E’ noto come la flessibilità del lavoro, nel cosiddetto “ambito europeo”, sia avvertita ormai da tempo come una assoluta necessità. A conferma di quanto detto è sufficiente osservare la direzione seguita dalle riforme del mercato del lavoro che in tutti i singoli contesti nazionali si sono succedute negli ultimi due decenni: tutte, senza eccezioni, vanno nella direzione della flessibilizzazione dei mercati del lavoro. All’interno di questo quadro, le domande di ricerca a cui si tenta di dare risposta sono le seguenti: come vanno interpretate, dal punto di vista del lavoro dipendente, le concrete espressioni della flessibilità? Che tipo di conseguenze hanno le stesse sul benessere sociale sperimentato dai lavoratori e lavoratrici interessati dal fenomeno? Come va interpretata, più in generale, la flessibilità nell’ottica dell’analisi dell’evoluzione storica della condizione sociale del lavoro dipendente? La trattazione si apre nel primo capitolo con un inquadramento concettuale della flessibilità. Al centro dell’analisi vi saranno il carattere multidimensionale del fenomeno e la sua natura innovativa ed atipica nei confronti del cosiddetto lavoro standard. Dopo avere inquadrato concettualmente la flessibilità, mostrandone le concrete espressioni occupazionali, il secondo e terzo capitolo saranno dedicati ad un approfondimento della più discussa ed analizzata dimensione della flessibilità: il lavoro a tempo determinato. Il principale risultato dei primi tre capitoli sarà la sottolineatura di come l’innovazione e la specificità del lavoro flessibile si risolva, concretamente, in condizioni occupazionali ed economico sociali per il lavoro dipendente flessibile senza dubbio peggiori di quelle associabili all’idealtipo di lavoro standard. Nel quarto capitolo ci si occuperà di presentare e discutere le principali tesi a sostegno della flessibilità. Come si cercherà di argomentare la motivazione ultima del sostegno alla flessibilità può essere rintracciata nella asserita capacità di stimolo alla crescita occupazionale derivante dalla flessibilizzazione dei mercati del lavoro: la flessibilità renderebbe le imprese maggiormente competitive, il che porterebbe a migliori risultati per quest’ultime e, conseguentemente, ad una crescita della domanda di lavoro. Lo schema di riferimento delle teorie sostenitrici della flessibilità del lavoro, così come il relativo dibattito internazionale, sarà indagato mantenendo come centrali due elementi di fondo: la strutturale incapacità (specie nel contesto Europeo) di riduzione dei tassi di disoccupazione dopo la piena occupazione del c.d. trentennio glorioso; la crescente competizione globale dei mercati dei beni e servizi. Questo è il contesto in cui sarà collocato il sostegno alla flessibilità espresso nel tempo dalla totalità dei governi nazionali, dalla Commissione Europea, dai principali istituti di cooperazione internazionale (per es. OCSE e FMI) e dall’ampia maggioranza del mondo accademico. Dalla trattazione che si porterà avanti nel quarto capitolo sarà possibile evidenziare dei primi risultati empirici in merito allo schema seguito dai sostenitori della flessibilità. In particolare, sarà possibile, seguendo le analisi svolte a livello internazionale sul tema, mostrare come per quanto riguarda la flessibilità salariale siano assai scarse le evidenze a favore della tesi secondo cui l’adeguamento ed adattamento dei salari alle condizioni di concorrenza conducano a positivi risultati occupazionali. Nel quinto e sesto capitolo ci si concentrerà su di un’analisi critica delle teorie che, focalizzando la loro attenzione sul lavoro a tempo determinato, hanno indicato specifiche interpretazioni (capitolo 5) o possibili correttivi socialmente accettabili (capitolo 6) alla instabilità occupazionale e retributiva derivante dalla flessibilità dei rapporti di lavoro. Il settimo capitolo avrà come scopo l’indagine empirica dei risultati occupazionali della flessibilità nella sua dimensione di lavoro a tempo determinato. Utilizzando ed elaborando dati ricavati dal database dell’OCSE, e seguendo la metodologia di indagine presente in letteratura, si confronteranno gli andamenti degli indici di protezione all’impiego (indici EPL OCSE) con gli andamenti occupazionali (andamenti nei tassi di disoccupazione e nei tassi di occupazione). Come per la flessibilità salariale sarà possibile, anche nel caso del lavoro a tempo determinato, rilevare la assenza di evidenze nella direzione indicata dai sostenitori della flessibilità. In altri termini, si sottolineerà la mancanza di una correlazione statisticamente significativa tra riduzione delle protezioni all’impiego e crescita dell’occupazione. Il successivo capitolo ottavo sarà focalizzato sull’analisi delle relazioni, individuate in letteratura, tra flessibilità ed andamenti della disuguaglianza sociale. Seguendo gli studi di settore, sarà possibile mostrare come la flessibilizzazione dei mercati del lavoro rappresenti uno degli elementi capaci di spiegare l’aumento delle disuguaglianze sociali che ha caratterizzato i paesi a capitalismo avanzato negli ultimi tre decenni. Nelle conclusioni, infine, sintetizzando e sistematizzando i principali risultati raggiunti nella trattazione svolta nel corso di tutti i capitoli, si passerà a dare risposta alle domande di ricerca da cui si è partiti. Secondo quanto si cercherà di argomentare, la flessibilità determina una evidente contrapposizione di interessi tra lavoratori ed imprese. Le imprese attraverso la flessibilità hanno la possibilità di giovarsi di condizioni di utilizzo della forza lavoro decisamente in linea con le proprie esigenze ed interessi. Ne deriva che appare del tutto comprensibile il favore con cui le imprese hanno da sempre guardato alla flessibilizzazione dei mercati del lavoro. Al contrario, per il lavoro dipendente l’innovazione e discontinuità storica rappresentata dall’adattamento flessibile alle esigenze espresse dai cicli produttivi determina un sensibile peggioramento nelle condizioni economico sociali ed occupazionali. Tale peggioramento potrebbe essere considerato dal lavoro dipendente come una soluzione subottimale o uno spiacevole trade off (disoccupazione o occupazione di scarsa qualità) qualora risultassero empiricamente confermate le supposte positive ricadute occupazionali derivanti dalla crescita di competitività delle imprese resa possibile dalla flessibilità (i comuni interessi tra imprese e lavoratori a cui si sono richiamati nel tempo i diversi fautori della flessibilizzazione del mercato del lavoro). Tuttavia, come già anticipato, il principale risultato dell’analisi che si svilupperà nel corso della ricerca in merito alle relazioni empiricamente osservabili tra flessibilità, nelle sue diverse dimensioni, ed andamenti occupazionali è proprio la mancanza di una significativa e chiara relazione tra diffusione della flessibilità ed aumenti nei tassi di occupazione. Partendo da queste considerazioni, nelle conclusioni, si sosterrà la tesi secondo cui dal punto di vista del lavoro dipendente il generale fenomeno di flessibilizzazione del lavoro può essere letto come una forma storica di regressione sociale. Una regressione che, nel confronto con il “naturale” termine di paragone rappresentato dal lavoro standard, determina perdita di stabilità, tutele e benessere economico sociale senza che ciò possa essere in alcun modo razionalmente giustificato.

La condizione sociale del lavoro nell'era della flessibilità / Elia, Marco. - (2013 Jun 06).

La condizione sociale del lavoro nell'era della flessibilità

ELIA, MARCO
06/06/2013

Abstract

E’ noto come la flessibilità del lavoro, nel cosiddetto “ambito europeo”, sia avvertita ormai da tempo come una assoluta necessità. A conferma di quanto detto è sufficiente osservare la direzione seguita dalle riforme del mercato del lavoro che in tutti i singoli contesti nazionali si sono succedute negli ultimi due decenni: tutte, senza eccezioni, vanno nella direzione della flessibilizzazione dei mercati del lavoro. All’interno di questo quadro, le domande di ricerca a cui si tenta di dare risposta sono le seguenti: come vanno interpretate, dal punto di vista del lavoro dipendente, le concrete espressioni della flessibilità? Che tipo di conseguenze hanno le stesse sul benessere sociale sperimentato dai lavoratori e lavoratrici interessati dal fenomeno? Come va interpretata, più in generale, la flessibilità nell’ottica dell’analisi dell’evoluzione storica della condizione sociale del lavoro dipendente? La trattazione si apre nel primo capitolo con un inquadramento concettuale della flessibilità. Al centro dell’analisi vi saranno il carattere multidimensionale del fenomeno e la sua natura innovativa ed atipica nei confronti del cosiddetto lavoro standard. Dopo avere inquadrato concettualmente la flessibilità, mostrandone le concrete espressioni occupazionali, il secondo e terzo capitolo saranno dedicati ad un approfondimento della più discussa ed analizzata dimensione della flessibilità: il lavoro a tempo determinato. Il principale risultato dei primi tre capitoli sarà la sottolineatura di come l’innovazione e la specificità del lavoro flessibile si risolva, concretamente, in condizioni occupazionali ed economico sociali per il lavoro dipendente flessibile senza dubbio peggiori di quelle associabili all’idealtipo di lavoro standard. Nel quarto capitolo ci si occuperà di presentare e discutere le principali tesi a sostegno della flessibilità. Come si cercherà di argomentare la motivazione ultima del sostegno alla flessibilità può essere rintracciata nella asserita capacità di stimolo alla crescita occupazionale derivante dalla flessibilizzazione dei mercati del lavoro: la flessibilità renderebbe le imprese maggiormente competitive, il che porterebbe a migliori risultati per quest’ultime e, conseguentemente, ad una crescita della domanda di lavoro. Lo schema di riferimento delle teorie sostenitrici della flessibilità del lavoro, così come il relativo dibattito internazionale, sarà indagato mantenendo come centrali due elementi di fondo: la strutturale incapacità (specie nel contesto Europeo) di riduzione dei tassi di disoccupazione dopo la piena occupazione del c.d. trentennio glorioso; la crescente competizione globale dei mercati dei beni e servizi. Questo è il contesto in cui sarà collocato il sostegno alla flessibilità espresso nel tempo dalla totalità dei governi nazionali, dalla Commissione Europea, dai principali istituti di cooperazione internazionale (per es. OCSE e FMI) e dall’ampia maggioranza del mondo accademico. Dalla trattazione che si porterà avanti nel quarto capitolo sarà possibile evidenziare dei primi risultati empirici in merito allo schema seguito dai sostenitori della flessibilità. In particolare, sarà possibile, seguendo le analisi svolte a livello internazionale sul tema, mostrare come per quanto riguarda la flessibilità salariale siano assai scarse le evidenze a favore della tesi secondo cui l’adeguamento ed adattamento dei salari alle condizioni di concorrenza conducano a positivi risultati occupazionali. Nel quinto e sesto capitolo ci si concentrerà su di un’analisi critica delle teorie che, focalizzando la loro attenzione sul lavoro a tempo determinato, hanno indicato specifiche interpretazioni (capitolo 5) o possibili correttivi socialmente accettabili (capitolo 6) alla instabilità occupazionale e retributiva derivante dalla flessibilità dei rapporti di lavoro. Il settimo capitolo avrà come scopo l’indagine empirica dei risultati occupazionali della flessibilità nella sua dimensione di lavoro a tempo determinato. Utilizzando ed elaborando dati ricavati dal database dell’OCSE, e seguendo la metodologia di indagine presente in letteratura, si confronteranno gli andamenti degli indici di protezione all’impiego (indici EPL OCSE) con gli andamenti occupazionali (andamenti nei tassi di disoccupazione e nei tassi di occupazione). Come per la flessibilità salariale sarà possibile, anche nel caso del lavoro a tempo determinato, rilevare la assenza di evidenze nella direzione indicata dai sostenitori della flessibilità. In altri termini, si sottolineerà la mancanza di una correlazione statisticamente significativa tra riduzione delle protezioni all’impiego e crescita dell’occupazione. Il successivo capitolo ottavo sarà focalizzato sull’analisi delle relazioni, individuate in letteratura, tra flessibilità ed andamenti della disuguaglianza sociale. Seguendo gli studi di settore, sarà possibile mostrare come la flessibilizzazione dei mercati del lavoro rappresenti uno degli elementi capaci di spiegare l’aumento delle disuguaglianze sociali che ha caratterizzato i paesi a capitalismo avanzato negli ultimi tre decenni. Nelle conclusioni, infine, sintetizzando e sistematizzando i principali risultati raggiunti nella trattazione svolta nel corso di tutti i capitoli, si passerà a dare risposta alle domande di ricerca da cui si è partiti. Secondo quanto si cercherà di argomentare, la flessibilità determina una evidente contrapposizione di interessi tra lavoratori ed imprese. Le imprese attraverso la flessibilità hanno la possibilità di giovarsi di condizioni di utilizzo della forza lavoro decisamente in linea con le proprie esigenze ed interessi. Ne deriva che appare del tutto comprensibile il favore con cui le imprese hanno da sempre guardato alla flessibilizzazione dei mercati del lavoro. Al contrario, per il lavoro dipendente l’innovazione e discontinuità storica rappresentata dall’adattamento flessibile alle esigenze espresse dai cicli produttivi determina un sensibile peggioramento nelle condizioni economico sociali ed occupazionali. Tale peggioramento potrebbe essere considerato dal lavoro dipendente come una soluzione subottimale o uno spiacevole trade off (disoccupazione o occupazione di scarsa qualità) qualora risultassero empiricamente confermate le supposte positive ricadute occupazionali derivanti dalla crescita di competitività delle imprese resa possibile dalla flessibilità (i comuni interessi tra imprese e lavoratori a cui si sono richiamati nel tempo i diversi fautori della flessibilizzazione del mercato del lavoro). Tuttavia, come già anticipato, il principale risultato dell’analisi che si svilupperà nel corso della ricerca in merito alle relazioni empiricamente osservabili tra flessibilità, nelle sue diverse dimensioni, ed andamenti occupazionali è proprio la mancanza di una significativa e chiara relazione tra diffusione della flessibilità ed aumenti nei tassi di occupazione. Partendo da queste considerazioni, nelle conclusioni, si sosterrà la tesi secondo cui dal punto di vista del lavoro dipendente il generale fenomeno di flessibilizzazione del lavoro può essere letto come una forma storica di regressione sociale. Una regressione che, nel confronto con il “naturale” termine di paragone rappresentato dal lavoro standard, determina perdita di stabilità, tutele e benessere economico sociale senza che ciò possa essere in alcun modo razionalmente giustificato.
6-giu-2013
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