Il lavoro di ricerca condotto è centrato sull’analisi dell’esperienza sociale (Dubet, 1994, 2002; Jedlowski, 2010, 2005) dei giovani immigrati di seconda generazione o di generazione 1.5. L’orientamento scelto è quello di interpretare nella contemporaneità, alla luce del declino delle istituzioni dello Stato-nazione e dell’affermarsi potente della logica di mercato, la differenza culturale e, in particolare, come questa sia sperimentata quotidianamente dai giovani migranti, dal momento che l’immigrazione rivela in modo netto le trasformazioni di un meccanismo di integrazione sociale e di una narrazione che è stata idealizzata (Dubet, 2009). Sono questi giovani, infatti, che a causa del ritrarsi dello Stato sociale e quindi del minore investimento nell’educazione formale e nei processi socializzativi, uniti all’incapacità di sviluppare un’integrazione fra competenze e mercato del lavoro, si presentano come identità a rischio. Identità cioè, che trovandosi dislocate sia rispetto al mondo globalizzato, sia rispetto allo Stato, possono trovarsi in bilico tra il ripiegamento comunitario e la perdita dell’esperienza di sé intesa come sradicamento e sottomissione al dominio del mercato. L’obiettivo della ricerca è quello di cogliere la tensione che ciascun attore sperimenta nel tenere insieme il bisogno di sentirsi parte di una collettività (e quindi di rispondere alle pressioni sociali) con le produzione di sé in quanto soggetto. La prospettiva adottata è quella dell’attore sociale e del Soggetto sui quali si concentra la riflessione teorica di Alain Touraine e del Cadis (Centre d’Analyse et d’Intervention Sociologiques), un orientamento teorico che si concentra su un tipo di azione consapevole e progettuale che entra in tensione, da un lato, con le aspettative e le norme che il contesto sociale di riferimento riproduce e, dall’altro, con le caratteristiche di un agire strumentale al fine di raggiungere un fine individuale. La concettualizzazione analitica alla base della ricerca empirica è il concetto di esperienza sociale così come formulato da François Dubet (1994). Dubet intende per esperienza la combinazione di diverse logiche di azione che l’attore “faticosamente” tenta di tenere insieme al fine di costituirsi come soggetto. Le logiche distinte da Dubet sono l’integrazione, la strategia e la soggettivazione. Se nella logica dell’integrazione, l’attore è definito in base alle proprie appartenenze volte a mantenere o rinforzare una società e si riconosce nel ruolo ricoperto all’interno della società stessa, nella logica della strategia l’attore agisce in termini di calcolo, cercando di realizzare i propri interessi e di vedersi riconosciuto per il proprio merito in una società in cui esiste una competizione per l’ottenimento di beni (denaro, potere, riconoscimento). E’, però, nella terza logica, quella della soggettivazione, che l’attore prevale rispetto al sistema. Il soggetto non si identifica né nel ruolo dell’integrazione, né negli interessi della strategia, ma si orienta verso una rappresentazione della propria creatività, della propria libertà e della propria autenticità. Il riferimento al concetto di esperienza si è rivelato molto utile sul piano metodologico poiché ha consentito di stare “dalla parte dei soggetti”, cercando di comprendere la loro personale visione del mondo e di cogliere le dimensioni centrali della loro esistenza. Ha permesso, inoltre, da un lato di cogliere le implicazioni soggettive del processo di ristrutturazione della relazione spazio-tempo nell’era della globalizzazione, e dall’altro, di chiamare in causa continuamente la responsabilità che il soggetto ha in un mondo dove è obbligato a fare continuamente delle scelte nella propria vita quotidiana. L’esperienza dei giovani migranti è stata esplorata attraverso la realizzazione e l’analisi di interviste in profondità sulle dimensioni della quotidianità (Colombo, 2010; Leonini, Rebughini, 2010; Colombo, Semi, 2007; Jedlowski, 2000; Jedlowski, Leccardi, 2003) che hanno consentito di cogliere la complessità di tale esperienza e in particolare la tensione mai risolta tra i diversi poli che la compongono. Il rapporto con gli intervistati è stato tutto volto a indagare l’esperienza quotidiana, così si è tentato di dirigere il racconto verso le loro pratiche quotidiane: come trascorrono il proprio tempo, che rapporto hanno con la famiglia, con la scuola, con la fede, che concezione hanno della cittadinanza, del lavoro e che progetti hanno, quali sono le loro relazioni amicali e sentimentali, che utilizzo fanno dei media e dei new media. La ricerca ha coinvolto 40 ragazzi (20 maschi e 20 femmine) in età compresa tra i 14 e i 22 anni; i dati raccolti hanno avuto come luogo privilegiato la scuola secondaria di secondo grado e il territorio scelto è stata la città di Napoli e il suo hinterland che hanno contribuito a rendere il lavoro più vicino all’impostazione teorico-concettuale. Il lavoro è stato realizzato in più realtà - quartieri periferici e zone centrali della città – al fine di restare concentrati sul soggetto e sulle spinte soggettive all’azione, ambiti di riflessione in cui entrano in gioco più variabili interpretative. Tuttavia, la metropoli ha avuto un ruolo fondamentale sia in una lettura sociale, nella separazione tra periferie e zone centrali, sia in una lettura culturale perché, come afferma Wieviorka (2002, 2007), nell’epoca della globalizzazione i fattori sociali e quelli culturali si intersecano sempre di più. Sul piano sociale, vivere in una metropoli, luogo per eccellenza della differenziazione sociale, acuisce per i giovani intervistati la valenza simbolica della relazione centro/periferia; e da un punto di vista prettamente culturale, i ragazzi intervistati sembrano incarnare la figura dell’uomo blasè (Simmel, 1903), di un individuo disincantato e annoiato nei confronti di tutto ciò che offre la metropoli. Ma se per Simmel l’individuo blasè è colui che “ha già visto tutto”, questo non vale per i giovani intervistati che hanno sperimentato (o sperimentano) la sensazione di essere ai margini e quindi vedono di fronte a loro un mondo di risorse a cui non possono accedere. Questa annoiata indifferenza altro non è che una forma di difesa di fronte all’eccesso di stimoli che caratterizza la vita delle grandi città e all’incapacità di dominarli e di possederli. Durante gli spostamenti metropolitani i ragazzi si rendono conto che l’esperienza è molto più ampia di quella che vivono e percepiscono, così, una complessità e una ricchezza a cui non riescono ad accedere. L’impianto metodologico della ricerca è di tipo qualitativo: le interviste in profondità (ciascuna della durata di 1 ora e ½ circa) sono state costruite e condotte tentando il più possibile di coltivare un’apertura ermeneutica. Al fine di cogliere l’unicità della dimensione quotidiana dell’esistenza e la percezione soggettiva della realtà sociale, accanto alle interviste sono stati raccolti anche materiali visuali prodotti dagli intervistati, considerati ed analizzati in base alla loro funzione ermeneutica. La presentazione dei risultati ha seguito l’iter della prospettiva narrativa attraverso racconti di episodi, descrizioni di casi, narrazioni. Leggere le biografie dei migranti con le lenti dell’esperienza sociale ha consentito, in primo luogo, di avvicinarsi maggiormente ai soggetti cogliendone la profonda inquietudine; questi, infatti, vivono - forse per primi - la dissoluzione della modernità societaria. In secondo luogo, questa lettura ha permesso di uscire da letture strutturaliste troppo incentrate sulla dicotomia integrazione/non integrazione che aiutano parzialmente nella comprensione della contemporanea società singolarizzata. Il lavoro di analisi delle interviste ha significato l’accettazione di una compresenza di almeno due logiche: una che li orienta verso l’integrazione prodotta dalle istituzioni centrali e una, invece, di resistenza al mantenimento dell’integrità di tali mondi, espressa con lo svuotamento di significati rispetto ai tradizionali mondi istituzionali. Se da un lato gli attori si trovano “tirati” dalla comunità, e quindi dal desiderio di sentirsi “parte”, dall’altro manifestano il desiderio di distanziarsene per affermare se stessi al di fuori di ruoli predefiniti che stanno perdendo via via di significato. Da questo punto di vista è interessante rivisitare il concetto di integrazione che alla luce delle interviste sembra attestarsi a un livello minimale. Famiglia, scuola, fede e città non costituiscono un ambito rilevante nel continuo processo di significazione; convergono nel polo dell’integrazione, perché sono i quadri istituzionali entro cui si muove l’individuo, quelli che lo obbligano a ridefinirsi in base al ruolo: figlio, studente, fedele, cittadino (o straniero), ma, ascoltando i racconti relativi a questi mondi istituzionali, è saltato subito all’occhio come l’integrazione prodotta dalle istituzioni centrali, sia un’integrazione “minima”, anzi nel caso della scuola è più pertinente parlare di inserimento (Spreafico, 2006; Cotesta,1999); queste istituzioni si presentano come contenitori di integrazione molto spesso privi di contenuto prodotto dagli attori stessi e lasciano vedere chiaramente la tensione tra le logiche. Il lavoro e la cittadinanza sono ambiti in cui si manifesta il bisogno di posizionarsi nella società attraverso criteri come il merito e l’uguaglianza e di vedersi riconosciuti come individui, ma rivelano, allo stesso tempo, una debole tensione verso l’agire strategico e progettuale. Debole poiché i ragazzi intervistati vivono il presente in modo esasperato (Leccardi, 2009) e i progetti di vita appaiono contraddittori, opachi e confusi. Il lavoro è un atout a disposizione per effettuare delle scelte, una rivendicazione sociale ma che non appare connessa alla ricerca di sé, ovvero alla capacità di essere attore delle proprie scelte e delle proprie esperienze. Esso, infatti, non appare legato a nessuna aspirazione e a nessun desiderio se non a quello di vivere in un altrove immaginario. Sicuramente questo risultato è attribuibile alla giovane età dei ragazzi coinvolti, che più che attori sono proto attori e ancora non si sono confrontati effettivamente con una dimensione lavorativa, però è anche vero che l'esperienza sociale dei giovani non caratterizza un attore cosciente ed organizzato ma individua una vera e propria questione sociale. Il modo in cui una generazione affronta le trasformazioni strutturali della società, la scolarizzazione prolungata, il differimento e la difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro, fanno sì che la gioventù si costituisca come un vero attore sociale che unisce il problema sociale a quello generazionale (Dubet e Lapeyronnie, 1992; Dubet, 1996). La cittadinanza è percepita come necessaria ma è interpretata come un diritto sociale staccato dal sé, consente inserimento ma quasi mai integrazione. Lingua, amicizia, amore, corpo, media, consumi, progetti sono ambiti nei quali il soggetto ha più margini per esprimere se stesso, la propria unicità e autenticità e convergono, così, nel polo della soggettivazione nel quale la differenza è vissuta attribuendole un senso personale. E’ qui, infatti, che il riferimento all’identità attiene soprattutto all’ordine della scelta: si sceglie di “stare nella differenza” o anche di “non stare nella differenza”, ma “si prende questo tipo di decisione […] per manifestare una capacità d’azione e tracciare la propria esistenza” (Wierviorka, 2002, p.138). Ma anche se siamo partiti dall’ipotesi che il polo della soggettivazione (cioè il desiderio di costruirsi una vita personale) è quello che meglio definisce l’identità culturale dei ragazzi intervistati e che, quindi, lo stare dentro la differenza si traduce in una produzione di significati personali, questa tensione non si manifesta tanto come capacità di agire quanto, soprattutto, come resistenza e/o rifiuto in cui possibilità e disimpegno sono presenti allo stesso modo e nello stesso momento. Questo perché il sociale “ritorna”, anche e soprattutto, in termini di conseguenze negative, di forze distruttive e comporta un disallineamento tra “mondo delle possibilità” e realtà sociale. La parte soggettiva dell’identità si coglie, quindi, sia nell’impegno del soggetto a costruire la propria vita e a percepirsi come l’attore protagonista della propria esistenza, sia nel disimpegno, nel “non desidero”, nel “non progetto”, mostrando un atteggiamento di resa di fronte agli eventi della vita. Così gli attori sembrano impauriti dall’irrompere della realtà fatta soprattutto di vincoli oggi esperiti come insuccesso scolastico, risorse economiche e di tempo limitate, impossibilità di abitare uno spazio reale e relazionale veramente integrato. La percezione dell’universo delle possibilità sembra restringersi di fronte alla realtà. I ragazzi ascoltati sentono il peso di questi vincoli e sentono di non farcela; questo non si traduce in rabbia o in desiderio di rivalsa, ma nell’assenza di passioni, di grinta e di competizione, nella scomparsa della “voglia di vincere e di realizzarsi”. La soggettivazione non emerge come contrapposizione a un dominio, come denuncia delle imposizioni, ma si definisce soprattutto nei termini di una rinuncia. I ragazzi intervistati hanno davanti a sé un mondo precario, che li rende incapaci di accedere ai segni, alla realtà del consumo e del denaro, di affermarsi personalmente ovvero di esperire la costruzione e l’espressione di sé (Wievorka, 2002, 2007); in tal senso l’esortazione a impegnare il sé, a motivarsi, a progettare la propria vita e il proprio destino diventa una vera e propria barriera. Se è vero che il lavoro dei teorici, quali Touraine, Dubet, Wieviorka e Martuccelli ha sostenuto fortemente il mio lavoro poiché ne ha fornito il frame interpretativo e ha reso intellegibile una complessità empirica che altrimenti avrei letto solo in termini di integrazione (non considerando gli altri due poli che compongono l’esperienza sociale), la dimensione empirica, ovvero la vicinanza ai soggetti, oltre ad arricchirmi umanamente, mi ha consentito di focalizzarmi su alcune questioni che appaiono dirimenti. Sicuramente ho avuto l’opportunità - grazie alle riflessioni che le narrazioni hanno suscitato in me - di rielaborare il modello analitico e di individuare un’area non presa in considerazione dal modello, che si distanzia da tutte e tre le logiche ed è abitata da coloro che non manifestano progettualità, né strategia, né radicamento, né una spinta verso la soggettivazione. Gli attori che vivono in questo spazio non attribuiscono un significato profondo e personale alla comunità (e questo si traduce in uno scarso radicamento e in un allontanamento dal polo dell’integrazione), allo stesso tempo non mostrano un disegno progettuale che lasci intravedere una strategia, né pronunciano un “no” o una critica alla situazione che stanno vivendo che consente di spingerli verso il polo della soggettivazione. Così questo gruppo di attori sceglie di non tendere verso nessuno dei tre poli, mostrando un atteggiamento che alterna l’apatia all’attesa di un domani che però non è neanche immaginato. I progetti sono confusi se non assenti, l’immaginario è imbrigliato in un realismo paralizzante: i ragazzi hanno difficoltà anche a fantasticare o ad immaginarsi tra dieci anni. Se nel modello di Dubet gli attori combinano il bisogno di appartenenza, la spinta strategica e il desiderio di affermazione di sé con grande fatica, nella realtà indagata questi tre poli non sono così forti da chiedere al soggetto una combinazione faticosa, per cui alcuni attori non sembrano affaticati dal doverle mettere insieme, ma piuttosto da una anestetizzazione rispetto a queste tre spinte. E’ questo il paradosso della contemporaneità, quello che Dubet (2009) definisce dominio senza struttura: si tratta di una dominazione del sistema che è tanto più forte quanto più il potere è debole. In assenza di istituzioni forti, di interlocutori validi, di punti di riferimento chiari, il soggetto avverte l’obbligo di essere libero e la soggettivazione si rivolta contro se stessa quando il soggetto (soprattutto se in assenza di risorse), a causa dell’indebolimento del discorso istituzionale, deve farsi carico di tutti i suoi atti e di tutti i suoi fallimenti con un eccesso di responsabilizzazione. Questo fardello si traduce, così, nella sospensione e nel disimpegno. La difficoltà sperimentata dagli attori non è da ricondurre solo alla giovane età, ma soprattutto al capitalismo contemporaneo che obbliga ad essere flessibile e a fare delle scelte: obbliga ad essere libero. Un mondo sociale così destrutturato non offre pilastri a cui l’attore sociale può appigliarsi per affermare il proprio stare nel mondo con differenza e questo si traduce in un’apatia o in un desiderio di valicare i confini che, però, non deve essere letto come rivalsa o rivendicazione, quanto, piuttosto, come resa. Gli attori sociali che vivono la dissoluzione della modernità societaria e la disgregazione del sociale difficilmente manifestano preferenze, divengono incapaci di accedere ai segni, alla realtà del consumo e del denaro e di affermarsi personalmente. Nel momento in cui non c’è una struttura da combattere, non c’è fatica nel tenere insieme le tre logiche che compongono l’esperienza sociale, anche la soggettivazione emerge con difficoltà. E’ all’interno di questo quadro che può essere interpretata quella tensione al cosmopolitismo che è un tratto significativo emergente da tutte le interviste ma che più che una scelta consapevole sembra essere una retorica al servizio del capitalismo contemporaneo. Al contrario dei padri e delle madri, i ragazzi non cercano un radicamento ma una mobilità permanente; come i padri hanno sperimentato la solitudine ma, al contrario di questi, non sentono di appartenere a una comunità e la definizione di sé appare debolmente connessa sia al passato che al futuro. Gli intervistati, quindi, manifestano un desiderio di mobilità poco realistico e poco sostenuto da strategie sia brevi che a lungo termine e la critica alla società pur essendo sempre implicita si traduce in uno scarso radicamento e in una tensione al tempo stesso emancipatrice ma anche opportunistica.

Giovani migranti alla prova. Biografie in costruzione / DELLO RUSSO, Marina. - (2013 Jun 06).

Giovani migranti alla prova. Biografie in costruzione

DELLO RUSSO, MARINA
06/06/2013

Abstract

Il lavoro di ricerca condotto è centrato sull’analisi dell’esperienza sociale (Dubet, 1994, 2002; Jedlowski, 2010, 2005) dei giovani immigrati di seconda generazione o di generazione 1.5. L’orientamento scelto è quello di interpretare nella contemporaneità, alla luce del declino delle istituzioni dello Stato-nazione e dell’affermarsi potente della logica di mercato, la differenza culturale e, in particolare, come questa sia sperimentata quotidianamente dai giovani migranti, dal momento che l’immigrazione rivela in modo netto le trasformazioni di un meccanismo di integrazione sociale e di una narrazione che è stata idealizzata (Dubet, 2009). Sono questi giovani, infatti, che a causa del ritrarsi dello Stato sociale e quindi del minore investimento nell’educazione formale e nei processi socializzativi, uniti all’incapacità di sviluppare un’integrazione fra competenze e mercato del lavoro, si presentano come identità a rischio. Identità cioè, che trovandosi dislocate sia rispetto al mondo globalizzato, sia rispetto allo Stato, possono trovarsi in bilico tra il ripiegamento comunitario e la perdita dell’esperienza di sé intesa come sradicamento e sottomissione al dominio del mercato. L’obiettivo della ricerca è quello di cogliere la tensione che ciascun attore sperimenta nel tenere insieme il bisogno di sentirsi parte di una collettività (e quindi di rispondere alle pressioni sociali) con le produzione di sé in quanto soggetto. La prospettiva adottata è quella dell’attore sociale e del Soggetto sui quali si concentra la riflessione teorica di Alain Touraine e del Cadis (Centre d’Analyse et d’Intervention Sociologiques), un orientamento teorico che si concentra su un tipo di azione consapevole e progettuale che entra in tensione, da un lato, con le aspettative e le norme che il contesto sociale di riferimento riproduce e, dall’altro, con le caratteristiche di un agire strumentale al fine di raggiungere un fine individuale. La concettualizzazione analitica alla base della ricerca empirica è il concetto di esperienza sociale così come formulato da François Dubet (1994). Dubet intende per esperienza la combinazione di diverse logiche di azione che l’attore “faticosamente” tenta di tenere insieme al fine di costituirsi come soggetto. Le logiche distinte da Dubet sono l’integrazione, la strategia e la soggettivazione. Se nella logica dell’integrazione, l’attore è definito in base alle proprie appartenenze volte a mantenere o rinforzare una società e si riconosce nel ruolo ricoperto all’interno della società stessa, nella logica della strategia l’attore agisce in termini di calcolo, cercando di realizzare i propri interessi e di vedersi riconosciuto per il proprio merito in una società in cui esiste una competizione per l’ottenimento di beni (denaro, potere, riconoscimento). E’, però, nella terza logica, quella della soggettivazione, che l’attore prevale rispetto al sistema. Il soggetto non si identifica né nel ruolo dell’integrazione, né negli interessi della strategia, ma si orienta verso una rappresentazione della propria creatività, della propria libertà e della propria autenticità. Il riferimento al concetto di esperienza si è rivelato molto utile sul piano metodologico poiché ha consentito di stare “dalla parte dei soggetti”, cercando di comprendere la loro personale visione del mondo e di cogliere le dimensioni centrali della loro esistenza. Ha permesso, inoltre, da un lato di cogliere le implicazioni soggettive del processo di ristrutturazione della relazione spazio-tempo nell’era della globalizzazione, e dall’altro, di chiamare in causa continuamente la responsabilità che il soggetto ha in un mondo dove è obbligato a fare continuamente delle scelte nella propria vita quotidiana. L’esperienza dei giovani migranti è stata esplorata attraverso la realizzazione e l’analisi di interviste in profondità sulle dimensioni della quotidianità (Colombo, 2010; Leonini, Rebughini, 2010; Colombo, Semi, 2007; Jedlowski, 2000; Jedlowski, Leccardi, 2003) che hanno consentito di cogliere la complessità di tale esperienza e in particolare la tensione mai risolta tra i diversi poli che la compongono. Il rapporto con gli intervistati è stato tutto volto a indagare l’esperienza quotidiana, così si è tentato di dirigere il racconto verso le loro pratiche quotidiane: come trascorrono il proprio tempo, che rapporto hanno con la famiglia, con la scuola, con la fede, che concezione hanno della cittadinanza, del lavoro e che progetti hanno, quali sono le loro relazioni amicali e sentimentali, che utilizzo fanno dei media e dei new media. La ricerca ha coinvolto 40 ragazzi (20 maschi e 20 femmine) in età compresa tra i 14 e i 22 anni; i dati raccolti hanno avuto come luogo privilegiato la scuola secondaria di secondo grado e il territorio scelto è stata la città di Napoli e il suo hinterland che hanno contribuito a rendere il lavoro più vicino all’impostazione teorico-concettuale. Il lavoro è stato realizzato in più realtà - quartieri periferici e zone centrali della città – al fine di restare concentrati sul soggetto e sulle spinte soggettive all’azione, ambiti di riflessione in cui entrano in gioco più variabili interpretative. Tuttavia, la metropoli ha avuto un ruolo fondamentale sia in una lettura sociale, nella separazione tra periferie e zone centrali, sia in una lettura culturale perché, come afferma Wieviorka (2002, 2007), nell’epoca della globalizzazione i fattori sociali e quelli culturali si intersecano sempre di più. Sul piano sociale, vivere in una metropoli, luogo per eccellenza della differenziazione sociale, acuisce per i giovani intervistati la valenza simbolica della relazione centro/periferia; e da un punto di vista prettamente culturale, i ragazzi intervistati sembrano incarnare la figura dell’uomo blasè (Simmel, 1903), di un individuo disincantato e annoiato nei confronti di tutto ciò che offre la metropoli. Ma se per Simmel l’individuo blasè è colui che “ha già visto tutto”, questo non vale per i giovani intervistati che hanno sperimentato (o sperimentano) la sensazione di essere ai margini e quindi vedono di fronte a loro un mondo di risorse a cui non possono accedere. Questa annoiata indifferenza altro non è che una forma di difesa di fronte all’eccesso di stimoli che caratterizza la vita delle grandi città e all’incapacità di dominarli e di possederli. Durante gli spostamenti metropolitani i ragazzi si rendono conto che l’esperienza è molto più ampia di quella che vivono e percepiscono, così, una complessità e una ricchezza a cui non riescono ad accedere. L’impianto metodologico della ricerca è di tipo qualitativo: le interviste in profondità (ciascuna della durata di 1 ora e ½ circa) sono state costruite e condotte tentando il più possibile di coltivare un’apertura ermeneutica. Al fine di cogliere l’unicità della dimensione quotidiana dell’esistenza e la percezione soggettiva della realtà sociale, accanto alle interviste sono stati raccolti anche materiali visuali prodotti dagli intervistati, considerati ed analizzati in base alla loro funzione ermeneutica. La presentazione dei risultati ha seguito l’iter della prospettiva narrativa attraverso racconti di episodi, descrizioni di casi, narrazioni. Leggere le biografie dei migranti con le lenti dell’esperienza sociale ha consentito, in primo luogo, di avvicinarsi maggiormente ai soggetti cogliendone la profonda inquietudine; questi, infatti, vivono - forse per primi - la dissoluzione della modernità societaria. In secondo luogo, questa lettura ha permesso di uscire da letture strutturaliste troppo incentrate sulla dicotomia integrazione/non integrazione che aiutano parzialmente nella comprensione della contemporanea società singolarizzata. Il lavoro di analisi delle interviste ha significato l’accettazione di una compresenza di almeno due logiche: una che li orienta verso l’integrazione prodotta dalle istituzioni centrali e una, invece, di resistenza al mantenimento dell’integrità di tali mondi, espressa con lo svuotamento di significati rispetto ai tradizionali mondi istituzionali. Se da un lato gli attori si trovano “tirati” dalla comunità, e quindi dal desiderio di sentirsi “parte”, dall’altro manifestano il desiderio di distanziarsene per affermare se stessi al di fuori di ruoli predefiniti che stanno perdendo via via di significato. Da questo punto di vista è interessante rivisitare il concetto di integrazione che alla luce delle interviste sembra attestarsi a un livello minimale. Famiglia, scuola, fede e città non costituiscono un ambito rilevante nel continuo processo di significazione; convergono nel polo dell’integrazione, perché sono i quadri istituzionali entro cui si muove l’individuo, quelli che lo obbligano a ridefinirsi in base al ruolo: figlio, studente, fedele, cittadino (o straniero), ma, ascoltando i racconti relativi a questi mondi istituzionali, è saltato subito all’occhio come l’integrazione prodotta dalle istituzioni centrali, sia un’integrazione “minima”, anzi nel caso della scuola è più pertinente parlare di inserimento (Spreafico, 2006; Cotesta,1999); queste istituzioni si presentano come contenitori di integrazione molto spesso privi di contenuto prodotto dagli attori stessi e lasciano vedere chiaramente la tensione tra le logiche. Il lavoro e la cittadinanza sono ambiti in cui si manifesta il bisogno di posizionarsi nella società attraverso criteri come il merito e l’uguaglianza e di vedersi riconosciuti come individui, ma rivelano, allo stesso tempo, una debole tensione verso l’agire strategico e progettuale. Debole poiché i ragazzi intervistati vivono il presente in modo esasperato (Leccardi, 2009) e i progetti di vita appaiono contraddittori, opachi e confusi. Il lavoro è un atout a disposizione per effettuare delle scelte, una rivendicazione sociale ma che non appare connessa alla ricerca di sé, ovvero alla capacità di essere attore delle proprie scelte e delle proprie esperienze. Esso, infatti, non appare legato a nessuna aspirazione e a nessun desiderio se non a quello di vivere in un altrove immaginario. Sicuramente questo risultato è attribuibile alla giovane età dei ragazzi coinvolti, che più che attori sono proto attori e ancora non si sono confrontati effettivamente con una dimensione lavorativa, però è anche vero che l'esperienza sociale dei giovani non caratterizza un attore cosciente ed organizzato ma individua una vera e propria questione sociale. Il modo in cui una generazione affronta le trasformazioni strutturali della società, la scolarizzazione prolungata, il differimento e la difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro, fanno sì che la gioventù si costituisca come un vero attore sociale che unisce il problema sociale a quello generazionale (Dubet e Lapeyronnie, 1992; Dubet, 1996). La cittadinanza è percepita come necessaria ma è interpretata come un diritto sociale staccato dal sé, consente inserimento ma quasi mai integrazione. Lingua, amicizia, amore, corpo, media, consumi, progetti sono ambiti nei quali il soggetto ha più margini per esprimere se stesso, la propria unicità e autenticità e convergono, così, nel polo della soggettivazione nel quale la differenza è vissuta attribuendole un senso personale. E’ qui, infatti, che il riferimento all’identità attiene soprattutto all’ordine della scelta: si sceglie di “stare nella differenza” o anche di “non stare nella differenza”, ma “si prende questo tipo di decisione […] per manifestare una capacità d’azione e tracciare la propria esistenza” (Wierviorka, 2002, p.138). Ma anche se siamo partiti dall’ipotesi che il polo della soggettivazione (cioè il desiderio di costruirsi una vita personale) è quello che meglio definisce l’identità culturale dei ragazzi intervistati e che, quindi, lo stare dentro la differenza si traduce in una produzione di significati personali, questa tensione non si manifesta tanto come capacità di agire quanto, soprattutto, come resistenza e/o rifiuto in cui possibilità e disimpegno sono presenti allo stesso modo e nello stesso momento. Questo perché il sociale “ritorna”, anche e soprattutto, in termini di conseguenze negative, di forze distruttive e comporta un disallineamento tra “mondo delle possibilità” e realtà sociale. La parte soggettiva dell’identità si coglie, quindi, sia nell’impegno del soggetto a costruire la propria vita e a percepirsi come l’attore protagonista della propria esistenza, sia nel disimpegno, nel “non desidero”, nel “non progetto”, mostrando un atteggiamento di resa di fronte agli eventi della vita. Così gli attori sembrano impauriti dall’irrompere della realtà fatta soprattutto di vincoli oggi esperiti come insuccesso scolastico, risorse economiche e di tempo limitate, impossibilità di abitare uno spazio reale e relazionale veramente integrato. La percezione dell’universo delle possibilità sembra restringersi di fronte alla realtà. I ragazzi ascoltati sentono il peso di questi vincoli e sentono di non farcela; questo non si traduce in rabbia o in desiderio di rivalsa, ma nell’assenza di passioni, di grinta e di competizione, nella scomparsa della “voglia di vincere e di realizzarsi”. La soggettivazione non emerge come contrapposizione a un dominio, come denuncia delle imposizioni, ma si definisce soprattutto nei termini di una rinuncia. I ragazzi intervistati hanno davanti a sé un mondo precario, che li rende incapaci di accedere ai segni, alla realtà del consumo e del denaro, di affermarsi personalmente ovvero di esperire la costruzione e l’espressione di sé (Wievorka, 2002, 2007); in tal senso l’esortazione a impegnare il sé, a motivarsi, a progettare la propria vita e il proprio destino diventa una vera e propria barriera. Se è vero che il lavoro dei teorici, quali Touraine, Dubet, Wieviorka e Martuccelli ha sostenuto fortemente il mio lavoro poiché ne ha fornito il frame interpretativo e ha reso intellegibile una complessità empirica che altrimenti avrei letto solo in termini di integrazione (non considerando gli altri due poli che compongono l’esperienza sociale), la dimensione empirica, ovvero la vicinanza ai soggetti, oltre ad arricchirmi umanamente, mi ha consentito di focalizzarmi su alcune questioni che appaiono dirimenti. Sicuramente ho avuto l’opportunità - grazie alle riflessioni che le narrazioni hanno suscitato in me - di rielaborare il modello analitico e di individuare un’area non presa in considerazione dal modello, che si distanzia da tutte e tre le logiche ed è abitata da coloro che non manifestano progettualità, né strategia, né radicamento, né una spinta verso la soggettivazione. Gli attori che vivono in questo spazio non attribuiscono un significato profondo e personale alla comunità (e questo si traduce in uno scarso radicamento e in un allontanamento dal polo dell’integrazione), allo stesso tempo non mostrano un disegno progettuale che lasci intravedere una strategia, né pronunciano un “no” o una critica alla situazione che stanno vivendo che consente di spingerli verso il polo della soggettivazione. Così questo gruppo di attori sceglie di non tendere verso nessuno dei tre poli, mostrando un atteggiamento che alterna l’apatia all’attesa di un domani che però non è neanche immaginato. I progetti sono confusi se non assenti, l’immaginario è imbrigliato in un realismo paralizzante: i ragazzi hanno difficoltà anche a fantasticare o ad immaginarsi tra dieci anni. Se nel modello di Dubet gli attori combinano il bisogno di appartenenza, la spinta strategica e il desiderio di affermazione di sé con grande fatica, nella realtà indagata questi tre poli non sono così forti da chiedere al soggetto una combinazione faticosa, per cui alcuni attori non sembrano affaticati dal doverle mettere insieme, ma piuttosto da una anestetizzazione rispetto a queste tre spinte. E’ questo il paradosso della contemporaneità, quello che Dubet (2009) definisce dominio senza struttura: si tratta di una dominazione del sistema che è tanto più forte quanto più il potere è debole. In assenza di istituzioni forti, di interlocutori validi, di punti di riferimento chiari, il soggetto avverte l’obbligo di essere libero e la soggettivazione si rivolta contro se stessa quando il soggetto (soprattutto se in assenza di risorse), a causa dell’indebolimento del discorso istituzionale, deve farsi carico di tutti i suoi atti e di tutti i suoi fallimenti con un eccesso di responsabilizzazione. Questo fardello si traduce, così, nella sospensione e nel disimpegno. La difficoltà sperimentata dagli attori non è da ricondurre solo alla giovane età, ma soprattutto al capitalismo contemporaneo che obbliga ad essere flessibile e a fare delle scelte: obbliga ad essere libero. Un mondo sociale così destrutturato non offre pilastri a cui l’attore sociale può appigliarsi per affermare il proprio stare nel mondo con differenza e questo si traduce in un’apatia o in un desiderio di valicare i confini che, però, non deve essere letto come rivalsa o rivendicazione, quanto, piuttosto, come resa. Gli attori sociali che vivono la dissoluzione della modernità societaria e la disgregazione del sociale difficilmente manifestano preferenze, divengono incapaci di accedere ai segni, alla realtà del consumo e del denaro e di affermarsi personalmente. Nel momento in cui non c’è una struttura da combattere, non c’è fatica nel tenere insieme le tre logiche che compongono l’esperienza sociale, anche la soggettivazione emerge con difficoltà. E’ all’interno di questo quadro che può essere interpretata quella tensione al cosmopolitismo che è un tratto significativo emergente da tutte le interviste ma che più che una scelta consapevole sembra essere una retorica al servizio del capitalismo contemporaneo. Al contrario dei padri e delle madri, i ragazzi non cercano un radicamento ma una mobilità permanente; come i padri hanno sperimentato la solitudine ma, al contrario di questi, non sentono di appartenere a una comunità e la definizione di sé appare debolmente connessa sia al passato che al futuro. Gli intervistati, quindi, manifestano un desiderio di mobilità poco realistico e poco sostenuto da strategie sia brevi che a lungo termine e la critica alla società pur essendo sempre implicita si traduce in uno scarso radicamento e in una tensione al tempo stesso emancipatrice ma anche opportunistica.
6-giu-2013
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Note: Tesi Dottorato di Ricerca
Tipologia: Tesi di dottorato
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