I colori del croco, del convolvolo, dei tulipani. Colori che suscitano in noi una sensazione di stupore, di beatitudine. Colori che vorremmo conservare nella nostra memoria così come la nostra retina li ha percepiti. Ma come? Come ricordare quei colori così intensi, così indescrivibili, così incommensurabili, così irriproducibili. Con la fioritura ci si accorge di essere in una “zona cromatica” in cui le sensazioni possono essere ricordate ma non riprodotte: si è in una dimensione cromatica che si può solo vivere. E se cerchiamo di comprendere cos’è il colore, come lo percepiamo, in che maniera possiamo registrarlo, ed in fine come possiamo riprodurlo, allora ci accorgiamo che la filiera cromatica è ai “confini della realtà”: è una dimensione altra da quella reale. Dipende dove ci troviamo nell’infinito spazio colorimetrico che è stato creato con strumenti ben definiti e quindi esso stesso in grado di riprodurre un limitato volume cromatico. All’interno di questo volume la riproducibilità è garantita. Cosa ben diversa se ci troviamo nella twilight zone: lì i colori possono essere solo percepiti dall’occhio, e non sappiamo per certo ancora neanche come. Eppure il colore è tale ‘solamente’ perché c’è la vista, che percepisce, seleziona e distingue frequenze elettromagnetiche tra i 400 e i 700 nm. Il colore è solo questo, un fenomeno percettivo. Poi vengono la riproduzione, la comunicazione, la misura. Ognuna di queste tre azioni è una dimensione a se stante. Tralasciamo il problema della comunicazione che sostanzialmente si risolve rendendo numerica la misura ed evitando il campo descrittivo poiché parole come rosso, verde o giallo riescono a mala pena a descrivere una vasta area di colori e non uno specifico e inconfondibile. Se guardiamo attentamente il diagramma colorimetrico CIE 1931 abbiamo un’idea dei colori percepiti dalla nostra vista; un’idea, perché il diagramma rappresenta, non riproduce. Per riprodurre dovrebbe avere le stesse proprietà della luce, quindi non una combinazione di colori primari in sintesi sottrattiva (se stampato) o additiva (se a schermo). All’interno della classica ‘campana’ possiamo collocare una miriade di sistemi di riproduzione del colore che ben difficilmente riescono ad avvicinarsi agli estremi della campana. La nostra twilight zone del colore è l’area che separa il confine della campana dall’area che prendiamo come riferimento per una determinata tipologia di rappresentazione cromatica. La diversità di disegno dei contorni delle varie tipologie rimane però una potenzialità che non trova però corrispondenza nella prassi operativa. Nella filier’ cromatica che va dal convolvolo alla sua proiezione televisiva o alla sua stampa -due strade completamente diversi con una quantità di varianti- ci si chiede come riusciamo ancora a riconoscere il fiore al termine del suo lungo viaggio.
Twilight zone del colore / Carpiceci, Marco. - 20:(2011), pp. 47-54. (Intervento presentato al convegno “VII Conferenza Nazionale del Colore” tenutosi a Sapienza Università di Roma - Facoltà di Ingegneria nel 15-16 settembre 2011).
Twilight zone del colore
CARPICECI, Marco
2011
Abstract
I colori del croco, del convolvolo, dei tulipani. Colori che suscitano in noi una sensazione di stupore, di beatitudine. Colori che vorremmo conservare nella nostra memoria così come la nostra retina li ha percepiti. Ma come? Come ricordare quei colori così intensi, così indescrivibili, così incommensurabili, così irriproducibili. Con la fioritura ci si accorge di essere in una “zona cromatica” in cui le sensazioni possono essere ricordate ma non riprodotte: si è in una dimensione cromatica che si può solo vivere. E se cerchiamo di comprendere cos’è il colore, come lo percepiamo, in che maniera possiamo registrarlo, ed in fine come possiamo riprodurlo, allora ci accorgiamo che la filiera cromatica è ai “confini della realtà”: è una dimensione altra da quella reale. Dipende dove ci troviamo nell’infinito spazio colorimetrico che è stato creato con strumenti ben definiti e quindi esso stesso in grado di riprodurre un limitato volume cromatico. All’interno di questo volume la riproducibilità è garantita. Cosa ben diversa se ci troviamo nella twilight zone: lì i colori possono essere solo percepiti dall’occhio, e non sappiamo per certo ancora neanche come. Eppure il colore è tale ‘solamente’ perché c’è la vista, che percepisce, seleziona e distingue frequenze elettromagnetiche tra i 400 e i 700 nm. Il colore è solo questo, un fenomeno percettivo. Poi vengono la riproduzione, la comunicazione, la misura. Ognuna di queste tre azioni è una dimensione a se stante. Tralasciamo il problema della comunicazione che sostanzialmente si risolve rendendo numerica la misura ed evitando il campo descrittivo poiché parole come rosso, verde o giallo riescono a mala pena a descrivere una vasta area di colori e non uno specifico e inconfondibile. Se guardiamo attentamente il diagramma colorimetrico CIE 1931 abbiamo un’idea dei colori percepiti dalla nostra vista; un’idea, perché il diagramma rappresenta, non riproduce. Per riprodurre dovrebbe avere le stesse proprietà della luce, quindi non una combinazione di colori primari in sintesi sottrattiva (se stampato) o additiva (se a schermo). All’interno della classica ‘campana’ possiamo collocare una miriade di sistemi di riproduzione del colore che ben difficilmente riescono ad avvicinarsi agli estremi della campana. La nostra twilight zone del colore è l’area che separa il confine della campana dall’area che prendiamo come riferimento per una determinata tipologia di rappresentazione cromatica. La diversità di disegno dei contorni delle varie tipologie rimane però una potenzialità che non trova però corrispondenza nella prassi operativa. Nella filier’ cromatica che va dal convolvolo alla sua proiezione televisiva o alla sua stampa -due strade completamente diversi con una quantità di varianti- ci si chiede come riusciamo ancora a riconoscere il fiore al termine del suo lungo viaggio.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.