Flessibilità è un termine che viene associato alla capacità di un corpo materiale di mutare a seguito di forze o influenze esterne. Nella meccanica dei materiali, ad esempio, il concetto di flessibilità viene contrapposto a quello di “rigidezza” intendendo con ciò l’attitudine di un oggetto a resistere a sollecitazioni esterne, mantenendo inalterata la propria forma. Così come dei corpi materiali, il concetto di flessibilità è stato di frequente traslato nel glossario economico, con significati spesso molto diversi tra loro che hanno dato alla vita ad un corpo abbondante di articoli dedicati, tracciando il sentiero di una letteratura estremamente vasta. Le strutture organizzative delle odierne realtà aziendali si piegano oggi all’imperativo di flessibilità per rispondere in modo più efficiente ai mutevoli cambiamenti del mercato configurandosi con assetti camaleontici. Nel contesto italiano tale ricerca di flessibilità, oltre ad essere conseguenza di un mercato sempre più globalizzato e di continui e repentini cambiamenti del paradigma tecnologico, è frutto di una serie di strategie elaborate dal legislatore nelle ultime due decadi che, sulla scia dei dettami comunitari, incarnano de facto un duplice obbiettivo: aumentare l’occupazione e contestualmente migliorare le performance delle aziende. La realizzazione di questi obbiettivi ha portato ad una profonda rivoluzione del diritto del lavoro italiano che sino a quel momento era storicamente permeato da una concezione di favor nei confronti del soggetto debole del rapporto contrattuale sotteso: il lavoratore. La novità di tali interventi legislativi risiede nella volontà del legislatore di porre fine al monopolio del contratto a tempo indeterminato con la creazione delle cosiddette figure di lavoro “atipiche”: le nuove configurazioni contrattuali – cui derivano quelle strutturali-organizzative – avrebbero dovuto permettere all’azienda di essere più efficiente e reattiva sia nel fronteggiare improvvisi shock della domanda, sia nel cogliere nuove opportunità di mercato. Sulla base di questi elementi, ancor prima di definire una flessibilità delle strutture organizzative, appare chiara la volontà da parte delle Istituzioni nazionali e sovranazionali di realizzare una la flessibilità del lavoro, largamente intesa. Solo successivamente le imprese hanno somatizzato, all’interno delle proprie configurazioni organizzative, tratti spiccati di flessibilità a tutti i livelli aziendali. Per spiegare meglio tale fenomeno la letteratura economica ha introdotto due concetti distinti: flessibilità interna e flessibilità esterna. La prima detta anche "funzionale/qualitativa" permette all'impresa di modulare direttamente i parametri della prestazione d'opera dei dipendenti (salari, orari, luoghi, mezzi, ecc.). La seconda, detta anche “numerica/quantitativa” permette all'impresa di variare il numero dei suoi occupati in relazione alle oscillazioni del ciclo produttivo (licenziamento/assunzione) (Gallino, 2001). È chiaro che la natura bicefala della flessibilità – in questo contesto – è riuscita a prosperare grazie all’iter di interventi legislativi che si sono concentrati nel ridurre le tutele dei lavoratori, ampliando il margine di manovra delle imprese nel variare quantitativamente l’organico, facilitando licenziamenti e assunzioni “a breve termine”. La flessibilità del lavoro appare, quindi, un fenomeno fortemente ancorato al contesto, in cui la cornice istituzionale di riferimento svolge un ruolo fondamentale nel disciplinare le “regole del gioco”. In tanti hanno studiato gli effetti di questo fenomeno (Barbier, Nadel 2000) ma ciò che emerge in misura chiara ed inconfutabile è che nel paradigma italiano l’inseguirsi dei diversi interventi legislativi ha restituito dei risultati diversi da quelli sperati; la creazione dei nuovi e numerosi contratti atipici è diventata uno strumento per l’elusione della disciplina fiscale del mercato del lavoro e soprattutto ha abolito per moltissimi lavoratori istituti favorevoli come le ferie, la malattia e la maternità. Anche dal punto di vista previdenziale la disparità è evidente, infatti la minore onerosità contributiva del contratto atipico si traduce in un minore accantonamento del lavoratore rispetto ai colleghi a tempo indeterminato. Questi fattori, che alcuni autori annoverano tra i “costi umani del lavoro”, sono oggetto di numerosi dibattiti che vedono la letteratura economica italiana sottolineare l’insostenibilità di tali forme contrattuali. Ciò che manca in questa ampia rassegna, è un’analisi che metta alla luce i diversi trade- off che le imprese devono fronteggiare: se da un lato la ricerca di maggiore efficienza convince le imprese ad investire sempre più in lavoratori “atipici”, dall’altro risulta difficile creare competenze altamente specifiche che per essere create, oltre a richiedere ingenti investimenti in formazione, devono essere a lungo sedimentate in azienda. In tal senso, configurarsi con organizzazioni piatte e reattive, può risultare problematico soprattutto quando le imprese si configurano con dimensioni medio-piccole o quando è difficile reperire le competenze necessarie nei mercati esterni del lavoro. L’Italia, negli ultimi venti anni, sembra assumere queste vesti.

Configurarsi come learning organizations nell’era della flessibilità del lavoro / Ceci, Giuseppe. - (2022).

Configurarsi come learning organizations nell’era della flessibilità del lavoro

Giuseppe Ceci
2022

Abstract

Flessibilità è un termine che viene associato alla capacità di un corpo materiale di mutare a seguito di forze o influenze esterne. Nella meccanica dei materiali, ad esempio, il concetto di flessibilità viene contrapposto a quello di “rigidezza” intendendo con ciò l’attitudine di un oggetto a resistere a sollecitazioni esterne, mantenendo inalterata la propria forma. Così come dei corpi materiali, il concetto di flessibilità è stato di frequente traslato nel glossario economico, con significati spesso molto diversi tra loro che hanno dato alla vita ad un corpo abbondante di articoli dedicati, tracciando il sentiero di una letteratura estremamente vasta. Le strutture organizzative delle odierne realtà aziendali si piegano oggi all’imperativo di flessibilità per rispondere in modo più efficiente ai mutevoli cambiamenti del mercato configurandosi con assetti camaleontici. Nel contesto italiano tale ricerca di flessibilità, oltre ad essere conseguenza di un mercato sempre più globalizzato e di continui e repentini cambiamenti del paradigma tecnologico, è frutto di una serie di strategie elaborate dal legislatore nelle ultime due decadi che, sulla scia dei dettami comunitari, incarnano de facto un duplice obbiettivo: aumentare l’occupazione e contestualmente migliorare le performance delle aziende. La realizzazione di questi obbiettivi ha portato ad una profonda rivoluzione del diritto del lavoro italiano che sino a quel momento era storicamente permeato da una concezione di favor nei confronti del soggetto debole del rapporto contrattuale sotteso: il lavoratore. La novità di tali interventi legislativi risiede nella volontà del legislatore di porre fine al monopolio del contratto a tempo indeterminato con la creazione delle cosiddette figure di lavoro “atipiche”: le nuove configurazioni contrattuali – cui derivano quelle strutturali-organizzative – avrebbero dovuto permettere all’azienda di essere più efficiente e reattiva sia nel fronteggiare improvvisi shock della domanda, sia nel cogliere nuove opportunità di mercato. Sulla base di questi elementi, ancor prima di definire una flessibilità delle strutture organizzative, appare chiara la volontà da parte delle Istituzioni nazionali e sovranazionali di realizzare una la flessibilità del lavoro, largamente intesa. Solo successivamente le imprese hanno somatizzato, all’interno delle proprie configurazioni organizzative, tratti spiccati di flessibilità a tutti i livelli aziendali. Per spiegare meglio tale fenomeno la letteratura economica ha introdotto due concetti distinti: flessibilità interna e flessibilità esterna. La prima detta anche "funzionale/qualitativa" permette all'impresa di modulare direttamente i parametri della prestazione d'opera dei dipendenti (salari, orari, luoghi, mezzi, ecc.). La seconda, detta anche “numerica/quantitativa” permette all'impresa di variare il numero dei suoi occupati in relazione alle oscillazioni del ciclo produttivo (licenziamento/assunzione) (Gallino, 2001). È chiaro che la natura bicefala della flessibilità – in questo contesto – è riuscita a prosperare grazie all’iter di interventi legislativi che si sono concentrati nel ridurre le tutele dei lavoratori, ampliando il margine di manovra delle imprese nel variare quantitativamente l’organico, facilitando licenziamenti e assunzioni “a breve termine”. La flessibilità del lavoro appare, quindi, un fenomeno fortemente ancorato al contesto, in cui la cornice istituzionale di riferimento svolge un ruolo fondamentale nel disciplinare le “regole del gioco”. In tanti hanno studiato gli effetti di questo fenomeno (Barbier, Nadel 2000) ma ciò che emerge in misura chiara ed inconfutabile è che nel paradigma italiano l’inseguirsi dei diversi interventi legislativi ha restituito dei risultati diversi da quelli sperati; la creazione dei nuovi e numerosi contratti atipici è diventata uno strumento per l’elusione della disciplina fiscale del mercato del lavoro e soprattutto ha abolito per moltissimi lavoratori istituti favorevoli come le ferie, la malattia e la maternità. Anche dal punto di vista previdenziale la disparità è evidente, infatti la minore onerosità contributiva del contratto atipico si traduce in un minore accantonamento del lavoratore rispetto ai colleghi a tempo indeterminato. Questi fattori, che alcuni autori annoverano tra i “costi umani del lavoro”, sono oggetto di numerosi dibattiti che vedono la letteratura economica italiana sottolineare l’insostenibilità di tali forme contrattuali. Ciò che manca in questa ampia rassegna, è un’analisi che metta alla luce i diversi trade- off che le imprese devono fronteggiare: se da un lato la ricerca di maggiore efficienza convince le imprese ad investire sempre più in lavoratori “atipici”, dall’altro risulta difficile creare competenze altamente specifiche che per essere create, oltre a richiedere ingenti investimenti in formazione, devono essere a lungo sedimentate in azienda. In tal senso, configurarsi con organizzazioni piatte e reattive, può risultare problematico soprattutto quando le imprese si configurano con dimensioni medio-piccole o quando è difficile reperire le competenze necessarie nei mercati esterni del lavoro. L’Italia, negli ultimi venti anni, sembra assumere queste vesti.
2022
Competenze; flessibilità; lavoro
01 Pubblicazione su rivista::01a Articolo in rivista
Configurarsi come learning organizations nell’era della flessibilità del lavoro / Ceci, Giuseppe. - (2022).
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11573/1700910
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