natura per cooperare e coevolvere con essa, superare la posizione demiurgica dell’architetto che im-pone la propria opera sulla natura, per elaborare una ricerca che è partecipe del divenire della natura, sapendone cogliere la ricchezza, promuovere e alimentare l’imprevedibilità degli esiti. Senza questa spinta etica, afferma Renzo Piano, l’architettura, anche quando cerca di assimilarsi al mondo vivente (attraverso architetture fluide, adattabili e sensibili al cambiamento), diventa “pura gestualità”.
12-dic-2014
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