Il contesto mediterraneo ha recentemente recuperato la tradizionale rilevanza geopolitico di cui ha goduto per lunghi secoli con il susseguirsi di ascesa e declino delle più importanti civiltà del mondo antico. Del resto una peculiare configurazione geopolitica rende il Mediterraneo un ambito regionale senza pari sul pianeta. Uno spazio acquatico appartentemente aperto, ma chiuso da tre choke points di fondamentale importanza geoeconomica corrispondenti allo Stretto di Gibilterra, al Bosforo/Dardanelli e al Canale di Suez. Questi stretti non solo mettono in contatto l’Atlantico con l’Oceano Indiano e il lontano Oriente e forniscono l’accesso agli spazi oceanici per i paesi dello spazio postsovietico, ma consentono quasi di dimezzare i percorsi marittimi dall’Asia ai paesi dell’Europa occidentale. Il Mediterraneo, crocevia di traffici economici e di spostamenti migratori rilevanti tra Europa e Africa, tra mondo occidentale e Oriente, con oltre venti paesi che si affacciano sullo stesso mare costituisce, dunque, un ambiente geopolitico senza pari sul nostro pianeta. Ma come è stato considerato il “mare nostrum” dalle grandi teorie geopolitiche? Volendo sintetizzare è possibile affermare che, attorno al Mediterraneo, ruotano almeno tre quesiti rilevanti di ordine geopolitico. Il primo riguardo la considerazione dello spazio acquatico come frattura o come via di comunicazione: il Mediterraneo divide civiltà e paesi rallentandone il processo di integrazione o è un potente spazio di condivisione che alimenta i contatti tra culture e paesi diversi? La risposta ruota attorno alla capacità o meno di una cultura egemone di accelerare o rallentare questo processo. L’impero romano, ad esempio, riuscì nell’intento mentre altri potenti conquistatori, come gli ottomani, riuscirono ad acquisirne un controllo solo transitorio. Per avvicinarci ai giorni nostri, gli Stati Uniti, durante il periodo della Guerra Fredda ebbero un ruolo egemonico di rilievo nello spazio mediterraneo non solo includendo nella Nato le tre grandi penisole settentrionali, Spagna, Italia e Turchia, ma finendo per stringere accordi anche con importanti paesi della sponda meridionale a cominciare dall’Egitto. In un periodo come quello attuale, caratterizzato da un relativo disimpegno della pressione egemonica statunitense dal MENA (Middle East- North Africa), l’Unione Europea è chiamata naturalmente ad aumentare la propria influenza nel Mediterraneo attraverdso politiche di partnership e di inclusione progressiva verso gli stati della sponda sud: un compito reso difficoltoso non solo dalle transizioni di potere in Tunisia, Egitto e Libia, ma anche dalla crisi economico-finanziaria globale e dalla politica estera “multicefala” dell’Unione, quale riflesso dei principali paesi membri a cominciare dal quartetto composto da Regno Unito, Francia, Germania e Italia. Il secondo quesito di carattere geopolitico riguarda l’essenza stessa della regione mediterranea come realtà unitaria. Sulla questione il dibattito è ancora aperto e mette a confronto autori come Saul Bernard Cohen, che ritengono il mediterraneo un contesto unitario in base a determinati parametri (contiguità geografica, politica, culturale e militare, background storico e migratorio) a studiosi, come Bjorn Hettne, che segnalano la mancanza di una identità specifica mediterranea. Tuttavia, anche se il processo di Barcellona verso una unificazione politica economica del contesto mediterraneo procede lentamente (e il fallimento di iniziative come quello della Unione per il Mediterrano non hanno aiutato a fare progressi) appare difficile sostenere che non esista un ambito regionale mediterraneo che, al contrario ha delle basi non solo geografiche, ma anche storico-economiche. Il terzo quesito, che affonda nell’essenza dei vari modelli geopolitici, riguarda, infine, la necessità di focalizzazione sulla terra o sul mare rispetto alla valutazione del Mediterraneo. La questione, nello specifico, oppone teorie geopolitiche di correnti diverse che potremmo sinteticamente etichettare come tradizione geopolitica “terrestre” e tradizione geopolitica “navalista”. Per fare un esempio di tradizione terrestre, possiamo prendere a esempio il modello interpretativo del padre della geopolitica ovvero Halford Mackinder. Secondo Mackinder i destini del mondo erano definiti dal controllo di una specifica porzione del globo terrestre, definita Heartland, corrispondenti ad una parte della Russia contemporanea e caratterizzata dalla ricchezza del sottosuolo e dalla posizione relativamente periferica che ne rendeva difficile la conquista. Per Mackinder i giochi politici ed egemonici tra le potenze erano destinati a subire l’influenza del tentativo di controllare l’Heartland o di impedire che questo fosse dominato da un attore unitario di grande potenza. In questo “gioco tra le potenze” il Mediterraneo era destinato ad avere un ruolo periferico e a godere di bassa considerazione e centralità. Un esempio di geopolitica navalista, invece, viene dal modello geopolitico di Nicholas Spykman che riprendendo, e modificando le teorie di Mackinder riusciì a prevedere non solo l’avvento della Guerra Fredda, ma anche dinamiche ed assi strategici tuttora presenti nel mondo contemporaneo. Secondo Spykman, i destini politici del mondo risentivano della continua frizione tra sistemi egemonici terrestri (l’Heartland) e sistemi egemonici oceanici in grado di controllare uno specifico spazio marittimo (il Midland Ocean) che, invece di dividere, univa realtà politico-economiche destinate a una continua integrazione: tali contesti erano corrispondenti agli Stati Uniti e all’Europa Occidentale. La continua rivalità tra potenze terrestri e oceaniche avrebbe creato una enorme “cintura” di attrito (Rimland) che, partendo dall’Europa Occidentale e passando per il Medio Oriente e l’Asia sudorientale, terminava in Giappone (le teorie di Spykman peraltro, influenzeranno moltissimo la strategia del “containment” attuata dagli Usa dalla fine degli anni ’40). In questo modello geopolitico il Mediterraneo occupa un ruolo essenziale, non solo perché area vitale di connessione tra contesti marini diversi, e quindi vitale per le potenze oceaniche, ma anche per il suo ruolo di unione tra due porzioni fondamentali del Rimland (l’Europa Occidentale e il Medio Oriente). In questa logica era imperativo che, durante il periodo della Guerra Fredda, le potenze oceaniche, e segnatamente gli Usa, acquisissero un fermo controllo dello spazio mediterraneo sia attraverso la continua integrazione militare (Nato, Cento) sia attraverso l’esercizio di un progressivo controllo politico-economico dei paesi mediorientali. Ora che il confronto bipolare è terminato le teorie di Spykman potrebbero sembrare superate e invece rimangono più attuali che mai anche se trasferite da un egemone “lontano” (gli Usa) ad uno “locale” (l’Unione Europea); tuttavia, anche se gli imperativi geopolitici rimangono gli stessi, sono ben differenti le attuali capacità unificatrici ed egemoniche dell’Ue appaiono decisamente inadeguate all’impresa.

“Il controllo del mare clausum: i modelli geopolitici e la prassi della politica di potenza nel contesto del Mediterraneo” / Anzera, Giuseppe. - (2013). (Intervento presentato al convegno PulArchàios tenutosi a Pula (CA) nel 14 settembre 2013).

“Il controllo del mare clausum: i modelli geopolitici e la prassi della politica di potenza nel contesto del Mediterraneo”

ANZERA, GIUSEPPE
2013

Abstract

Il contesto mediterraneo ha recentemente recuperato la tradizionale rilevanza geopolitico di cui ha goduto per lunghi secoli con il susseguirsi di ascesa e declino delle più importanti civiltà del mondo antico. Del resto una peculiare configurazione geopolitica rende il Mediterraneo un ambito regionale senza pari sul pianeta. Uno spazio acquatico appartentemente aperto, ma chiuso da tre choke points di fondamentale importanza geoeconomica corrispondenti allo Stretto di Gibilterra, al Bosforo/Dardanelli e al Canale di Suez. Questi stretti non solo mettono in contatto l’Atlantico con l’Oceano Indiano e il lontano Oriente e forniscono l’accesso agli spazi oceanici per i paesi dello spazio postsovietico, ma consentono quasi di dimezzare i percorsi marittimi dall’Asia ai paesi dell’Europa occidentale. Il Mediterraneo, crocevia di traffici economici e di spostamenti migratori rilevanti tra Europa e Africa, tra mondo occidentale e Oriente, con oltre venti paesi che si affacciano sullo stesso mare costituisce, dunque, un ambiente geopolitico senza pari sul nostro pianeta. Ma come è stato considerato il “mare nostrum” dalle grandi teorie geopolitiche? Volendo sintetizzare è possibile affermare che, attorno al Mediterraneo, ruotano almeno tre quesiti rilevanti di ordine geopolitico. Il primo riguardo la considerazione dello spazio acquatico come frattura o come via di comunicazione: il Mediterraneo divide civiltà e paesi rallentandone il processo di integrazione o è un potente spazio di condivisione che alimenta i contatti tra culture e paesi diversi? La risposta ruota attorno alla capacità o meno di una cultura egemone di accelerare o rallentare questo processo. L’impero romano, ad esempio, riuscì nell’intento mentre altri potenti conquistatori, come gli ottomani, riuscirono ad acquisirne un controllo solo transitorio. Per avvicinarci ai giorni nostri, gli Stati Uniti, durante il periodo della Guerra Fredda ebbero un ruolo egemonico di rilievo nello spazio mediterraneo non solo includendo nella Nato le tre grandi penisole settentrionali, Spagna, Italia e Turchia, ma finendo per stringere accordi anche con importanti paesi della sponda meridionale a cominciare dall’Egitto. In un periodo come quello attuale, caratterizzato da un relativo disimpegno della pressione egemonica statunitense dal MENA (Middle East- North Africa), l’Unione Europea è chiamata naturalmente ad aumentare la propria influenza nel Mediterraneo attraverdso politiche di partnership e di inclusione progressiva verso gli stati della sponda sud: un compito reso difficoltoso non solo dalle transizioni di potere in Tunisia, Egitto e Libia, ma anche dalla crisi economico-finanziaria globale e dalla politica estera “multicefala” dell’Unione, quale riflesso dei principali paesi membri a cominciare dal quartetto composto da Regno Unito, Francia, Germania e Italia. Il secondo quesito di carattere geopolitico riguarda l’essenza stessa della regione mediterranea come realtà unitaria. Sulla questione il dibattito è ancora aperto e mette a confronto autori come Saul Bernard Cohen, che ritengono il mediterraneo un contesto unitario in base a determinati parametri (contiguità geografica, politica, culturale e militare, background storico e migratorio) a studiosi, come Bjorn Hettne, che segnalano la mancanza di una identità specifica mediterranea. Tuttavia, anche se il processo di Barcellona verso una unificazione politica economica del contesto mediterraneo procede lentamente (e il fallimento di iniziative come quello della Unione per il Mediterrano non hanno aiutato a fare progressi) appare difficile sostenere che non esista un ambito regionale mediterraneo che, al contrario ha delle basi non solo geografiche, ma anche storico-economiche. Il terzo quesito, che affonda nell’essenza dei vari modelli geopolitici, riguarda, infine, la necessità di focalizzazione sulla terra o sul mare rispetto alla valutazione del Mediterraneo. La questione, nello specifico, oppone teorie geopolitiche di correnti diverse che potremmo sinteticamente etichettare come tradizione geopolitica “terrestre” e tradizione geopolitica “navalista”. Per fare un esempio di tradizione terrestre, possiamo prendere a esempio il modello interpretativo del padre della geopolitica ovvero Halford Mackinder. Secondo Mackinder i destini del mondo erano definiti dal controllo di una specifica porzione del globo terrestre, definita Heartland, corrispondenti ad una parte della Russia contemporanea e caratterizzata dalla ricchezza del sottosuolo e dalla posizione relativamente periferica che ne rendeva difficile la conquista. Per Mackinder i giochi politici ed egemonici tra le potenze erano destinati a subire l’influenza del tentativo di controllare l’Heartland o di impedire che questo fosse dominato da un attore unitario di grande potenza. In questo “gioco tra le potenze” il Mediterraneo era destinato ad avere un ruolo periferico e a godere di bassa considerazione e centralità. Un esempio di geopolitica navalista, invece, viene dal modello geopolitico di Nicholas Spykman che riprendendo, e modificando le teorie di Mackinder riusciì a prevedere non solo l’avvento della Guerra Fredda, ma anche dinamiche ed assi strategici tuttora presenti nel mondo contemporaneo. Secondo Spykman, i destini politici del mondo risentivano della continua frizione tra sistemi egemonici terrestri (l’Heartland) e sistemi egemonici oceanici in grado di controllare uno specifico spazio marittimo (il Midland Ocean) che, invece di dividere, univa realtà politico-economiche destinate a una continua integrazione: tali contesti erano corrispondenti agli Stati Uniti e all’Europa Occidentale. La continua rivalità tra potenze terrestri e oceaniche avrebbe creato una enorme “cintura” di attrito (Rimland) che, partendo dall’Europa Occidentale e passando per il Medio Oriente e l’Asia sudorientale, terminava in Giappone (le teorie di Spykman peraltro, influenzeranno moltissimo la strategia del “containment” attuata dagli Usa dalla fine degli anni ’40). In questo modello geopolitico il Mediterraneo occupa un ruolo essenziale, non solo perché area vitale di connessione tra contesti marini diversi, e quindi vitale per le potenze oceaniche, ma anche per il suo ruolo di unione tra due porzioni fondamentali del Rimland (l’Europa Occidentale e il Medio Oriente). In questa logica era imperativo che, durante il periodo della Guerra Fredda, le potenze oceaniche, e segnatamente gli Usa, acquisissero un fermo controllo dello spazio mediterraneo sia attraverso la continua integrazione militare (Nato, Cento) sia attraverso l’esercizio di un progressivo controllo politico-economico dei paesi mediorientali. Ora che il confronto bipolare è terminato le teorie di Spykman potrebbero sembrare superate e invece rimangono più attuali che mai anche se trasferite da un egemone “lontano” (gli Usa) ad uno “locale” (l’Unione Europea); tuttavia, anche se gli imperativi geopolitici rimangono gli stessi, sono ben differenti le attuali capacità unificatrici ed egemoniche dell’Ue appaiono decisamente inadeguate all’impresa.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11573/535166
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