A Shanghai, Cina, stanno sorgendo delle città nuove. Inserite all’interno di un grande programma di espansione metropolitana - con l’obiettivo di incrementare la disponibilità di residenza soprattutto per la nuova middle class e di decongestionare il centro - esse rappresentano, fin dalla fase di avvio, un “oggetto” particolare all’interno della produzione architettonica internazionale e un caso di sicuro interesse per la ricerca. Un primo carattere di singolarità è insito nella natura stessa del tema progettuale, la città di fondazione (spesso, ma non universalmente, identificata con il termine di new town), che forza e stravolge, in una operazione ad alto tenore di artificialità, un processo di formazione delle strutture urbane tradizionalmente lento, abituato a procedere per stratificazioni e adattamenti successivi. Nondimeno una operazione che nella storia ricorre con continuità - benché su tempi-scala dilazionati e in aree geografiche distanziate - e che in Europa, nel corso del XX secolo è stata praticata estesamente dando luogo a diverse generazioni di città di fondazione. Città costruite, si noti, sempre con lo strumento del progetto architettonico e mai con il piano urbanistico. Città, assai spesso, direttamente ispirate alle teorie dell’architettura prevalenti di cui, altrettanto spesso, hanno contribuito a decretare il fallimento, permettendo alle successive di porsi come esperienza di superamento. Città, infine, in cui tanto gli edifici speciali (le emergenze) che il continuum edilizio (i tessuti) hanno costituito opportunità progettuali privilegiate per la sperimentazione e la verifica dell’architettura moderna nelle sue diverse e successive versioni. Un secondo carattere di singolarità, che rappresenta una eccezione con pochi precedenti, è legato alla condizione specifica che il programma di espansione ha fissato: che ogni città nuova fosse progettata da un architetto europeo di diversa nazionalità e che, inoltre, fosse disegnata secondo l’immagine urbana “tipica” della nazione di riferimento. Una prescrizione a cui va aggiunta l’aspettativa dichiarata - essendo legata a una concreta strategia di marketing immobiliare - che tale tipicità corrispondesse a quanto percepito dal corrente immaginario collettivo cinese. Un complesso di condizioni al contorno accolto, in Europa, con scetticismo generale, talvolta declinato in modo più tagliente con termini come “pastiche”, “travestimento” e “parodia”. Termini che, in seconda battuta - al cospetto di indicatori dimensionali e finanziari rilevanti, di procedure di concorso internazionale e di progettisti vincitori di fama planetaria - hanno cominciato a essere traslati in interessanti formule come “trasposizione mimetica” e “calligrafia”.Un terzo fattore, direttamente derivante dai primi due, si rende manifesto quando la fase realizzativa raggiunge un certo grado di avanzamento - una soglia non netta ma che si può far coincidere approssimativamente con l’apertura della fase di vendita dei primi stock di residenze. È in questa fase (per i tre casi di studio considerati il periodo 2005-2010) di “battesimo del fuoco” che le impostazioni progettuali, i modelli insediativi, i tipi urbani e i caratteri dell’architettura - diversamente declinati da ciascuna firma nazionale - collidono anche pesantemente con la realtà locale e le relative componenti (strutture di investimento, management e cantierizzazione ma anche autorità politico-amministrative, acquirenti e cittadini). Da questo punto in poi le storie, fin qui parallele, delle one city, nine towns si differenziano secondo linee che i casi di studio (Thames Town, Anting e Pujiang, rispettivamente progettate da Atkins, Speer e Gregotti) ben rappresentano nello stato attuale (aprile 2014). La necessità di modificare in corso d’opera i progetti - di città, si badi bene - si presenta per tutte, come può lecitamente aspettarsi chi studia l’urban design contemporaneo, ma a seconda dei casi differenti sono gli impatti che vanno dal sistematico incameramento di spunti randomici (Thames Town), all’abbandono di scelte progettuali fondanti (Anting), alla sottrazione di comparti centrali del nucleo urbano (Pujiang). A esito di questa prima attuazione alle questioni di approccio che avevano suscitato dubbi in fase di avvio (sui criteri di matrice cinese ma non sui progettisti europei) se ne aggiungono altre, di livello più complesso. Esse investono non più la sola sfera della facies - che a seconda degli orientamenti critici si colloca disciplinarmente tra l’allestimento scenografico e il townscape - ma chiamano in causa i progettisti, la loro capacità di gestire i progetti di grande dimensione, la scelta di modello insediativo, l’interpretazione architettonica e, in sostanza, la visione teorica di fondo (o la sua presunta mancanza). La possibilità stessa di indagare la realtà cinese partendo da un punto di vista europeo o, in subordine, di stabilire un confronto tra esperienze di urban design tra mondi culturalmente così distanti - dimenticando anche un po’ frettolosamente il mantra dello scenario globale - sono questioni che da Shanghai (da europei che vi operano) si impongono all’attenzione di chi fa ricerca. Domande che hanno orientato il presente studio a procedere partendo dalle evidenze - indagando cioè, in prima battuta, i tre caratteri di singolarità ritenuti preminenti - per poi risalire, con strumenti di potenziale crescente (sopralluoghi, ricerche in loco, interviste ai progettisti), agli aspetti teorici.Il primo ordine di domande ha richiesto alcuni adempimenti obbligatori al fine di una affidabile ricostruzione del contesto critico di riferimento e della specifica realtà locale. Studiare la città di fondazione come tema progettuale ha comportato una indagine storica, un focus più approfondito sulle generazioni di new towns europee del ‘900 - con particolare enfasi sul rapporto con le massime teorie architettoniche e visioni della città moderna - e, infine, una ricostruzione dello stato del tutto peculiare - in dipendenza dalla estemporaneità del tema ma anche del carattere emergenziale degli interventi - in cui si trova a operare il progettista. Per comprendere il programma One City, Nine Towns è stata documentata l’intera vicenda della pianificazione e dello sviluppo urbano di Shanghai dalla fine della guerra civile cinese (1950) a oggi. Una storia in cui a una successione di idee e soluzioni progettuali non così dissimile da quella europea - il che ben conferma la vocazione di Shanghai di ponte con l’occidente - si contrappone una sostanziale differenza a livello di modello economico, forma di governo e strategie urbane. Una differenza che permane anche dopo la svolta di Deng (1979), pur all’interno del nuovo modello di capitalismo statale e, nel momento attuale, influisce sensibilmente sulla conduzione del programma e, da lì, sull’esito architettonico dei progetti. Il secondo ordine di domande è stato posto nella prospettiva disciplinare dell’urban design contemporaneo e ha richiesto una definizione del campo del possibile confronto tra Europa e Cina. A questo scopo sono state isolate delle invarianti rispetto alle quali l’esperienza cinese, sulla base di una influenza disciplinare di matrice prevalentemente americana, offre tratti omologhi a quelli europei. Attraverso questo filtro critico i tre progetti di Shanghai sono stati confrontati con alcuni tra i più noti progetti complessi degli ultimi vent’anni (tra cui Euralille, Ijburg, Potsdammerplatz) evidenziandone, punto punto, le discordanze di metodo e le corrispondenti derivate sul piano pratico-operativo. Un confronto che assume definitivamente un profilo di interesse laddove si consideri che gli interventi urbani presi in esame, da una parte e dall’altra, sono i luoghi di massimo investimento di risorse ed energie (economico-finanziarie e politico-amministrative ma anche tecnico-progettuali e metodologico-teoriche) nello scenario globale attuale.

Shanghai one city nine towns. La città di fondazione nelle trasformazioni metropolitane della Cina contemporanea / Gallo, Marta. - (2014 Jul 03).

Shanghai one city nine towns. La città di fondazione nelle trasformazioni metropolitane della Cina contemporanea

GALLO, Marta
03/07/2014

Abstract

A Shanghai, Cina, stanno sorgendo delle città nuove. Inserite all’interno di un grande programma di espansione metropolitana - con l’obiettivo di incrementare la disponibilità di residenza soprattutto per la nuova middle class e di decongestionare il centro - esse rappresentano, fin dalla fase di avvio, un “oggetto” particolare all’interno della produzione architettonica internazionale e un caso di sicuro interesse per la ricerca. Un primo carattere di singolarità è insito nella natura stessa del tema progettuale, la città di fondazione (spesso, ma non universalmente, identificata con il termine di new town), che forza e stravolge, in una operazione ad alto tenore di artificialità, un processo di formazione delle strutture urbane tradizionalmente lento, abituato a procedere per stratificazioni e adattamenti successivi. Nondimeno una operazione che nella storia ricorre con continuità - benché su tempi-scala dilazionati e in aree geografiche distanziate - e che in Europa, nel corso del XX secolo è stata praticata estesamente dando luogo a diverse generazioni di città di fondazione. Città costruite, si noti, sempre con lo strumento del progetto architettonico e mai con il piano urbanistico. Città, assai spesso, direttamente ispirate alle teorie dell’architettura prevalenti di cui, altrettanto spesso, hanno contribuito a decretare il fallimento, permettendo alle successive di porsi come esperienza di superamento. Città, infine, in cui tanto gli edifici speciali (le emergenze) che il continuum edilizio (i tessuti) hanno costituito opportunità progettuali privilegiate per la sperimentazione e la verifica dell’architettura moderna nelle sue diverse e successive versioni. Un secondo carattere di singolarità, che rappresenta una eccezione con pochi precedenti, è legato alla condizione specifica che il programma di espansione ha fissato: che ogni città nuova fosse progettata da un architetto europeo di diversa nazionalità e che, inoltre, fosse disegnata secondo l’immagine urbana “tipica” della nazione di riferimento. Una prescrizione a cui va aggiunta l’aspettativa dichiarata - essendo legata a una concreta strategia di marketing immobiliare - che tale tipicità corrispondesse a quanto percepito dal corrente immaginario collettivo cinese. Un complesso di condizioni al contorno accolto, in Europa, con scetticismo generale, talvolta declinato in modo più tagliente con termini come “pastiche”, “travestimento” e “parodia”. Termini che, in seconda battuta - al cospetto di indicatori dimensionali e finanziari rilevanti, di procedure di concorso internazionale e di progettisti vincitori di fama planetaria - hanno cominciato a essere traslati in interessanti formule come “trasposizione mimetica” e “calligrafia”.Un terzo fattore, direttamente derivante dai primi due, si rende manifesto quando la fase realizzativa raggiunge un certo grado di avanzamento - una soglia non netta ma che si può far coincidere approssimativamente con l’apertura della fase di vendita dei primi stock di residenze. È in questa fase (per i tre casi di studio considerati il periodo 2005-2010) di “battesimo del fuoco” che le impostazioni progettuali, i modelli insediativi, i tipi urbani e i caratteri dell’architettura - diversamente declinati da ciascuna firma nazionale - collidono anche pesantemente con la realtà locale e le relative componenti (strutture di investimento, management e cantierizzazione ma anche autorità politico-amministrative, acquirenti e cittadini). Da questo punto in poi le storie, fin qui parallele, delle one city, nine towns si differenziano secondo linee che i casi di studio (Thames Town, Anting e Pujiang, rispettivamente progettate da Atkins, Speer e Gregotti) ben rappresentano nello stato attuale (aprile 2014). La necessità di modificare in corso d’opera i progetti - di città, si badi bene - si presenta per tutte, come può lecitamente aspettarsi chi studia l’urban design contemporaneo, ma a seconda dei casi differenti sono gli impatti che vanno dal sistematico incameramento di spunti randomici (Thames Town), all’abbandono di scelte progettuali fondanti (Anting), alla sottrazione di comparti centrali del nucleo urbano (Pujiang). A esito di questa prima attuazione alle questioni di approccio che avevano suscitato dubbi in fase di avvio (sui criteri di matrice cinese ma non sui progettisti europei) se ne aggiungono altre, di livello più complesso. Esse investono non più la sola sfera della facies - che a seconda degli orientamenti critici si colloca disciplinarmente tra l’allestimento scenografico e il townscape - ma chiamano in causa i progettisti, la loro capacità di gestire i progetti di grande dimensione, la scelta di modello insediativo, l’interpretazione architettonica e, in sostanza, la visione teorica di fondo (o la sua presunta mancanza). La possibilità stessa di indagare la realtà cinese partendo da un punto di vista europeo o, in subordine, di stabilire un confronto tra esperienze di urban design tra mondi culturalmente così distanti - dimenticando anche un po’ frettolosamente il mantra dello scenario globale - sono questioni che da Shanghai (da europei che vi operano) si impongono all’attenzione di chi fa ricerca. Domande che hanno orientato il presente studio a procedere partendo dalle evidenze - indagando cioè, in prima battuta, i tre caratteri di singolarità ritenuti preminenti - per poi risalire, con strumenti di potenziale crescente (sopralluoghi, ricerche in loco, interviste ai progettisti), agli aspetti teorici.Il primo ordine di domande ha richiesto alcuni adempimenti obbligatori al fine di una affidabile ricostruzione del contesto critico di riferimento e della specifica realtà locale. Studiare la città di fondazione come tema progettuale ha comportato una indagine storica, un focus più approfondito sulle generazioni di new towns europee del ‘900 - con particolare enfasi sul rapporto con le massime teorie architettoniche e visioni della città moderna - e, infine, una ricostruzione dello stato del tutto peculiare - in dipendenza dalla estemporaneità del tema ma anche del carattere emergenziale degli interventi - in cui si trova a operare il progettista. Per comprendere il programma One City, Nine Towns è stata documentata l’intera vicenda della pianificazione e dello sviluppo urbano di Shanghai dalla fine della guerra civile cinese (1950) a oggi. Una storia in cui a una successione di idee e soluzioni progettuali non così dissimile da quella europea - il che ben conferma la vocazione di Shanghai di ponte con l’occidente - si contrappone una sostanziale differenza a livello di modello economico, forma di governo e strategie urbane. Una differenza che permane anche dopo la svolta di Deng (1979), pur all’interno del nuovo modello di capitalismo statale e, nel momento attuale, influisce sensibilmente sulla conduzione del programma e, da lì, sull’esito architettonico dei progetti. Il secondo ordine di domande è stato posto nella prospettiva disciplinare dell’urban design contemporaneo e ha richiesto una definizione del campo del possibile confronto tra Europa e Cina. A questo scopo sono state isolate delle invarianti rispetto alle quali l’esperienza cinese, sulla base di una influenza disciplinare di matrice prevalentemente americana, offre tratti omologhi a quelli europei. Attraverso questo filtro critico i tre progetti di Shanghai sono stati confrontati con alcuni tra i più noti progetti complessi degli ultimi vent’anni (tra cui Euralille, Ijburg, Potsdammerplatz) evidenziandone, punto punto, le discordanze di metodo e le corrispondenti derivate sul piano pratico-operativo. Un confronto che assume definitivamente un profilo di interesse laddove si consideri che gli interventi urbani presi in esame, da una parte e dall’altra, sono i luoghi di massimo investimento di risorse ed energie (economico-finanziarie e politico-amministrative ma anche tecnico-progettuali e metodologico-teoriche) nello scenario globale attuale.
3-lug-2014
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Tipologia: Tesi di dottorato
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