Tra le peculiarità che distinguono la narrativa “post-postmoderna” da quella postmoderna spicca l’abbandono dei solventi ironici e cinici, sostituiti da una centralità della componente emotiva e della vicinanza empatica. Tale tendenza finzionale entra in sintonia con un’attenzione diffusa che l’accademia, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, ha riservato alla sfera affettivo-emozionale e a come essa interviene nella dimensione sociale e storica (Clough, 2007). Ciononostante, Rachel Greenwald Smith ha espresso un certo scetticismo di fronte al così battezzato “Affective Turn”, avanzando preoccupazioni in merito a una pericolosa corrispondenza tra la rilevanza emotiva nel fenomeno letterario e lo sfruttamento delle emozioni in qualità di forza lavoro ad opera del neoliberalismo (Greenwald Smith, 2015). Come documentato da Arlie Hochschild (1983), il sistema tardocapitalistico – convertitosi alla produzione immateriale – esercita un perverso ed efficace management emozionale per consentire alcune attività lavorative ormai essenziali all’interno della logica postfordista, quali l’advertising, l’assistenza ai trasporti, il servizio nei punti vendita, etc. La paura di Greenwald Smith, dunque, è quella di rinvigorire la suddetta manovra biopolitica soffocando l’ambito narrativo nell’emotività coercitiva, tanto da suggerire, come risposta antagonista, un ricorso alle emozioni non-umane. Optando per una soluzione intermedia, Ralph Clare ha recentemente coniato la formula di “metaffective fiction” – su esplicito calco della “metafiction” per come l’ha intesa Patricia Waugh – per indicare una particolare configurazione metatestuale atta a riflettere criticamente la propria architettura emozionale, a enfatizzare in piena autocoscienza la rappresentazione delle emozioni di cui è motore, al fine di contrastare la mercificazione affettiva del neoliberalismo e di costituire una valida contronarrazione al discorso egemone (Clare, 2018). Questo contributo, dopo un’introduzione teorica utile a inquadrare sinteticamente il terreno d’indagine sul quale ci si muove, ha come obiettivo quello di analizzare la produzione di David Foster Wallace e di Michel Houellebecq rileggendo alcune delle loro opere principali – Infinite Jest, Brief Interviews with Hideous Men, The Pale King; Extension du domaine de la lutte, Les Particules élémentaires, La carte et le territoire, Sérotonine – alla luce della categoria del “romanzo metaffettivo”. Entrambi gli autori inscenano l’emotività depressiva problematizzandola grazie a movimenti retorici – soprattutto metatattici – che attivano la responsività del lettore e lo stimolano a interrogare il potenziale affettivo di ciò che si racconta.
Note sul romanzo metaffettivo. La retorica depressiva in David Foster Wallace e Michel Houellebecq / Baratta, Aldo. - In: COMPARATISMI. - ISSN 2531-7547. - (2023), pp. 113-128.
Note sul romanzo metaffettivo. La retorica depressiva in David Foster Wallace e Michel Houellebecq
Aldo Baratta
2023
Abstract
Tra le peculiarità che distinguono la narrativa “post-postmoderna” da quella postmoderna spicca l’abbandono dei solventi ironici e cinici, sostituiti da una centralità della componente emotiva e della vicinanza empatica. Tale tendenza finzionale entra in sintonia con un’attenzione diffusa che l’accademia, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, ha riservato alla sfera affettivo-emozionale e a come essa interviene nella dimensione sociale e storica (Clough, 2007). Ciononostante, Rachel Greenwald Smith ha espresso un certo scetticismo di fronte al così battezzato “Affective Turn”, avanzando preoccupazioni in merito a una pericolosa corrispondenza tra la rilevanza emotiva nel fenomeno letterario e lo sfruttamento delle emozioni in qualità di forza lavoro ad opera del neoliberalismo (Greenwald Smith, 2015). Come documentato da Arlie Hochschild (1983), il sistema tardocapitalistico – convertitosi alla produzione immateriale – esercita un perverso ed efficace management emozionale per consentire alcune attività lavorative ormai essenziali all’interno della logica postfordista, quali l’advertising, l’assistenza ai trasporti, il servizio nei punti vendita, etc. La paura di Greenwald Smith, dunque, è quella di rinvigorire la suddetta manovra biopolitica soffocando l’ambito narrativo nell’emotività coercitiva, tanto da suggerire, come risposta antagonista, un ricorso alle emozioni non-umane. Optando per una soluzione intermedia, Ralph Clare ha recentemente coniato la formula di “metaffective fiction” – su esplicito calco della “metafiction” per come l’ha intesa Patricia Waugh – per indicare una particolare configurazione metatestuale atta a riflettere criticamente la propria architettura emozionale, a enfatizzare in piena autocoscienza la rappresentazione delle emozioni di cui è motore, al fine di contrastare la mercificazione affettiva del neoliberalismo e di costituire una valida contronarrazione al discorso egemone (Clare, 2018). Questo contributo, dopo un’introduzione teorica utile a inquadrare sinteticamente il terreno d’indagine sul quale ci si muove, ha come obiettivo quello di analizzare la produzione di David Foster Wallace e di Michel Houellebecq rileggendo alcune delle loro opere principali – Infinite Jest, Brief Interviews with Hideous Men, The Pale King; Extension du domaine de la lutte, Les Particules élémentaires, La carte et le territoire, Sérotonine – alla luce della categoria del “romanzo metaffettivo”. Entrambi gli autori inscenano l’emotività depressiva problematizzandola grazie a movimenti retorici – soprattutto metatattici – che attivano la responsività del lettore e lo stimolano a interrogare il potenziale affettivo di ciò che si racconta.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.