Al di là dei differenti presupposti, ogni logica diagnostica presenta limiti specifici: rigidità eccessiva (la monotetica), inclusività eccessiva (la politetica), tipizzazione “ideale” e soggettività eccessiva (la prototipica). Il dibattito tra i sostenitori di questi tre tipi di logica, per esempio, si interseca con quello, risalente a circa un secolo fa, tra i sostenitori di un modello nosografico psichiatrico, che intende le patologie psichiche come sindromi assimilabili a quelle mediche e denotate da un complesso di sintomi specifico e stabile, e i sostenitori di modelli diagnostici che, soprattutto nel caso di alcuni disturbi, richiedono l’individuazione di uno o di pochi sintomi di “primo rango”, cioè patognomonici della patologia in questione. Per intenderci, il dibattito ideale tra Emil Kraepelin e Kurt Schneider. Mentre il padre nobile dell’approccio prototipico alla diagnosi psicologica potrebbe essere considerato Sigmund Freud, il quale riteneva che, per comprendere le caratteristiche specifiche di un determinato disturbo, fosse utile delinearne un “ideal-tipo”: “Noi non vogliamo semplicemente descrivere e classificare i fenomeni, ma concepirli come indizi di un gioco di forze che si svolge nella psiche, come l’espressione di tendenze orientate verso un fine, che operano insieme o l’una contro l’altra. Ciò che ci sforziamo di raggiungere è una concezione dinamica dei fenomeni psichici” (Freud 1915-1917, p. 246). Molti anni di attività diagnostica, e il diretto coinvolgimento nella prossima edizione del PDM, mi hanno insegnato a considerare la diagnosi una mappatura del funzionamento psichico che si traduce in una descrizione narrativa il più possibile sistematica, che prende il nome di formulazione del caso, e deve rispondere a requisiti sia di specificità (che cosa caratterizza quel dato individuo) sia di generalizzabilità (che cosa ha in comune quell’individuo con altri che presentano caratteristiche simili). In questo senso non potrà mai coincidere del tutto con le caratteristiche e il funzionamento reale di una persona, ma nel caso sia corretta potrà aiutarci a descrivere e quindi a comprendere meglio il soggetto e a organizzare il suo trattamento. Uno dei temi più dibattuti in ambito sia clinico sia di ricerca è la tensione tra conoscenza idiografica e nomotetica. Con il primo termine si intende un tipo di conoscenza che si concentra sulle peculiarità di un individuo singolo (idios), sulla sua specificità e irripetibilità; mentre una conoscenza di tipo nomotetico cerca di individuare o stabilire delle leggi (nomos), delle ricorrenze che accomunano il funzionamento delle persone in circostanze diverse. Lo sguardo del clinico-ricercatore – che a volte sembra un mostro a due teste ma che, se si impegna, riesce invece a essere un professionista capace di visione binoculare – deve saper rimanere all’interno di questa tensione. La capacità di tradurre leggi generali in declinazioni particolari e di elaborare ipotesi generali a partire da casi particolari è alla base del sapere diagnostico. Bypassare il polo idiografico significherebbe pensare erroneamente che una persona può essere studiata come fosse un oggetto inanimato; al tempo stesso, bypassare la dimensione nomotetica significherebbe privare l’atto diagnostico di un contesto scientifico e comunicativo. Sta a noi, dunque, “dare un senso alla diagnosi”, per citare il titolo di un fortunato volume di James Barron. L’assessment procedure di Westen e Shedler e il Manuale diagnostico psicodinamico sono due compagni di viaggio sensati, perché capaci di dare senso alla nostra sensibilità clinica.

Dare un senso alla diagnosi / Lingiardi, Vittorio. - In: AUT AUT. - ISSN 0005-0601. - STAMPA. - 357:(2013), pp. 127-141.

Dare un senso alla diagnosi

LINGIARDI, Vittorio
2013

Abstract

Al di là dei differenti presupposti, ogni logica diagnostica presenta limiti specifici: rigidità eccessiva (la monotetica), inclusività eccessiva (la politetica), tipizzazione “ideale” e soggettività eccessiva (la prototipica). Il dibattito tra i sostenitori di questi tre tipi di logica, per esempio, si interseca con quello, risalente a circa un secolo fa, tra i sostenitori di un modello nosografico psichiatrico, che intende le patologie psichiche come sindromi assimilabili a quelle mediche e denotate da un complesso di sintomi specifico e stabile, e i sostenitori di modelli diagnostici che, soprattutto nel caso di alcuni disturbi, richiedono l’individuazione di uno o di pochi sintomi di “primo rango”, cioè patognomonici della patologia in questione. Per intenderci, il dibattito ideale tra Emil Kraepelin e Kurt Schneider. Mentre il padre nobile dell’approccio prototipico alla diagnosi psicologica potrebbe essere considerato Sigmund Freud, il quale riteneva che, per comprendere le caratteristiche specifiche di un determinato disturbo, fosse utile delinearne un “ideal-tipo”: “Noi non vogliamo semplicemente descrivere e classificare i fenomeni, ma concepirli come indizi di un gioco di forze che si svolge nella psiche, come l’espressione di tendenze orientate verso un fine, che operano insieme o l’una contro l’altra. Ciò che ci sforziamo di raggiungere è una concezione dinamica dei fenomeni psichici” (Freud 1915-1917, p. 246). Molti anni di attività diagnostica, e il diretto coinvolgimento nella prossima edizione del PDM, mi hanno insegnato a considerare la diagnosi una mappatura del funzionamento psichico che si traduce in una descrizione narrativa il più possibile sistematica, che prende il nome di formulazione del caso, e deve rispondere a requisiti sia di specificità (che cosa caratterizza quel dato individuo) sia di generalizzabilità (che cosa ha in comune quell’individuo con altri che presentano caratteristiche simili). In questo senso non potrà mai coincidere del tutto con le caratteristiche e il funzionamento reale di una persona, ma nel caso sia corretta potrà aiutarci a descrivere e quindi a comprendere meglio il soggetto e a organizzare il suo trattamento. Uno dei temi più dibattuti in ambito sia clinico sia di ricerca è la tensione tra conoscenza idiografica e nomotetica. Con il primo termine si intende un tipo di conoscenza che si concentra sulle peculiarità di un individuo singolo (idios), sulla sua specificità e irripetibilità; mentre una conoscenza di tipo nomotetico cerca di individuare o stabilire delle leggi (nomos), delle ricorrenze che accomunano il funzionamento delle persone in circostanze diverse. Lo sguardo del clinico-ricercatore – che a volte sembra un mostro a due teste ma che, se si impegna, riesce invece a essere un professionista capace di visione binoculare – deve saper rimanere all’interno di questa tensione. La capacità di tradurre leggi generali in declinazioni particolari e di elaborare ipotesi generali a partire da casi particolari è alla base del sapere diagnostico. Bypassare il polo idiografico significherebbe pensare erroneamente che una persona può essere studiata come fosse un oggetto inanimato; al tempo stesso, bypassare la dimensione nomotetica significherebbe privare l’atto diagnostico di un contesto scientifico e comunicativo. Sta a noi, dunque, “dare un senso alla diagnosi”, per citare il titolo di un fortunato volume di James Barron. L’assessment procedure di Westen e Shedler e il Manuale diagnostico psicodinamico sono due compagni di viaggio sensati, perché capaci di dare senso alla nostra sensibilità clinica.
2013
Diagnosi; personalità; SWAP-200; PDM; DSM-5
01 Pubblicazione su rivista::01a Articolo in rivista
Dare un senso alla diagnosi / Lingiardi, Vittorio. - In: AUT AUT. - ISSN 0005-0601. - STAMPA. - 357:(2013), pp. 127-141.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11573/510271
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