Grammatica euclidea contiene Architettura, una sostanza che appartiene al gruppo delle arti applicative spesso indicate come “superiori”, utilizzata per le sue proprietà inventive e curative. Questa medicina è indicata per trattare l’isteria responsabilizzante che opprime l’espressione architettonica caricandola di sovrastrutture che le sono, spesso, estranee. Si tratta di un codice apocrifo che vuole porsi come uno strumento utile per indagare - e fare - architettura. Canone e codice sono il sistema attraverso il quale si essicca il trilite e si evoca la nascita della colonna attraverso una serie di processi e di similitudini per cui, dalla capanna e dalla caverna si arriva alla costruzione. Il κανών (canon) - che indica il regolo usato dagli artigiani per misurare, sin dalla Grecia antica - è imprigionato negli ordini. Vive costretto dentro una declinazione di un sistema proporzionale. Sospeso tra ritualità e misura, è un po’ bigotto e rigido: esiste in tante versioni a seconda di quante situazioni canoniche si possono immaginare. Il rigore delle sue proporzioni costituisce gli elementi magici e rituali legati alla perfezione e all’alchimia del numero. Il canone, in buona sostanza, è il sistema attraverso il quale si può trasmettere un sapere architettonico da un essere umano all’altro, per renderlo universale e facile per tutti. Il codice, invece, è composto da una collettività di articoli, è una legge con carattere prescrittivo. Spesso presenta, come il canone del resto, dei buchi e dei margini enormi che, se vengono guardati con estrema ossessione, sono già dei luoghi entro i quali un’interpretazione parallela può diventare una specie di duplicazione secondaria, o la possibilità di una rivoluzione che trascriva i codici fino a costruire una vera e propria Babele. Le babeli sono l’anima del pluralismo e del mondo, perché solo grazie ad esse abbiamo le razze che si colorano in modo diverso a seconda della loro posizione geografica. Attraverso l’aspirazione a una nuova Babele si può conferire interesse e diversità a un sistema che altrimenti sarebbe autarchico. Dentro a ogni interstizio si cova, dunque, uno spazio inventivo ed è possibile renderlo davvero operante, non per costruire un manuale prescrittivo, ma nel tentativo di trovare un modo per fare lavorare l’immaginazione senza quel tono minaccioso con cui oggi si è sempre oggetto di una valutazione. In questo, il rapporto tra canone e codice può essere durissimo, perché uno è solitario e triste, l’altro è come un plotone di esecuzione composto da mille soldati che formano una falange guidata da un centurione, che è Vitruvio, e da un imperatore, che è la stessa persona. Tutte le volte che il moderno si è costituito attraverso un sistema regolamentato e non è stato euristico, ma nominale, si è dimostrato che navigare esposti alle intemperie non fa male all’architettura. Forse anche capire che tutti i manifesti - che travisiamo perché li consideriamo prescrittivi - sono più interessanti perché esprimono delle posizioni che sono sovente gratuite e spesso legate a un bisogno di libertà. Dopotutto, il Novecento si è accorto di queste invarianti, anche quando ha invocato i ritorni all’ordine è stato addirittura più realista con la tendenza, con Rossi o con Grassi, però ha trovato i suoi spazi, sia irrigidendosi che ammorbidendosi. L’importante è non scadere nella ricerca di un codice. Non fraintendiamoci, Venturi, Piranesi, Hejduk avevano un loro codice ma era pasticciato. Avevano quest’ansia di conoscere, di non regolare, di arrivare che li ha resi grandissimi. Lo stesso Le Corbusier ha postulato un suo personalissimo codice privato, fatto del modulor, della serie di Fibonacci e altri elementi. I suoi libri sono sempre stati prescrizioni durissime, ma dolci. Tant’è che il suo successo si è attestato sul fatto che molti lo hanno tradotto e chi ne ha preso gli spazi e li ha trasformati facendoli diventare altro - come Rem Koolhaas che ha mischiato i maestri del moderno costruendo dei capolavori strani e manieristi - ha sfidato con successo i dogmi della proporzione. Ci sono periodi storici in cui il codice e il canone vengono messi in discussione in modo dichiarato. Questo che attraversiamo forse non è un periodo in cui metterli in crisi, ma bisogna insinuarsi nei loro gangli per fare uscire delle indicazioni differenti che guardano all’esistente e al mondo contemporaneo e che hanno anche la capacità di criticare i difetti di tutto quello che è stato fatto in modo molto libero. Allora per evitare di definire prescrizioni e stilemi attorno al concetto di codice e canone, Grammatica euclidea prova ad essere un agile strumento di lettura: una stele di rosetta in forma di bugiardino, utile per decifrare la natura delle scelte formali in architettura. Una specie di resoconto estremista basato su intuizioni che non hanno pretesa di oggettività assoluta. Bruno Munari affermava che “uno dei compiti dell’operatore visuale” è “quello di sperimentare, di cercare gli strumenti e di passarli al prossimo con tutti i segreti del mestiere che possono facilitare l’operazione del fare”. In tal senso questo libro è un condensatore di idee che suggerisce nuovi usi per le geometrie euclidee, attraverso un processo magnetico e a tratti utopico. L’utopia è un pensiero libero orientato a un mondo chiarificato e suadente in cui c’è spazio per l’aspirazione di ciascuno. In architettura l’utopia corrisponde a un momento particolare, una sorta di illuminazione che formula il dominio delle figure possibili e le classifica in ordine sparso. Si può, perciò, guardare all’utopia come alla possibilità di costruire preziosi modelli approssimativi e meticci. Questo bugiardino, delineato in un universo bidimensionale e senza tempo, si pone come uno strumento per angolare lo sguardo sul mondo costruito e disegnato dell’architettura. È come un paio di occhiali per una persona che ha difficoltà a distinguere i contorni delle figure o, ancora, è come il punto di vista di Guadalupe da cui Ila Bêka e Louise Lemoine decisero di raccontare l’opera di Koolhaas nel film del 2008. Attenzione: il bugiardino può suscitare qualche sospetto perché si tratta di un oggetto singolare, già a partire dal suo nome. Il foglietto illustrativo, infatti, dovrebbe contenere tutte le informazioni circa le indicazioni terapeutiche per un determinato farmaco. Perché, dunque, il termine per individuarlo contiene la radice della parola bugia? Forse è un retaggio degli anni in cui si manifestarono apprezzabili progressi in campo farmaceutico e le case produttrici tendevano a sorvolare su determinate controindicazioni o effetti indesiderati dei farmaci e ponevano, di proposito, maggiore enfasi sulla loro efficacia. Il foglio illustrativo, quindi, conteneva “piccole bugie” e informazioni non complete sul medicinale. Senza contare che nell’economia dimensionale di un bugiardino lo spazio dedicato agli effetti benefici e all’utilizzo del farmaco è oggi notevolmente minore rispetto allo spazio che è dedicato ai possibili effetti indesiderati e alle precauzioni da tenere presenti quando si utilizza. Si tratta di un approccio all’oggetto subdolamente minaccioso e sortisce l’effetto opposto a quello desiderato: serve, cioè, a mettere in salvo la casa produttrice da eventuali contenziosi piuttosto che a tutelare realmente il paziente. Il risultato è che il bugiardino spaventa le persone per le eventuali conseguenze e suppone che una prescrizione medica basti a convincerle ad usare la medicina. L’espediente di organizzare Grammatica euclidea come il bugiardino di un farmaco, tuttavia, è il tentativo di convincere un architetto, uno studioso o un cultore della materia ad avvicinarsi alla perfezione intoccabile delle figure geometriche euclidee e alle mille possibilità di uso, anche apparentemente improprio, in architettura, senza essere dominati dall’ansia di imbattersi in qualcosa di intoccabile, dimenticato e molto resistente a quelle variazioni e azioni modificative che rendono duttili, utili e maneggevoli anche le più iperuranie idee di architettura. Questo approccio è utile anche in termini ideologici rispetto al discorso delle piccole bugie a cui si accennava prima. Certo, qui non dovreste trovare scritte delle fandonie, però guardare al concetto del bugiardino preannuncia l’ambiguità di questo lavoro nel suo essere una prescrizione non prescrittiva. È un delirio vago come un disegno infantile e serve a stimolare il pensiero e l’immaginazione. Perciò Grammatica euclidea è arbitrariamente censoria, diversamente normata e fonda la sua codificazione su tre facce: il quadrato, il cerchio e il triangolo. Ciascuna faccia cede al contrappasso della misura come criterio indispensabile per conoscere il mondo. Una misura che non è nominale e stringente, ma che è ricercata con una certa quota di indefinizione: è una misura euristica. Ecco, si riesce già a scorgere la possibile definizione di queste tre chiavi censorie, per la lettura della costellazione architettonica, e si associano a ciascuna alcune possibili espressioni per dare adito all’inizio di questa indagine genealogica. Il quadrato, ente primordiale e mistico, in cui Leonardo disegnava un uomo in piedi con le braccia aperte, è la chiave di lettura del recinto, della casa, del paese. Misurata e delineata da quattro lati e quattro angoli uguali, questa figura ha dato forma a molte città antiche e edifici (anche moderni): Babilonia, Palazzo Farnese, Ville Savoye, Villa Capra, la San Pietro di Bramante, il Colosseo quadrato e così via. Il quadrato è stato utile agli architetti di ogni epoca per stabilire una struttura armonica su cui comporre. Se il quadrato è strettamente collegato all’uomo e alle sue costruzioni, il cerchio è direttamente connesso alla sfera divina. Non ha principio né fine, è l’alfa e l’omega, rappresentazione stilizzata del sole - fondamentale per tutta la vita sul pianeta - della forza maschile, dell’anima, dell’acqua. Il cerchio è la filigrana di molte architetture sacre: dai cerchi concentrici del tempietto di San Pietro in Montorio al cerchio corrotto della U house di Toyo Ito, sacra non nel senso più stretto del termine, ma perché serviva a elaborare lo sgomento della morte. Il cerchio è perfetto. “Un cerchio è sempre in ordine. Questo è ancora più vero per la sfera, che non può essere capovolta in nessun modo. Una sfera è sempre nel verso giusto, quindi può parlare in qualsiasi posizione”. Infine, il triangolo conclude la triade di queste figure elementari. Esso si ritrova in natura così come nelle creazioni dell'uomo in una molteplicità di casi differenti. Forma geometrica basilare, si presta a combinarsi come modulo e a generare campi strutturati per costruire infinite altre forme composte. La conoscenza delle possibilità formali e strutturali del triangolo ha dato luogo a risultati e sperimentazioni molto suggestivi che spaziano dal sogno geodetico di Buckminster Fuller alle forme organiche di Wright. Ora lo strumentario è delineato e prova a scansare la ricerca di un codice, nei meandri del corpus millenario di convinzioni che costella il fare architettura, in favore dell’afflusso di un sapere senza certezze. Così, al contatto con il mondo questo armamentario si può corrompere ed ampliare, può inglobare nuovi orizzonti e precludersene di già esplorati, in un continuo e proficuo processo di ricominciamento e tradimento di sé stesso.

Grammatica euclidea. L'architettura delle geometrie elementari / Arcopinto, Luigi. - (2023 Nov 27).

Grammatica euclidea. L'architettura delle geometrie elementari

Arcopinto, Luigi
27/11/2023

Abstract

Grammatica euclidea contiene Architettura, una sostanza che appartiene al gruppo delle arti applicative spesso indicate come “superiori”, utilizzata per le sue proprietà inventive e curative. Questa medicina è indicata per trattare l’isteria responsabilizzante che opprime l’espressione architettonica caricandola di sovrastrutture che le sono, spesso, estranee. Si tratta di un codice apocrifo che vuole porsi come uno strumento utile per indagare - e fare - architettura. Canone e codice sono il sistema attraverso il quale si essicca il trilite e si evoca la nascita della colonna attraverso una serie di processi e di similitudini per cui, dalla capanna e dalla caverna si arriva alla costruzione. Il κανών (canon) - che indica il regolo usato dagli artigiani per misurare, sin dalla Grecia antica - è imprigionato negli ordini. Vive costretto dentro una declinazione di un sistema proporzionale. Sospeso tra ritualità e misura, è un po’ bigotto e rigido: esiste in tante versioni a seconda di quante situazioni canoniche si possono immaginare. Il rigore delle sue proporzioni costituisce gli elementi magici e rituali legati alla perfezione e all’alchimia del numero. Il canone, in buona sostanza, è il sistema attraverso il quale si può trasmettere un sapere architettonico da un essere umano all’altro, per renderlo universale e facile per tutti. Il codice, invece, è composto da una collettività di articoli, è una legge con carattere prescrittivo. Spesso presenta, come il canone del resto, dei buchi e dei margini enormi che, se vengono guardati con estrema ossessione, sono già dei luoghi entro i quali un’interpretazione parallela può diventare una specie di duplicazione secondaria, o la possibilità di una rivoluzione che trascriva i codici fino a costruire una vera e propria Babele. Le babeli sono l’anima del pluralismo e del mondo, perché solo grazie ad esse abbiamo le razze che si colorano in modo diverso a seconda della loro posizione geografica. Attraverso l’aspirazione a una nuova Babele si può conferire interesse e diversità a un sistema che altrimenti sarebbe autarchico. Dentro a ogni interstizio si cova, dunque, uno spazio inventivo ed è possibile renderlo davvero operante, non per costruire un manuale prescrittivo, ma nel tentativo di trovare un modo per fare lavorare l’immaginazione senza quel tono minaccioso con cui oggi si è sempre oggetto di una valutazione. In questo, il rapporto tra canone e codice può essere durissimo, perché uno è solitario e triste, l’altro è come un plotone di esecuzione composto da mille soldati che formano una falange guidata da un centurione, che è Vitruvio, e da un imperatore, che è la stessa persona. Tutte le volte che il moderno si è costituito attraverso un sistema regolamentato e non è stato euristico, ma nominale, si è dimostrato che navigare esposti alle intemperie non fa male all’architettura. Forse anche capire che tutti i manifesti - che travisiamo perché li consideriamo prescrittivi - sono più interessanti perché esprimono delle posizioni che sono sovente gratuite e spesso legate a un bisogno di libertà. Dopotutto, il Novecento si è accorto di queste invarianti, anche quando ha invocato i ritorni all’ordine è stato addirittura più realista con la tendenza, con Rossi o con Grassi, però ha trovato i suoi spazi, sia irrigidendosi che ammorbidendosi. L’importante è non scadere nella ricerca di un codice. Non fraintendiamoci, Venturi, Piranesi, Hejduk avevano un loro codice ma era pasticciato. Avevano quest’ansia di conoscere, di non regolare, di arrivare che li ha resi grandissimi. Lo stesso Le Corbusier ha postulato un suo personalissimo codice privato, fatto del modulor, della serie di Fibonacci e altri elementi. I suoi libri sono sempre stati prescrizioni durissime, ma dolci. Tant’è che il suo successo si è attestato sul fatto che molti lo hanno tradotto e chi ne ha preso gli spazi e li ha trasformati facendoli diventare altro - come Rem Koolhaas che ha mischiato i maestri del moderno costruendo dei capolavori strani e manieristi - ha sfidato con successo i dogmi della proporzione. Ci sono periodi storici in cui il codice e il canone vengono messi in discussione in modo dichiarato. Questo che attraversiamo forse non è un periodo in cui metterli in crisi, ma bisogna insinuarsi nei loro gangli per fare uscire delle indicazioni differenti che guardano all’esistente e al mondo contemporaneo e che hanno anche la capacità di criticare i difetti di tutto quello che è stato fatto in modo molto libero. Allora per evitare di definire prescrizioni e stilemi attorno al concetto di codice e canone, Grammatica euclidea prova ad essere un agile strumento di lettura: una stele di rosetta in forma di bugiardino, utile per decifrare la natura delle scelte formali in architettura. Una specie di resoconto estremista basato su intuizioni che non hanno pretesa di oggettività assoluta. Bruno Munari affermava che “uno dei compiti dell’operatore visuale” è “quello di sperimentare, di cercare gli strumenti e di passarli al prossimo con tutti i segreti del mestiere che possono facilitare l’operazione del fare”. In tal senso questo libro è un condensatore di idee che suggerisce nuovi usi per le geometrie euclidee, attraverso un processo magnetico e a tratti utopico. L’utopia è un pensiero libero orientato a un mondo chiarificato e suadente in cui c’è spazio per l’aspirazione di ciascuno. In architettura l’utopia corrisponde a un momento particolare, una sorta di illuminazione che formula il dominio delle figure possibili e le classifica in ordine sparso. Si può, perciò, guardare all’utopia come alla possibilità di costruire preziosi modelli approssimativi e meticci. Questo bugiardino, delineato in un universo bidimensionale e senza tempo, si pone come uno strumento per angolare lo sguardo sul mondo costruito e disegnato dell’architettura. È come un paio di occhiali per una persona che ha difficoltà a distinguere i contorni delle figure o, ancora, è come il punto di vista di Guadalupe da cui Ila Bêka e Louise Lemoine decisero di raccontare l’opera di Koolhaas nel film del 2008. Attenzione: il bugiardino può suscitare qualche sospetto perché si tratta di un oggetto singolare, già a partire dal suo nome. Il foglietto illustrativo, infatti, dovrebbe contenere tutte le informazioni circa le indicazioni terapeutiche per un determinato farmaco. Perché, dunque, il termine per individuarlo contiene la radice della parola bugia? Forse è un retaggio degli anni in cui si manifestarono apprezzabili progressi in campo farmaceutico e le case produttrici tendevano a sorvolare su determinate controindicazioni o effetti indesiderati dei farmaci e ponevano, di proposito, maggiore enfasi sulla loro efficacia. Il foglio illustrativo, quindi, conteneva “piccole bugie” e informazioni non complete sul medicinale. Senza contare che nell’economia dimensionale di un bugiardino lo spazio dedicato agli effetti benefici e all’utilizzo del farmaco è oggi notevolmente minore rispetto allo spazio che è dedicato ai possibili effetti indesiderati e alle precauzioni da tenere presenti quando si utilizza. Si tratta di un approccio all’oggetto subdolamente minaccioso e sortisce l’effetto opposto a quello desiderato: serve, cioè, a mettere in salvo la casa produttrice da eventuali contenziosi piuttosto che a tutelare realmente il paziente. Il risultato è che il bugiardino spaventa le persone per le eventuali conseguenze e suppone che una prescrizione medica basti a convincerle ad usare la medicina. L’espediente di organizzare Grammatica euclidea come il bugiardino di un farmaco, tuttavia, è il tentativo di convincere un architetto, uno studioso o un cultore della materia ad avvicinarsi alla perfezione intoccabile delle figure geometriche euclidee e alle mille possibilità di uso, anche apparentemente improprio, in architettura, senza essere dominati dall’ansia di imbattersi in qualcosa di intoccabile, dimenticato e molto resistente a quelle variazioni e azioni modificative che rendono duttili, utili e maneggevoli anche le più iperuranie idee di architettura. Questo approccio è utile anche in termini ideologici rispetto al discorso delle piccole bugie a cui si accennava prima. Certo, qui non dovreste trovare scritte delle fandonie, però guardare al concetto del bugiardino preannuncia l’ambiguità di questo lavoro nel suo essere una prescrizione non prescrittiva. È un delirio vago come un disegno infantile e serve a stimolare il pensiero e l’immaginazione. Perciò Grammatica euclidea è arbitrariamente censoria, diversamente normata e fonda la sua codificazione su tre facce: il quadrato, il cerchio e il triangolo. Ciascuna faccia cede al contrappasso della misura come criterio indispensabile per conoscere il mondo. Una misura che non è nominale e stringente, ma che è ricercata con una certa quota di indefinizione: è una misura euristica. Ecco, si riesce già a scorgere la possibile definizione di queste tre chiavi censorie, per la lettura della costellazione architettonica, e si associano a ciascuna alcune possibili espressioni per dare adito all’inizio di questa indagine genealogica. Il quadrato, ente primordiale e mistico, in cui Leonardo disegnava un uomo in piedi con le braccia aperte, è la chiave di lettura del recinto, della casa, del paese. Misurata e delineata da quattro lati e quattro angoli uguali, questa figura ha dato forma a molte città antiche e edifici (anche moderni): Babilonia, Palazzo Farnese, Ville Savoye, Villa Capra, la San Pietro di Bramante, il Colosseo quadrato e così via. Il quadrato è stato utile agli architetti di ogni epoca per stabilire una struttura armonica su cui comporre. Se il quadrato è strettamente collegato all’uomo e alle sue costruzioni, il cerchio è direttamente connesso alla sfera divina. Non ha principio né fine, è l’alfa e l’omega, rappresentazione stilizzata del sole - fondamentale per tutta la vita sul pianeta - della forza maschile, dell’anima, dell’acqua. Il cerchio è la filigrana di molte architetture sacre: dai cerchi concentrici del tempietto di San Pietro in Montorio al cerchio corrotto della U house di Toyo Ito, sacra non nel senso più stretto del termine, ma perché serviva a elaborare lo sgomento della morte. Il cerchio è perfetto. “Un cerchio è sempre in ordine. Questo è ancora più vero per la sfera, che non può essere capovolta in nessun modo. Una sfera è sempre nel verso giusto, quindi può parlare in qualsiasi posizione”. Infine, il triangolo conclude la triade di queste figure elementari. Esso si ritrova in natura così come nelle creazioni dell'uomo in una molteplicità di casi differenti. Forma geometrica basilare, si presta a combinarsi come modulo e a generare campi strutturati per costruire infinite altre forme composte. La conoscenza delle possibilità formali e strutturali del triangolo ha dato luogo a risultati e sperimentazioni molto suggestivi che spaziano dal sogno geodetico di Buckminster Fuller alle forme organiche di Wright. Ora lo strumentario è delineato e prova a scansare la ricerca di un codice, nei meandri del corpus millenario di convinzioni che costella il fare architettura, in favore dell’afflusso di un sapere senza certezze. Così, al contatto con il mondo questo armamentario si può corrompere ed ampliare, può inglobare nuovi orizzonti e precludersene di già esplorati, in un continuo e proficuo processo di ricominciamento e tradimento di sé stesso.
27-nov-2023
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Tipologia: Tesi di dottorato
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11573/1692438
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