L’indirizzo inaugurato dalla ormai nota sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, n. 2755 del 10 maggio 2011, sulla possibilità per il giudice amministrativo di modulare gli effetti caducatori delle proprie pronunce, continua a destare perplessità alla luce della sua applicazione da parte della successiva giurisprudenza che, in forza di esso, ha ritenuto di poter superare il principio stabilito dall’Adunanza Plenaria n. 4/2011 sul rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale c.d. escludente. Nello scritto si evidenzia come, per una corretta comprensione del problema, sia a nostro avviso necessario inquadrare la vicenda decisa dalla Sesta Sezione non all’interno del tradizionale giudizio impugnatorio, bensì in quello di condanna ad un facere specifico. In quest’ottica, le peculiarità della pronuncia vanno ricercate nella mancanza, nel nostro processo amministrativo, di un’azione autonoma di condanna ad un facere, la quale – in tutti quei casi ove la domanda giudiziale sia volta ad ottenere non il provvedimento richiesto alla P.A. e da questa implicitamente o esplicitamente negato, quanto piuttosto la condanna dell’Amministrazione all’adozione di un atto che essa avrebbe dovuto emanare d’ufficio – permette di prescindere da un annullamento non sempre conforme all’interesse sostanziale del ricorrente. Su queste basi si cerca quindi di dimostrare che il principio del “non annullamento” può trovare cittadinanza nel nostro ordinamento processuale solo se lo si ricollega a quella che è la ratio della sentenza n. 2755/2011; solo laddove, cioè, vi sia la necessità di modellare l’istanza giudiziale sulla pretesa effettiva della parte, non trovando questa nei mezzi messi a disposizione dal Codice un corrispettivo adeguato. Nell’attuale quadro processuale, ove è assente la previsione di un’azione autonoma di condanna ad un facere, la modulazione degli effetti caducatori andrebbe allora limitata ai soli casi in cui essa sia funzionale ad una statuizione di condanna, la quale peraltro deve essere puntualmente dedotta in giudizio tramite rituale proposizione della relativa domanda, in conformità a quanto sancito dagli artt. 99 e 112 c.p.c.
Azione di annullamento, ricorso incidentale e perplessità applicative della modulazione degli effetti caducatori / Carbone, Andrea. - In: DIRITTO PROCESSUALE AMMINISTRATIVO. - ISSN 0393-1315. - 2(2013), pp. 428-464.
Azione di annullamento, ricorso incidentale e perplessità applicative della modulazione degli effetti caducatori
CARBONE, Andrea
2013
Abstract
L’indirizzo inaugurato dalla ormai nota sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, n. 2755 del 10 maggio 2011, sulla possibilità per il giudice amministrativo di modulare gli effetti caducatori delle proprie pronunce, continua a destare perplessità alla luce della sua applicazione da parte della successiva giurisprudenza che, in forza di esso, ha ritenuto di poter superare il principio stabilito dall’Adunanza Plenaria n. 4/2011 sul rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale c.d. escludente. Nello scritto si evidenzia come, per una corretta comprensione del problema, sia a nostro avviso necessario inquadrare la vicenda decisa dalla Sesta Sezione non all’interno del tradizionale giudizio impugnatorio, bensì in quello di condanna ad un facere specifico. In quest’ottica, le peculiarità della pronuncia vanno ricercate nella mancanza, nel nostro processo amministrativo, di un’azione autonoma di condanna ad un facere, la quale – in tutti quei casi ove la domanda giudiziale sia volta ad ottenere non il provvedimento richiesto alla P.A. e da questa implicitamente o esplicitamente negato, quanto piuttosto la condanna dell’Amministrazione all’adozione di un atto che essa avrebbe dovuto emanare d’ufficio – permette di prescindere da un annullamento non sempre conforme all’interesse sostanziale del ricorrente. Su queste basi si cerca quindi di dimostrare che il principio del “non annullamento” può trovare cittadinanza nel nostro ordinamento processuale solo se lo si ricollega a quella che è la ratio della sentenza n. 2755/2011; solo laddove, cioè, vi sia la necessità di modellare l’istanza giudiziale sulla pretesa effettiva della parte, non trovando questa nei mezzi messi a disposizione dal Codice un corrispettivo adeguato. Nell’attuale quadro processuale, ove è assente la previsione di un’azione autonoma di condanna ad un facere, la modulazione degli effetti caducatori andrebbe allora limitata ai soli casi in cui essa sia funzionale ad una statuizione di condanna, la quale peraltro deve essere puntualmente dedotta in giudizio tramite rituale proposizione della relativa domanda, in conformità a quanto sancito dagli artt. 99 e 112 c.p.c.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.