Premessa sull’oggetto dell’indagine Una preliminare e triplice regolazione di confini. Prima: con il sintagma proprietà culturale intendo riferirmi ai beni culturali così come definiti e individuati negli artt. 10 e 11 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42) e disciplinati dalla parte II (appunto dedicata ai “beni culturali”) di tale Codice. La precisazione si impone perché sempre il D.lgs. 42/2004 ha introdotto la nozione di patrimonio culturale, che comprende sia i beni culturali come sopra ricordati sia i beni paesaggistici. Questi ultimi hanno come noto una disciplina “conformativa” propria e peculiare (del resto filiazione della legge sulle bellezze naturali L. 29 giugno 1939, n. 1497 e della c.d. legge “Galasso” 8 agosto 1985, n. 431, così come la disciplina dei beni culturali deriva dalla L. 1 giugno 1939, n. 1089 sulla tutela delle cose di interesse artistico e storico). Tanto che si invera o meglio può inverarsi attraverso ulteriori misure, di natura normativa ma anche provvedimentale, come i piani paesistici, e si dispiega anche attraverso tratti di legislazione speciale come quella sui parchi nazionali (che, tra l’altro, contempla anche ipotesi di prelazione legale, v. art. 15, L. 6 dicembre 1991, n. 394). Fatto sta che nella nostra tradizione dottrinaria la quale, sulla scia dell’insegnamento di Pugliatti, ha messo in luce la presenza di una nozione pluralista di proprietà, si è sempre avuto cura di distinguere, accanto alle varie tipologie (es. proprietà edilizia, agraria, forestale), la proprietà culturale (o storico-artistica, come un tempo si diceva) dalla proprietà paesistica. La proprietà culturale ha anzitutto una nota caratteristica data dal fatto che il suo regime di fondo è tracciato dalla legge dello Stato. Non mancano però interconnessioni con altre fonti, internazionali (v. ad es. la convenzione di Parigi del 16 novembre 1972 avente ad oggetto “la protezione sul piano mondiale del patrimonio culturale e naturale”), europee e regionali. Tutto questo pone non pochi problemi sia di individuazione delle fonti sia di interpretazione, dovendosi coordinare testi di provenienza rispondenti a culture e ordinamenti giuridici diversi. Il fatto è che non siamo più di fronte ad una visione monistica o piramidale dell’ordine giuridico, ma ad una visione pluriordinamentale, in cui concorrono oltre allo Stato e alle Regioni e agli enti locali, comunità sovranazionali di varia origine e composizione, nonché comunità private produttrici di regole, che nel loro complesso danno luogo ad un arcipelago o sistema a rete. Incombe infatti non tanto una gerarchia delle fonti tipica del resto di un sistema monistico, quanto un gioco di rapporti fra ordinamenti che, convivendo e co-vigendo, si comprimono nella relatività della vita giuridica. Queste sono invero le considerazioni con cui Paolo Grossi chiude il suo “Ordine giuridico medievale” (opera costellata di insegnamenti non solo per gli storici del diritto). Con la doverosa precisazione che la gerarchia non è del tutto assente, tali conclusioni possono tuttavia sempre essere applicate al fluido rapporto tra diritto globale, diritto statale e diritto “particolare”, che dà luogo ad un sistema policentrico in corso di continuo svelamento e rivisitazione (come si ricava anche dalla mera lettura della sentenza del Tar Lazio relativa alla sdemanializzazione della Venere di Cirene onde trasferirla in un museo libico, sentenza ricca di richiami a convenzioni e a sentenze internazionali)1. Seconda precisazione è che l’ottica di indagine è quella notarile, sicché si farà riferimento precipuo ai beni culturali immobili, in ordine alla circolazione dei quali rileva il ministero del notaio. Pertanto non si esaminano le pur complesse tematiche della circolazione dei beni mobili (disciplinati tra l’altro da varie fonti internazionali e comunitarie), né tantomeno il tema dei c.d. beni culturali immateriali (precisati da convenzioni internazionali quali le convenzioni Unesco adottate a Parigi il 3 novembre 2003 e il 20 ottobre 2005, ratificate con L. 27 settembre 2007, n. 167, aventi ad oggetto la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e con esso ogni forma di espressione culturale), tantopiù che per essi, a prescindere dal fatto che sono oggetto di una disciplina non conformativa, bensì di una disciplina di censimento, di sovvenzioni e di promozione, non è allo stato identificabile un soggetto cui assegnarne la titolarietà2. La terza precisazione è nel senso che l’attenzione è dedicata prioritariamente ai profili pubblicistici ovvero a quelli che coinvolgono l’esercizio dei poteri della pubblica amministrazione, e non la regolazione dei rapporti privatistici (anche se vi sono evidenti e continui rapporti eziologici). Questo sia per ragioni di disciplina che professo (anche se invero il diritto è un fenomeno unitario, e la divisione in comparti stagni è anzi pericolosa), sia perché si tratta di un tema in cui vi sono miriadi di studi e di saggi, tra cui primeggiano i contributi dei notai3, a dimostrazione tra l’altro che qui, come in tutta la c.d. speculazione giuridica, la ragion pratica è l’humus necessario di ogni ricostruzione o categorizzazione. Pertanto non mi addentrerò sulla querelle della natura del contratto non correttamente prelazionato (nullità, nullità relativa, nullità speciale, nullità di protezione, inefficacia, inopponibilità, etc.), anche se, come del resto si ricava anche dal Codice del processo amministrativo a proposito della nullità del provvedimento amministrativo (che è apparentato con il contratto, anzi ne costituisce una discendenza), la nullità non è più o meglio non è più solo quella il cui regime così “assolutistico” è tracciato dagli artt. 1421, 1422, 1423 c.c. La legislazione difatti conosce svariate ipotesi di nullità c.d. minori, per cui la dizione così tranchant dell’art. 164 c.b.c. non è superabile facendo leva su distonie con la nozione “tipo” di nullità, dato che questo “tipo” non v’è più. Come pure non mi addentro nella individuazione delle categorie contrattuali o in genere delle operazioni di dismissione che sono soggette al regime della prelazione, salvo taluni accenni, basati per lo più sulla interpretazione della nozione di alienazione a titolo oneroso da parte dei giudici amministrativi chiamati a decidere ricorsi avverso i provvedimenti di esercizio della prelazione. Come noto nell’area applicativa della prelazione debbono ritenersi inclusi non solo la compravendita ed ogni altro contratto la cui funzione economicosociale sia riconducibile allo schema dell’alienazione di un diritto dietro corrispettivo, ossia la vendita, la permuta, la costituzione di rendita mediante cessione di un bene diverso dal danaro ma anche quei negozi, nei quali, pur non essendovi corrispettività, v’è un effetto traslativo a titolo oneroso4. Naturalmente i casi dubbi sono tanti (tra cui comunque non più il conferimento, la cui soggezione al regime della prelazione ha ora una base legislativa: art. 60 Codice beni culturali5). Si può comunque dire che la dottrina e la giurisprudenza sono pressoché concordi nel ritenere soggetta a prelazione la rinuncia avvenuta dietro corrispettivo (rinuncia traslativa) in quanto l’atto di rinuncia è finalizzato ad ottenere gli effetti di un’alienazione onerosa. Come pure sono prelazionabili il negotium mixtum cum donatione (salvo che non si ravvisi attraverso una indagine caso per caso che lo spirito di liberalità incide in modo determinante sulla funzione concreta perseguita dal contraenti); il leasing, con l’avvertenza che il regime opera sia riguardo alla vendita dal fornitore al concedente, sia riguardo all’esercizio dell’opzione d’acquisto da parte dell’utilizzatore6. Quanto alla transazione si applica il regime della prelazione se la transazione ha ad oggetto il trasferimento del bene conteso da chi ne è titolare a favore dell’altra parte, in cambio cioè di un aliquid datum o retentum, che viene a configurarsi come corrispettivo7. Tra le tipologie negoziali escluse dal regime prelatizio sono invece da annoverare: a) i preliminari (essendo privi di effetti reali, anche se la prelazione potrà essere esercitata ove le parti domandino l’esecuzione forzata del contratto, ai sensi dell’art. 2392 c.c.); b) gli atti di divisione (perché dotati di efficacia meramente dichiarativa); c) gli atti di affrancazione del bene da parte dell’enfiteuta in quanto investono il diritto del concedente e non la piena proprietà; d) la clausola dell’accordo di separazione che operi il trasferimento a favore di un coniuge, al fine di assicurarne il mantenimento, della proprietà di beni mobili o immobili; e) il contratto di cessione dei beni ai creditori, sembrando da condividere le opinioni che ne negano ogni assimilabilità causale con la transazione o con la datio in solutum: difatti nella cessione dei beni non si verifica un trasferimento dei beni a favore dei creditori, ma solo un conferimento di poteri in forza di un mandato a liquidare in rem propriam; f) la cessione del capitale di una società proprietaria di un bene culturale, in quanto il bene appartiene alla società e non costituisce oggetto di trasferimento, ancorché l’unico cespite della società sia il bene culturale (v. il noto caso degli isolotti “Li Galli”8); g) la fusione, perché non v’è identità tra il soggetto che perde la titolarità del bene e chi riceve la partecipazione sociale.

La proprietà culturale / Morbidelli, Giuseppe. - STAMPA. - (2015), pp. 15-31. (Intervento presentato al convegno Il contributo della prassi notarile alla evoluzione della discilina delle situazioni reali tenutosi a Firenze nel 8 maggio 2015).

La proprietà culturale

Morbidelli, Giuseppe
2015

Abstract

Premessa sull’oggetto dell’indagine Una preliminare e triplice regolazione di confini. Prima: con il sintagma proprietà culturale intendo riferirmi ai beni culturali così come definiti e individuati negli artt. 10 e 11 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42) e disciplinati dalla parte II (appunto dedicata ai “beni culturali”) di tale Codice. La precisazione si impone perché sempre il D.lgs. 42/2004 ha introdotto la nozione di patrimonio culturale, che comprende sia i beni culturali come sopra ricordati sia i beni paesaggistici. Questi ultimi hanno come noto una disciplina “conformativa” propria e peculiare (del resto filiazione della legge sulle bellezze naturali L. 29 giugno 1939, n. 1497 e della c.d. legge “Galasso” 8 agosto 1985, n. 431, così come la disciplina dei beni culturali deriva dalla L. 1 giugno 1939, n. 1089 sulla tutela delle cose di interesse artistico e storico). Tanto che si invera o meglio può inverarsi attraverso ulteriori misure, di natura normativa ma anche provvedimentale, come i piani paesistici, e si dispiega anche attraverso tratti di legislazione speciale come quella sui parchi nazionali (che, tra l’altro, contempla anche ipotesi di prelazione legale, v. art. 15, L. 6 dicembre 1991, n. 394). Fatto sta che nella nostra tradizione dottrinaria la quale, sulla scia dell’insegnamento di Pugliatti, ha messo in luce la presenza di una nozione pluralista di proprietà, si è sempre avuto cura di distinguere, accanto alle varie tipologie (es. proprietà edilizia, agraria, forestale), la proprietà culturale (o storico-artistica, come un tempo si diceva) dalla proprietà paesistica. La proprietà culturale ha anzitutto una nota caratteristica data dal fatto che il suo regime di fondo è tracciato dalla legge dello Stato. Non mancano però interconnessioni con altre fonti, internazionali (v. ad es. la convenzione di Parigi del 16 novembre 1972 avente ad oggetto “la protezione sul piano mondiale del patrimonio culturale e naturale”), europee e regionali. Tutto questo pone non pochi problemi sia di individuazione delle fonti sia di interpretazione, dovendosi coordinare testi di provenienza rispondenti a culture e ordinamenti giuridici diversi. Il fatto è che non siamo più di fronte ad una visione monistica o piramidale dell’ordine giuridico, ma ad una visione pluriordinamentale, in cui concorrono oltre allo Stato e alle Regioni e agli enti locali, comunità sovranazionali di varia origine e composizione, nonché comunità private produttrici di regole, che nel loro complesso danno luogo ad un arcipelago o sistema a rete. Incombe infatti non tanto una gerarchia delle fonti tipica del resto di un sistema monistico, quanto un gioco di rapporti fra ordinamenti che, convivendo e co-vigendo, si comprimono nella relatività della vita giuridica. Queste sono invero le considerazioni con cui Paolo Grossi chiude il suo “Ordine giuridico medievale” (opera costellata di insegnamenti non solo per gli storici del diritto). Con la doverosa precisazione che la gerarchia non è del tutto assente, tali conclusioni possono tuttavia sempre essere applicate al fluido rapporto tra diritto globale, diritto statale e diritto “particolare”, che dà luogo ad un sistema policentrico in corso di continuo svelamento e rivisitazione (come si ricava anche dalla mera lettura della sentenza del Tar Lazio relativa alla sdemanializzazione della Venere di Cirene onde trasferirla in un museo libico, sentenza ricca di richiami a convenzioni e a sentenze internazionali)1. Seconda precisazione è che l’ottica di indagine è quella notarile, sicché si farà riferimento precipuo ai beni culturali immobili, in ordine alla circolazione dei quali rileva il ministero del notaio. Pertanto non si esaminano le pur complesse tematiche della circolazione dei beni mobili (disciplinati tra l’altro da varie fonti internazionali e comunitarie), né tantomeno il tema dei c.d. beni culturali immateriali (precisati da convenzioni internazionali quali le convenzioni Unesco adottate a Parigi il 3 novembre 2003 e il 20 ottobre 2005, ratificate con L. 27 settembre 2007, n. 167, aventi ad oggetto la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e con esso ogni forma di espressione culturale), tantopiù che per essi, a prescindere dal fatto che sono oggetto di una disciplina non conformativa, bensì di una disciplina di censimento, di sovvenzioni e di promozione, non è allo stato identificabile un soggetto cui assegnarne la titolarietà2. La terza precisazione è nel senso che l’attenzione è dedicata prioritariamente ai profili pubblicistici ovvero a quelli che coinvolgono l’esercizio dei poteri della pubblica amministrazione, e non la regolazione dei rapporti privatistici (anche se vi sono evidenti e continui rapporti eziologici). Questo sia per ragioni di disciplina che professo (anche se invero il diritto è un fenomeno unitario, e la divisione in comparti stagni è anzi pericolosa), sia perché si tratta di un tema in cui vi sono miriadi di studi e di saggi, tra cui primeggiano i contributi dei notai3, a dimostrazione tra l’altro che qui, come in tutta la c.d. speculazione giuridica, la ragion pratica è l’humus necessario di ogni ricostruzione o categorizzazione. Pertanto non mi addentrerò sulla querelle della natura del contratto non correttamente prelazionato (nullità, nullità relativa, nullità speciale, nullità di protezione, inefficacia, inopponibilità, etc.), anche se, come del resto si ricava anche dal Codice del processo amministrativo a proposito della nullità del provvedimento amministrativo (che è apparentato con il contratto, anzi ne costituisce una discendenza), la nullità non è più o meglio non è più solo quella il cui regime così “assolutistico” è tracciato dagli artt. 1421, 1422, 1423 c.c. La legislazione difatti conosce svariate ipotesi di nullità c.d. minori, per cui la dizione così tranchant dell’art. 164 c.b.c. non è superabile facendo leva su distonie con la nozione “tipo” di nullità, dato che questo “tipo” non v’è più. Come pure non mi addentro nella individuazione delle categorie contrattuali o in genere delle operazioni di dismissione che sono soggette al regime della prelazione, salvo taluni accenni, basati per lo più sulla interpretazione della nozione di alienazione a titolo oneroso da parte dei giudici amministrativi chiamati a decidere ricorsi avverso i provvedimenti di esercizio della prelazione. Come noto nell’area applicativa della prelazione debbono ritenersi inclusi non solo la compravendita ed ogni altro contratto la cui funzione economicosociale sia riconducibile allo schema dell’alienazione di un diritto dietro corrispettivo, ossia la vendita, la permuta, la costituzione di rendita mediante cessione di un bene diverso dal danaro ma anche quei negozi, nei quali, pur non essendovi corrispettività, v’è un effetto traslativo a titolo oneroso4. Naturalmente i casi dubbi sono tanti (tra cui comunque non più il conferimento, la cui soggezione al regime della prelazione ha ora una base legislativa: art. 60 Codice beni culturali5). Si può comunque dire che la dottrina e la giurisprudenza sono pressoché concordi nel ritenere soggetta a prelazione la rinuncia avvenuta dietro corrispettivo (rinuncia traslativa) in quanto l’atto di rinuncia è finalizzato ad ottenere gli effetti di un’alienazione onerosa. Come pure sono prelazionabili il negotium mixtum cum donatione (salvo che non si ravvisi attraverso una indagine caso per caso che lo spirito di liberalità incide in modo determinante sulla funzione concreta perseguita dal contraenti); il leasing, con l’avvertenza che il regime opera sia riguardo alla vendita dal fornitore al concedente, sia riguardo all’esercizio dell’opzione d’acquisto da parte dell’utilizzatore6. Quanto alla transazione si applica il regime della prelazione se la transazione ha ad oggetto il trasferimento del bene conteso da chi ne è titolare a favore dell’altra parte, in cambio cioè di un aliquid datum o retentum, che viene a configurarsi come corrispettivo7. Tra le tipologie negoziali escluse dal regime prelatizio sono invece da annoverare: a) i preliminari (essendo privi di effetti reali, anche se la prelazione potrà essere esercitata ove le parti domandino l’esecuzione forzata del contratto, ai sensi dell’art. 2392 c.c.); b) gli atti di divisione (perché dotati di efficacia meramente dichiarativa); c) gli atti di affrancazione del bene da parte dell’enfiteuta in quanto investono il diritto del concedente e non la piena proprietà; d) la clausola dell’accordo di separazione che operi il trasferimento a favore di un coniuge, al fine di assicurarne il mantenimento, della proprietà di beni mobili o immobili; e) il contratto di cessione dei beni ai creditori, sembrando da condividere le opinioni che ne negano ogni assimilabilità causale con la transazione o con la datio in solutum: difatti nella cessione dei beni non si verifica un trasferimento dei beni a favore dei creditori, ma solo un conferimento di poteri in forza di un mandato a liquidare in rem propriam; f) la cessione del capitale di una società proprietaria di un bene culturale, in quanto il bene appartiene alla società e non costituisce oggetto di trasferimento, ancorché l’unico cespite della società sia il bene culturale (v. il noto caso degli isolotti “Li Galli”8); g) la fusione, perché non v’è identità tra il soggetto che perde la titolarità del bene e chi riceve la partecipazione sociale.
2015
Il contributo della prassi notarile alla evoluzione della discilina delle situazioni reali
proprietà culturale; bene culturale; la normativa vigente; stato della questione
04 Pubblicazione in atti di convegno::04b Atto di convegno in volume
La proprietà culturale / Morbidelli, Giuseppe. - STAMPA. - (2015), pp. 15-31. (Intervento presentato al convegno Il contributo della prassi notarile alla evoluzione della discilina delle situazioni reali tenutosi a Firenze nel 8 maggio 2015).
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