Questa tesi di Dottorato è frutto di un lavoro di ricerca effettuato negli ultimi tre anni nel quartiere di Tor Bella Monaca a Roma. Fondamentale, per l’orientamento della ricerca, è stato il rapporto continuo e produttivo con le associazioni e i comitati di cittadini, primi tra tutti il Comitato di Quartiere Nuova Tor Bella Monaca e l’Associazione Inquilini e Abitanti (AsIA). Il percorso della tesi è partito dall’assunto che questa città, come la società che essa rappresenta, ha subìto negli ultimi decenni un profondo mutamento di difficile interpretazione. La città, in ogni epoca storica, ha assunto significati diversi, ma questi erano facilmente intellegibili poiché le categorie dicotomiche quali città–campagna, luoghi per i ricchi – luoghi per i poveri, identificavano facilmente le separazioni materiali e immateriali, fornendo un’adeguata definizione della città. Il mondo contemporaneo invece, sprovvisto delle medesime categorie, non ha più gli strumenti appropriati per poter identificare e definire la città nella sua accezione spazio-temporale. Il primo obiettivo della ricerca è stato quello di analizzare la mutazione del concetto di periferia nella Roma moderna, con l’intento di cogliere il significato che il termine periferia oggi può assumere rispetto ai grandi quartieri di edilizia economica e popolare come Tor Bella Monaca. Il secondo obiettivo è stato quello di produrre una narrazione del quartiere, frutto di un intreccio di immagini create attraverso l’osservazione delle pratiche che definiscono il vissuto del luogo, utile a proporre un diverso modo di raccontare e di progettare la città. La metodologia con cui si è affrontato il percorso è consistita nella sperimentazione, sul campo, di diverse pratiche di conoscenza e di interpretazione del territorio, attraverso assidue frequentazioni, in grado di stimolare, di volta in volta, nuove osservazioni, indagini conoscitive dirette e indagini conoscitive indirette, interviste agli abitanti e confronto con le associazioni locali. Tutto ciò è stato utile a produrre una descrizione, sovrapposta ad un’auto-narrazione, elaborata mediante la partecipazione alla vita sociale del quartiere, con l’intento di offrire uno sguardo sulle dinamiche sociali e territoriali che caratterizzano il luogo. Il contributo alla ricerca urbanistica, e alla pianificazione in particolare, è quello di fornire una rappresentazione del quartiere di Tor Bella Monaca, ovvero uno strumento di conoscenza che costituisca il punto di partenza per suggerire idee volte ad indirizzare la realizzazione di Piani e Programmi urbanistici, uno strumento che sia in grado di far emergere attori sociali, pratiche e fenomeni, spesso poco visibili nelle loro dimensioni locali, che a volte sfuggono alla pianificazione classica. Proporre un diverso modo di raccontare e di progettare la città, per esplicitare i fattori identitari che caratterizzano e definiscono i luoghi, costituisce uno dei risultati auspicati. Nel primo capitolo la mia analisi ha come oggetto la mutazione della periferia nella Roma moderna, partendo dalla definizione fornita, da tre autori in tre periodi diversi, del concetto di periferia: da quella popolare e drammaticamente umana di Pasolini, rappresentata dalle borgate, a quella marginale di Ferrarotti, individuata nella Roma che non ha accesso alla vita sociale della città ed, infine, alla periferia di Walter Siti, ricercata anche nei vecchi quartieri borghesi che ultimamente sembra si siano imborgatati. Negli ultimi decenni Roma ha subìto trasformazioni profonde e gli scenari pasoliniani di Accattone e Mamma Roma sembrano ormai appartenere ad un’altra epoca: la periferia di oggi non è più la periferia desolata degli anni cinquanta. Centro e periferia, dopo una netta separazione, entrano in una fase di interazione e lentamente la periferia cambia volto: non più baracche, non più sottoproletariato, ma una struttura sociale complessa e frastagliata. Nel secolo scorso la periferia fisica corrispondeva ad una periferia anche in termini sociali e ciò determinava una netta contrapposizione con il centro storico: in essa vi si trovavano povertà, disoccupazione o sotto-occupazione, disagio, e tuttavia essa rappresentava, per chi la abitava, un luogo in attesa di entrare, fisicamente e socialmente, in città (PEZZETTA, 29). In questi luoghi le emarginazioni e le disuguaglianze costituivano il fattor comune di un ideale collettivo, di un’utopia da perseguire mediante la conquista della libertà sociale ed economica. Erano luoghi di disperazione e disincanto, ma anche luoghi in attesa di riscatto. Le borgate di Roma ospitavano gli espulsi dal centro storico e gli immigrati che giungevano dalle regioni del sud per sfuggire alla miseria del Mezzogiorno. Essi erano estranei alla città dal momento che, come sostiene Ferrarotti, erano esclusi dai suoi benefici ed erano lontani dalla sua vita sociale e politica. Tuttavia essi abitavano in una periferia che aveva dei connotati ben precisi e un’identità specifica. Quel luogo, pur sempre differenziato tra gli accampamenti di fortuna dei borghetti e tra le borgate, ufficiali o abusive, era immediatamente riconoscibile e ben diverso dal centro cittadino. Esso si caratterizzava come una struttura socialmente omogenea: era la cintura rossa costituita dagli operai edili che abitavano le case rapide o rapidissime del fascismo e votavano a sinistra (FUSO 2013, 10). Negli anni settanta, per questi abitanti, verranno realizzati i grandi insediamenti popolari di edilizia pubblica che segneranno un passaggio fondamentale nel contesto delle lotte per la casa. Pasolini, da frequentatore assiduo delle borgate, coglieva l’esistenza di due città: la città dei quartieri borghesi da una parte e dall’altra le borgate popolari che, vittime della società dei consumi, stavano subendo un profondo mutamento antropologico e si stavano imborghesendo. Ferrarotti qualche anno dopo sostiene invece che ci sono sempre due città, ma non sono quelle dei ghetti costituiti dai quartieri residenziali da una parte e dai quartieri popolari dall’altra, che pure resistono ancora. Ci sono sicuramente meno baracche di prima, ma la nuova tipologia edilizia tende a mascherare le differenze: è meno agevole oggi intuire dalla facciata della casa la condizione concreta di vita di chi vi abita dentro (FERRAROTTI 1991, 77). La vera differenza sta in una parte di città che ha accesso ai diversi livelli di potere e in un’altra che non ha possibilità di raggiungerne nessuno. Secondo Ferrarotti l’uscita dalle baracche è solo il primo passo per accedere ad una qualsiasi forma di emancipazione, anche se può non bastare. In alcuni casi potrebbe non essere addirittura indispensabile, per cui non è la dimensione fisica a determinare la periferia. Nella Roma contemporanea il confine netto tra centro e periferia si è progressivamente opacizzato rendendo sempre meno visibile, a livello geografico e sociale, la distinzione tra i due poli dialettici (FUSCO 2013, 10). All’interno dell’odierna periferia romana è facile notare la sempre più stridente coesistenza di quartieri di edilizia popolare, spesso espressione di acute forme di disagio, accanto a grandi poli commerciali o residenziali spesso sotto forma di gated communities (IVI, 11). Walter Siti oggi propone la visione contraria a quella fornita da Pasolini: non sono i borgatari che si sono imborghesiti, ma i borghesi che si sono imborgatati, nei costumi e quasi nello stile di vita, quindi oggi appare parziale o inefficace, ai fini della comprensione, la vecchia distinzione tra quartieri borghesi e quartieri popolari. La chiave di lettura di Siti costituisce una svolta nella tradizionale interpretazione della città suddivisa in centro e periferia: la cultura borgatara ha invaso il centro ma è anche mutata. Le borgate romane si sono trasformate in un miscuglio indistinto di realtà, che ha rotto i vecchi schemi e le strutture che le distinguevano, perdendo ogni senso di appartenenza, rompendo i vecchi legami di solidarietà e periferizzando ancor di più le relazioni sociali. Accanto a vecchi conflitti ne sono sorti altri e la convivenza all’interno di questi territori ha assunto forme non più solamente drammatiche, ma spesso anche esplosive. Dunque, se è possibile parlare di superamento della categoria di periferia come elemento geografico dalla connotazione specifica, quale significato assume oggi la vecchia periferia romana? Nel secondo capitolo ho definito il quartiere oggetto di ricerca: Tor Bella Monaca. Ho analizzato il contesto storico e culturale in cui si sviluppa la politica della casa, attraverso l’attuazione della legge 167/62 sull’edilizia popolare, e il significato che ha assunto, nel periodo delle lotte per l’emergenza abitativa, la realizzazione di un quartiere come Tor Bella Monaca. La mia domanda di ricerca verte sul seguente interrogativo: dopo oltre trent’anni dall’attuazione del primo PEEP di Roma, che cosa rappresentano oggi i grandi quartieri popolari come Tor Bella Monaca? Che cosa hanno rappresentato al momento della loro realizzazione? Che tipo di processo di trasformazione hanno subìto? Inizialmente pensati per fornire una risposta all’emergenza abitativa, oggi verso quale direzione tendono? La scelta del quartiere di Tor Bella Monaca, rispetto a tutti gli altri quartieri di edilizia popolare, è dovuta al fatto che esso è l’ultimo grande insediamento pubblico realizzato a Roma. All’epoca, centrale è stato il ruolo che il Welfare State, attraverso l’azione urbanistica, ha avuto nella fase cruciale in cui nella Capitale si poneva fine all’esperienza dei borghetti e delle baracche e si realizzavano i grands ensembles, con l’obiettivo di compiere il primo passo verso l’idea di una città in cui fosse garantito a tutti il diritto all’abitare. In quegli anni Roma era governata da una giunta di sinistra e il suo sindaco, Petroselli, proponeva un’idea ben precisa: accorciare le distanze, culturali e fisiche, tra il centro della città e la sua periferia. La periferia per la prima volta a Roma rappresentava il centro dell’azione politica e si avviava quel sogno di una casa per tutti, in cui si sarebbe realizzata l’idea di uguaglianza, che non rappresentava l’uguaglianza dell’omologazione culturale e consumistica profetizzata da Pasolini, non rappresentava la trasformazione della periferia che si voleva far diventare città al pari dei quartieri borghesi, ma era la periferia che entrava a far parte della città nell’acquisizione dei diritti (BAFFONI-DE LUCIA 2011, 8). Storicamente nelle borgate i diritti elementari furono conquistati attraverso la lotta e la determinazione degli abitanti, ma negli anni settanta quella coesione sociale si trasforma in organizzazione politica: strumento determinante per coloro che cominciano a prendere coscienza della propria condizione di marginalità (FUSCO 2013, 125). Si passa quindi da una solidarietà di mutuo-aiuto, che ha caratterizzato il periodo del dopoguerra, ad una solidarietà politica (IBIDEM). In quegli anni ci saranno dure lotte per la casa che hanno fortemente contribuito a portare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle condizioni di estremo disagio in cui versavano le periferie della città, la cui realtà veniva spesso ignorata o minimizzata dalle rappresentazioni ufficiali. Esse hanno creato le condizioni per la politica di risanamento delle borgate e l’avvio dei grandi piani di edilizia economica e popolare. La centralità dell’azione pubblica è un concetto, nel caso di Tor Bella Monaca, strettamente legato al ruolo della sua pianificazione urbanistica. Con l’attuazione della legge 167 vi era l’intento di poter regolare la crescita della città attraverso una pianificazione che fosse diretta emanazione dell’organizzazione centrale dello Stato e, allo stesso tempo, di bloccare la rendita fondiaria attraverso l’istituto dell’esproprio. In realtà così non è stato, almeno nel caso di Roma e per ciò che riguarda i suoi piani di edilizia economica e popolare, perché la localizzazione degli interventi, situati nelle aree distanti dal centro abitato, ha determinato l’instaurarsi di meccanismi di rendita dovuta all’aumento del valore delle aree intermedie. In tal senso le aspettative della legge 167, negli interventi dei grandi insediamenti pubblici degli anni settanta a Roma, sono state disattese, ma Tor Bella Monaca, rispetto a tutti gli altri grandi quartieri dell’epoca, come Corviale, Laurentino 38, Vigne Nuove, presenta una caratteristica importante: è l’unico caso in cui la gestione dell’intervento è affidata per quasi il 50% all’azione diretta del Comune. Di tutta l’edilizia sovvenzionata del quartiere quasi i 2/3 sono di proprietà del Comune di Roma, mentre la restante parte è di proprietà dell’ATER (all’epoca IACP). Questo dato, soprattutto considerando il fatto che la partecipazione comunale negli interventi di simili dimensioni e dello stesso periodo è pari a zero, è indicativo della volontà, da parte del Comune, di gestire direttamente la fase realizzativa e quella organizzativa del nuovo quartiere popolare. Ciò è più evidente se si considera la velocità della sua realizzazione: i primi alloggi sono stati consegnati dopo appena due anni, nel 1983, dalla delibera di concessione delle aree. Con Tor Bella Monaca, quartiere modello e fiore all’occhiello dell’Amministrazione, si doveva dimostrare che il ruolo della pianificazione si era guadagnato un’attitudine confrontabile con quella delle migliori esperienze straniere in materia di nuovi insediamenti abitativi (BAFFONI-DE LUCIA 2011, 61). Fu una stagione di grande impegno politico per Roma, ma durò anche poco. Non si realizzò il passaggio indispensabile dall’impegno eccezionale all’amministrazione ordinaria di buon livello (IBIDEM). Successivamente venne meno la responsabilità di gestione e di cura. L’assegnazione degli alloggi seguì una politica più opportunistica che di servizio e la mancata attuazione di servizi sociali e delle politiche di accoglienza ha contribuito ad incrementare quei problemi che caratterizzano, nello specifico, il quartiere oggi: emarginazione sociale, disoccupazione, detenzione domiciliare, disagio minorile. La realizzazione dei servizi pubblici di livello locale invece è dovuta quasi esclusivamente alle lotte e agli scioperi – ancora vivi nei ricordi degli abitanti sono i blocchi della via Casilina per intere giornate – portati avanti, in forma collettiva e organizzata, da cittadini e associazioni. Nel terzo capitolo, attraverso un’analisi urbanistica, ho cercato di individuare elementi, simboli, immagini, suoni che mi permettessero di definire il campo su cui produrre una narrazione del quartiere. I limiti della pianificazione urbanistica del Piano di zona di Tor Bella Monaca – emersi dalla volontà progettuale di realizzare i diversi comparti edilizi separati tra loro e di prestare attenzione principalmente ai flussi di attraversamento su larga scala – hanno generato una suddivisione del quartiere in due luoghi nettamente distinti. Essi differiscono tra loro non solo dal punto di vista dell’organizzazione spaziale, ma anche rispetto all’uso che gli abitanti fanno di determinati spazi, influenzando sia il rapporto abitante-territorio sia le relazioni che si instaurano tra gli abitanti stessi, condizionando quindi il rapporto abitante-abitante. L’elaborazione della mappa dei luoghi ha permesso di definire meglio questi due luoghi, che si collocano a nord e a sud del quartiere, e di focalizzarne le differenze. L’analisi prodotta intende dimostrare come le diverse forme degli spazi del quartiere abbiano influenzato gli usi dello spazio e le relazioni sociali: dalla visione, fortemente marginale, fornita dalla zona nord del quartiere, a quella più dinamica e partecipata offerta dalla zona situata a sud. Tutto ciò determina l’individuazione di due luoghi che vengono percepiti dagli abitanti in maniera diversa. Autorganizzazione e cura degli spazi, maggiore gestione, sia dei fenomeni di devianza che delle occupazioni senza titolo, si riscontrano nei comparti edilizi R8, R11 ed R15, situati nella parte sud del quartiere, nei pressi di largo Mengaroni; occupazioni conflittuali e rapporti destabilizzanti si riscontrano invece nella parte nord, principalmente all’interno dell’R5, e più in generale lungo via dell’Archeologia, con conseguente difficoltà di relazione tra gli stessi abitanti e con l’instaurarsi di fenomeni di invisibilità, associati ad un maggiore controllo del territorio da parte della criminalità organizzata. Emerge per questa zona una realtà difficile da penetrare perché caratterizzata da codici, segni e linguaggi naturalmente diretti, immediati, impetuosi che creano una sorta di barriera di incomunicabilità nei confronti degli estranei al contesto. Nella zona di largo Mengaroni, invece, la notevole presenza di associazioni e servizi per il quartiere determina una maggiore dimensione di spazio pubblico che genera forme di apertura e confronto, pur sempre conflittuale, tra gli abitanti. Tutto ciò non esclude il fatto che queste due zone forniscano un’unica rappresentazione dell’intero quartiere ma ciò che le distingue, ad un’analisi più approfondita, è la modalità di organizzazione, più o meno diffusa, dei processi relazionali. Il contrasto tra questi due luoghi fa quindi da sfondo ai diversi racconti presenti nel quarto capitolo, in cui si intrecciano le storie degli abitanti con i quali sono entrato in contatto in questi anni di ricerca. Nei racconti ho cercato di far emergere tutte le percezioni, le impressioni che ho ricevuto, mettendo in evidenza la diversa sensazione che gli abitanti mi hanno trasmesso in relazione ai due luoghi. I racconti non rappresentano altro che il mio modo di vedere il quartiere nel senso che, se qualcuno mi chiedesse di parlargli di Tor Bella Monaca, non saprei descriverla in maniera diversa. Non mancano nei racconti la disperazione unita a qualche forma di speranza, la marginalità arginata alle volte da piccole pratiche di solidarietà ed espressioni di emozioni portate spesso all’estremo e coesistenti in uno stesso luogo, in una stessa storia, in una stessa persona. Nel quinto capitolo ho cercato di individuare i segnali che oggi emergono da Tor Bella Monaca. Dopo la realizzazione del quartiere, la crisi di gestione, frutto del fallimento delle politiche abitative, ha generato un vuoto istituzionale che gli abitanti hanno cercato di colmare attraverso forme di autogestione percepite dagli stessi come legittime. Si sono costruite delle regole comuni, delle norme condivise, e in questa sorta di auto-governo, un aspetto dominante consiste nella negoziazione – con caratteristiche spesso conflittuali – di spazi e di diritti che dovrebbero invece essere riconosciuti e non conquistati: dalle complesse dinamiche di accesso all’alloggio pubblico, che comprendono fenomeni di occupazione accanto a quelli sempre meno frequenti delle assegnazioni, alla creazione dello spazio pubblico, ottenuto come produzione spontanea piuttosto che come esito progettuale, alle strategie di controllo del territorio ad opera della criminalità organizzata. Al di fuori di queste dinamiche, in questo quartiere, è piuttosto difficile farsi riconoscere un diritto nell’ambito della legalità, e chi non ha la forza di lottare viene spesso escluso. Come molte altre periferie, Tor Bella Monaca ha vissuto il declino della solidarietà politica: dalle lotte per il diritto alla casa, che avvenivano attraverso forme di organizzazione collettiva ed inclusiva, alle odierne lotte per la casa, che avvengono sotto forma individuale ed escludente. Dopo un primo periodo in cui gli abitanti percepivano una forte volontà di coesione e mutuo-aiuto ed in cui la lotta ne ha strutturato legami e appartenenza, oggi, l’egoismo privato, indotto da una strategia di controllo sociale che permette di perseguire la superficialità pubblica, si è concretizzato con una sorta di restringimento della dimensione spaziale-relazionale fino a raggiungere la soglia minima della rete familiare o di vicinato. Pertanto oggi al posto della solidarietà politica nella dimensione macro del quartiere, troviamo un sentimento solidale in quella micro del pianerottolo o della scala, in cui spesso i legami di vicinato permettono una sopravvivenza, all’ombra del lecito e dell’illecito, in un quartiere dove vige la logica del far da sé. Dall’inferno di una realtà fortemente disagiata emergono luci e ombre. Per molti aspetti la logica del far da sé ha instaurato meccanismi di sopravvivenza che hanno permesso di risolvere molti problemi quotidiani, ma hanno anche generato uno stato di illegalità diffusa dal quale è più difficile riemergere, e dal quale diventa persino problematico rivendicare diritti: l’unica soluzione è, quindi, quella di conquistarseli. Queste dinamiche da un lato sviluppano forme di progettualità locali, a volte condivise tra gli abitanti, e valorizzazione di risorse latenti permettendone l’attivazione e la promozione di percorsi costruttivi, ma dall’altro riducono la possibilità di fuoriuscita dal recinto. In tale contesto è facile il dilagare di fenomeni criminali che si alimentano del disagio diffuso e della mancanza di prospettive; contesti che creano un terreno fertile che favorisce la criminalità organizzata. Essa si sviluppa con l’assenza delle regole e la complicità o l’incapacità delle istituzioni e ricatta i soggetti più deboli agendo sui loro bisogni primari. In questi quartieri la criminalità rappresenta, spesso, l’unico ascensore sociale, l’unica possibilità di riscatto in quanto subentra alla mancanza dello Stato e crea essa stessa welfare: si insinua in maniera subdola nei comportamenti quotidiani dei cittadini e spezza il legame che c’è tra povertà e onestà. Ma contestualmente a tali dinamiche emergono anche altre forme di progettualità ad opera del variegato mondo dell’associazionismo. Quasi tutti gli spazi pubblici del quartiere, intesi come luoghi dove si produce una dimensione pubblica, sono frutto di conquista da parte di gruppi di abitanti e di occupazioni ad opera di associazioni. Queste ultime assumono il ruolo di principale interlocutore dei cittadini e condizionano le vicende politiche del territorio. Il loro tentativo di porsi in maniera conflittuale nei confronti delle istituzioni non sempre si concretizza e alla fine tendono a sostituirsi ad esse abbassando il livello dello scontro sociale. Divise tra l’obiettivo di produrre conflitto e la necessità di fornire una risposta concreta e immediata ai problemi che cercano di contrastare, le associazioni sono le artefici di una strategia che tende a non far esplodere le forme di richiesta. Diventano, loro malgrado, una sorta di valvola di sfogo per i cittadini che non permette al conflitto di esplodere. Prodigarsi per fornire una risposta puntuale, benché costretti dalle contingenze, significa evitare che il bisogno resti inevaso, quindi evitare che le richieste di soddisfacimento assumano toni e forme più violente e incisive. A Tor Bella Monaca il conflitto non scoppia proprio perché, contrariamente a quanto avvenuto di recente a Tor Sapienza, la marcata presenza del mondo dell’associazionismo canalizza e smorza la rabbia proveniente dal basso. Nell’ultimo capitolo ho affrontato il tema del fallimento della pianificazione urbanistica, che si è dimostrata inadeguata ai bisogni reali della città (LA CECLA, 2014). Le complesse dinamiche, umane, economiche e ambientali che attraversano le città sono sfuggite al suo tentativo di irreggimentarle. Il contrasto tra la città pubblica e la città privata si presenta in maniera evidente nella sua discontinuità relazionale, ma anche nella sua apparentemente inaspettata conformità con cui si percepisce il senso di una marginalità diffusa. La dimensione periferica dell’una, al pari di quella dell’altra, non ammette differenza alcuna. Non solo l’ambizione della pianificazione pubblica, attraverso i piani di edilizia popolare, non ha ridotto la distanza tra il centro e la periferia romana, ma non è stata in grado neanche di evitare che tale distanza, nel corso degli anni, aumentasse insieme al disagio sociale e al manifestarsi di nuove sofferenze. Essa non ha scongiurato l’insorgere e il rafforzarsi di sempre più vistose ed accese disuguaglianze che stanno alla base degli odierni conflitti sociali. Da questo punto di vista tra i quartieri abusivi e quelli pianificati non vi è nessuna distinzione. Per cogliere le trasformazioni che hanno investito Roma dal dopoguerra in poi il conflitto risulta uno dei temi principali da analizzare (DE ANGELIS 2005, 7). Oggi non è più quello di classe ma continua ad esistere e rappresenta il nodo centrale dell’abitare: esso è centrale soprattutto in quei contesti legati a condizioni di esclusione del diritto, segregazione, marginalità. Contesti che si ritrovano indistintamente in tutta la periferia romana, caratterizzata da un insieme di insediamenti frammentari il cui assetto urbanistico polverizzato ha scoraggiato quella mescolanza virtuosa, necessaria a promuovere la coesione sociale. L’insorgenza di nuove povertà, e quindi di forti disuguaglianze, aumenta nuove e profonde tensioni sociali i cui esiti, come è avvenuto a Tor Sapienza, possono giungere a forme estreme. Ma cos’è che identifica oggi un luogo come periferia? Fino a qualche decennio fa essa era tutto ciò che stava fuori dalla città e al suo interno vi era la classe operaia o, come a Roma, il sottoproletariato di recente immigrazione: la sua rappresentazione di classe era chiara, così come lo era in maniera opposta per altri quartieri situati al centro della città, e tutto risultava estremamente ben definito. Con lo sviluppo della metropoli invece, caratterizzata da nuove culture e da processi di deterritorializzazione, in cui lo spazio si estende oltre i confini e non ha più limiti, il rapporto centro-periferia non è più adeguato. Le vecchie borgate romane, territori altri rispetto alla città, con il loro speciale marchio di disperazione, rappresentavano per lo status sociale dei loro abitanti, in un orizzonte temporale, il contingente in attesa di essere altro. Erano il luogo da cui sarebbe partito il loro riscatto e i conflitti venivano sintetizzati all’interno di un ideale collettivo che ne avrebbe contraddistinto il comune destino. La periferia di oggi non avverte neanche il senso della città – se ancora essa è in grado di produrne qualcuno – e i rituali di resistenza quotidiana vengono ricondotti all’unità, all’improbabile strategia della sopravvivenza in cui lo scontro, fatto da tutti contro tutti, non fa altro che riprodursi senza regole e al di là dello spazio, periferizzando l’intera città. Da questo punto di vista ciò che rende diversa la periferia romana di oggi dalle borgate del secolo scorso è il verso della direzione della corsa: se prima la periferia correva verso la città oggi essa corre verso qualcos’altro; un qualcosa di indefinito e perciò ancor più desolate di quanto non lo fosse la periferia di un tempo. Ciò che resiste invece è ancora il conflitto sociale, che si esprime oggi in forme diverse, trasformato molto spesso in devianza o in violenza anonima e da questo punto di vista le soluzioni non possono essere viste solo ed esclusivamente in chiave urbanistica e architettonica, come proposto di recente con le note operazioni di rammendo. Nell’ultimo paragrafo del capitolo mi propongo di evidenziare l’importanza di valorizzare tutte quelle risorse fisiche, sociali e culturali che, all’interno del quartiere, si battono per un modello di convivenza diverso e che, attualmente, rappresentano le uniche realtà da cui si può ripartire. I segnali che arrivano oggi da questo quartiere sono contrapposti, oscillano continuamente tra ombre e luci. Sacche di criminalità diffusa si alternano a forme di progettualità locali, spesso latenti. Tor Bella Monaca abita certamente un inferno, ma per riuscire a trovare ciò che inferno non è occorre riconoscere e valorizzare quelle energie in movimento per un nuovo progetto civile e sociale. In assenza di un nuovo progetto politico, in grado di riscattare le odierne periferie, nel clima di crisi economica e generale, la deriva di Tor Bella Monaca è rappresentata dall’acuirsi delle forme conflittuali interne in cui i più deboli sono destinati ad esserlo ancor di più e ancor più numerosi. L’unica speranza di riscatto può venire da un nuovo progetto di welfare che produca cittadinanza; un progetto di forte centralità dell’azione pubblica che, come trent’anni fa riuscì a realizzare il sogno della casa per tutti, oggi possa realizzare il sogno della città per tutti.

Mutazione del concetto di periferia. Tor Bella Monaca, l’ultima grande periferia pubblica / Montillo, Francesco. - (2016 Jul 14).

Mutazione del concetto di periferia. Tor Bella Monaca, l’ultima grande periferia pubblica

MONTILLO, FRANCESCO
14/07/2016

Abstract

Questa tesi di Dottorato è frutto di un lavoro di ricerca effettuato negli ultimi tre anni nel quartiere di Tor Bella Monaca a Roma. Fondamentale, per l’orientamento della ricerca, è stato il rapporto continuo e produttivo con le associazioni e i comitati di cittadini, primi tra tutti il Comitato di Quartiere Nuova Tor Bella Monaca e l’Associazione Inquilini e Abitanti (AsIA). Il percorso della tesi è partito dall’assunto che questa città, come la società che essa rappresenta, ha subìto negli ultimi decenni un profondo mutamento di difficile interpretazione. La città, in ogni epoca storica, ha assunto significati diversi, ma questi erano facilmente intellegibili poiché le categorie dicotomiche quali città–campagna, luoghi per i ricchi – luoghi per i poveri, identificavano facilmente le separazioni materiali e immateriali, fornendo un’adeguata definizione della città. Il mondo contemporaneo invece, sprovvisto delle medesime categorie, non ha più gli strumenti appropriati per poter identificare e definire la città nella sua accezione spazio-temporale. Il primo obiettivo della ricerca è stato quello di analizzare la mutazione del concetto di periferia nella Roma moderna, con l’intento di cogliere il significato che il termine periferia oggi può assumere rispetto ai grandi quartieri di edilizia economica e popolare come Tor Bella Monaca. Il secondo obiettivo è stato quello di produrre una narrazione del quartiere, frutto di un intreccio di immagini create attraverso l’osservazione delle pratiche che definiscono il vissuto del luogo, utile a proporre un diverso modo di raccontare e di progettare la città. La metodologia con cui si è affrontato il percorso è consistita nella sperimentazione, sul campo, di diverse pratiche di conoscenza e di interpretazione del territorio, attraverso assidue frequentazioni, in grado di stimolare, di volta in volta, nuove osservazioni, indagini conoscitive dirette e indagini conoscitive indirette, interviste agli abitanti e confronto con le associazioni locali. Tutto ciò è stato utile a produrre una descrizione, sovrapposta ad un’auto-narrazione, elaborata mediante la partecipazione alla vita sociale del quartiere, con l’intento di offrire uno sguardo sulle dinamiche sociali e territoriali che caratterizzano il luogo. Il contributo alla ricerca urbanistica, e alla pianificazione in particolare, è quello di fornire una rappresentazione del quartiere di Tor Bella Monaca, ovvero uno strumento di conoscenza che costituisca il punto di partenza per suggerire idee volte ad indirizzare la realizzazione di Piani e Programmi urbanistici, uno strumento che sia in grado di far emergere attori sociali, pratiche e fenomeni, spesso poco visibili nelle loro dimensioni locali, che a volte sfuggono alla pianificazione classica. Proporre un diverso modo di raccontare e di progettare la città, per esplicitare i fattori identitari che caratterizzano e definiscono i luoghi, costituisce uno dei risultati auspicati. Nel primo capitolo la mia analisi ha come oggetto la mutazione della periferia nella Roma moderna, partendo dalla definizione fornita, da tre autori in tre periodi diversi, del concetto di periferia: da quella popolare e drammaticamente umana di Pasolini, rappresentata dalle borgate, a quella marginale di Ferrarotti, individuata nella Roma che non ha accesso alla vita sociale della città ed, infine, alla periferia di Walter Siti, ricercata anche nei vecchi quartieri borghesi che ultimamente sembra si siano imborgatati. Negli ultimi decenni Roma ha subìto trasformazioni profonde e gli scenari pasoliniani di Accattone e Mamma Roma sembrano ormai appartenere ad un’altra epoca: la periferia di oggi non è più la periferia desolata degli anni cinquanta. Centro e periferia, dopo una netta separazione, entrano in una fase di interazione e lentamente la periferia cambia volto: non più baracche, non più sottoproletariato, ma una struttura sociale complessa e frastagliata. Nel secolo scorso la periferia fisica corrispondeva ad una periferia anche in termini sociali e ciò determinava una netta contrapposizione con il centro storico: in essa vi si trovavano povertà, disoccupazione o sotto-occupazione, disagio, e tuttavia essa rappresentava, per chi la abitava, un luogo in attesa di entrare, fisicamente e socialmente, in città (PEZZETTA, 29). In questi luoghi le emarginazioni e le disuguaglianze costituivano il fattor comune di un ideale collettivo, di un’utopia da perseguire mediante la conquista della libertà sociale ed economica. Erano luoghi di disperazione e disincanto, ma anche luoghi in attesa di riscatto. Le borgate di Roma ospitavano gli espulsi dal centro storico e gli immigrati che giungevano dalle regioni del sud per sfuggire alla miseria del Mezzogiorno. Essi erano estranei alla città dal momento che, come sostiene Ferrarotti, erano esclusi dai suoi benefici ed erano lontani dalla sua vita sociale e politica. Tuttavia essi abitavano in una periferia che aveva dei connotati ben precisi e un’identità specifica. Quel luogo, pur sempre differenziato tra gli accampamenti di fortuna dei borghetti e tra le borgate, ufficiali o abusive, era immediatamente riconoscibile e ben diverso dal centro cittadino. Esso si caratterizzava come una struttura socialmente omogenea: era la cintura rossa costituita dagli operai edili che abitavano le case rapide o rapidissime del fascismo e votavano a sinistra (FUSO 2013, 10). Negli anni settanta, per questi abitanti, verranno realizzati i grandi insediamenti popolari di edilizia pubblica che segneranno un passaggio fondamentale nel contesto delle lotte per la casa. Pasolini, da frequentatore assiduo delle borgate, coglieva l’esistenza di due città: la città dei quartieri borghesi da una parte e dall’altra le borgate popolari che, vittime della società dei consumi, stavano subendo un profondo mutamento antropologico e si stavano imborghesendo. Ferrarotti qualche anno dopo sostiene invece che ci sono sempre due città, ma non sono quelle dei ghetti costituiti dai quartieri residenziali da una parte e dai quartieri popolari dall’altra, che pure resistono ancora. Ci sono sicuramente meno baracche di prima, ma la nuova tipologia edilizia tende a mascherare le differenze: è meno agevole oggi intuire dalla facciata della casa la condizione concreta di vita di chi vi abita dentro (FERRAROTTI 1991, 77). La vera differenza sta in una parte di città che ha accesso ai diversi livelli di potere e in un’altra che non ha possibilità di raggiungerne nessuno. Secondo Ferrarotti l’uscita dalle baracche è solo il primo passo per accedere ad una qualsiasi forma di emancipazione, anche se può non bastare. In alcuni casi potrebbe non essere addirittura indispensabile, per cui non è la dimensione fisica a determinare la periferia. Nella Roma contemporanea il confine netto tra centro e periferia si è progressivamente opacizzato rendendo sempre meno visibile, a livello geografico e sociale, la distinzione tra i due poli dialettici (FUSCO 2013, 10). All’interno dell’odierna periferia romana è facile notare la sempre più stridente coesistenza di quartieri di edilizia popolare, spesso espressione di acute forme di disagio, accanto a grandi poli commerciali o residenziali spesso sotto forma di gated communities (IVI, 11). Walter Siti oggi propone la visione contraria a quella fornita da Pasolini: non sono i borgatari che si sono imborghesiti, ma i borghesi che si sono imborgatati, nei costumi e quasi nello stile di vita, quindi oggi appare parziale o inefficace, ai fini della comprensione, la vecchia distinzione tra quartieri borghesi e quartieri popolari. La chiave di lettura di Siti costituisce una svolta nella tradizionale interpretazione della città suddivisa in centro e periferia: la cultura borgatara ha invaso il centro ma è anche mutata. Le borgate romane si sono trasformate in un miscuglio indistinto di realtà, che ha rotto i vecchi schemi e le strutture che le distinguevano, perdendo ogni senso di appartenenza, rompendo i vecchi legami di solidarietà e periferizzando ancor di più le relazioni sociali. Accanto a vecchi conflitti ne sono sorti altri e la convivenza all’interno di questi territori ha assunto forme non più solamente drammatiche, ma spesso anche esplosive. Dunque, se è possibile parlare di superamento della categoria di periferia come elemento geografico dalla connotazione specifica, quale significato assume oggi la vecchia periferia romana? Nel secondo capitolo ho definito il quartiere oggetto di ricerca: Tor Bella Monaca. Ho analizzato il contesto storico e culturale in cui si sviluppa la politica della casa, attraverso l’attuazione della legge 167/62 sull’edilizia popolare, e il significato che ha assunto, nel periodo delle lotte per l’emergenza abitativa, la realizzazione di un quartiere come Tor Bella Monaca. La mia domanda di ricerca verte sul seguente interrogativo: dopo oltre trent’anni dall’attuazione del primo PEEP di Roma, che cosa rappresentano oggi i grandi quartieri popolari come Tor Bella Monaca? Che cosa hanno rappresentato al momento della loro realizzazione? Che tipo di processo di trasformazione hanno subìto? Inizialmente pensati per fornire una risposta all’emergenza abitativa, oggi verso quale direzione tendono? La scelta del quartiere di Tor Bella Monaca, rispetto a tutti gli altri quartieri di edilizia popolare, è dovuta al fatto che esso è l’ultimo grande insediamento pubblico realizzato a Roma. All’epoca, centrale è stato il ruolo che il Welfare State, attraverso l’azione urbanistica, ha avuto nella fase cruciale in cui nella Capitale si poneva fine all’esperienza dei borghetti e delle baracche e si realizzavano i grands ensembles, con l’obiettivo di compiere il primo passo verso l’idea di una città in cui fosse garantito a tutti il diritto all’abitare. In quegli anni Roma era governata da una giunta di sinistra e il suo sindaco, Petroselli, proponeva un’idea ben precisa: accorciare le distanze, culturali e fisiche, tra il centro della città e la sua periferia. La periferia per la prima volta a Roma rappresentava il centro dell’azione politica e si avviava quel sogno di una casa per tutti, in cui si sarebbe realizzata l’idea di uguaglianza, che non rappresentava l’uguaglianza dell’omologazione culturale e consumistica profetizzata da Pasolini, non rappresentava la trasformazione della periferia che si voleva far diventare città al pari dei quartieri borghesi, ma era la periferia che entrava a far parte della città nell’acquisizione dei diritti (BAFFONI-DE LUCIA 2011, 8). Storicamente nelle borgate i diritti elementari furono conquistati attraverso la lotta e la determinazione degli abitanti, ma negli anni settanta quella coesione sociale si trasforma in organizzazione politica: strumento determinante per coloro che cominciano a prendere coscienza della propria condizione di marginalità (FUSCO 2013, 125). Si passa quindi da una solidarietà di mutuo-aiuto, che ha caratterizzato il periodo del dopoguerra, ad una solidarietà politica (IBIDEM). In quegli anni ci saranno dure lotte per la casa che hanno fortemente contribuito a portare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle condizioni di estremo disagio in cui versavano le periferie della città, la cui realtà veniva spesso ignorata o minimizzata dalle rappresentazioni ufficiali. Esse hanno creato le condizioni per la politica di risanamento delle borgate e l’avvio dei grandi piani di edilizia economica e popolare. La centralità dell’azione pubblica è un concetto, nel caso di Tor Bella Monaca, strettamente legato al ruolo della sua pianificazione urbanistica. Con l’attuazione della legge 167 vi era l’intento di poter regolare la crescita della città attraverso una pianificazione che fosse diretta emanazione dell’organizzazione centrale dello Stato e, allo stesso tempo, di bloccare la rendita fondiaria attraverso l’istituto dell’esproprio. In realtà così non è stato, almeno nel caso di Roma e per ciò che riguarda i suoi piani di edilizia economica e popolare, perché la localizzazione degli interventi, situati nelle aree distanti dal centro abitato, ha determinato l’instaurarsi di meccanismi di rendita dovuta all’aumento del valore delle aree intermedie. In tal senso le aspettative della legge 167, negli interventi dei grandi insediamenti pubblici degli anni settanta a Roma, sono state disattese, ma Tor Bella Monaca, rispetto a tutti gli altri grandi quartieri dell’epoca, come Corviale, Laurentino 38, Vigne Nuove, presenta una caratteristica importante: è l’unico caso in cui la gestione dell’intervento è affidata per quasi il 50% all’azione diretta del Comune. Di tutta l’edilizia sovvenzionata del quartiere quasi i 2/3 sono di proprietà del Comune di Roma, mentre la restante parte è di proprietà dell’ATER (all’epoca IACP). Questo dato, soprattutto considerando il fatto che la partecipazione comunale negli interventi di simili dimensioni e dello stesso periodo è pari a zero, è indicativo della volontà, da parte del Comune, di gestire direttamente la fase realizzativa e quella organizzativa del nuovo quartiere popolare. Ciò è più evidente se si considera la velocità della sua realizzazione: i primi alloggi sono stati consegnati dopo appena due anni, nel 1983, dalla delibera di concessione delle aree. Con Tor Bella Monaca, quartiere modello e fiore all’occhiello dell’Amministrazione, si doveva dimostrare che il ruolo della pianificazione si era guadagnato un’attitudine confrontabile con quella delle migliori esperienze straniere in materia di nuovi insediamenti abitativi (BAFFONI-DE LUCIA 2011, 61). Fu una stagione di grande impegno politico per Roma, ma durò anche poco. Non si realizzò il passaggio indispensabile dall’impegno eccezionale all’amministrazione ordinaria di buon livello (IBIDEM). Successivamente venne meno la responsabilità di gestione e di cura. L’assegnazione degli alloggi seguì una politica più opportunistica che di servizio e la mancata attuazione di servizi sociali e delle politiche di accoglienza ha contribuito ad incrementare quei problemi che caratterizzano, nello specifico, il quartiere oggi: emarginazione sociale, disoccupazione, detenzione domiciliare, disagio minorile. La realizzazione dei servizi pubblici di livello locale invece è dovuta quasi esclusivamente alle lotte e agli scioperi – ancora vivi nei ricordi degli abitanti sono i blocchi della via Casilina per intere giornate – portati avanti, in forma collettiva e organizzata, da cittadini e associazioni. Nel terzo capitolo, attraverso un’analisi urbanistica, ho cercato di individuare elementi, simboli, immagini, suoni che mi permettessero di definire il campo su cui produrre una narrazione del quartiere. I limiti della pianificazione urbanistica del Piano di zona di Tor Bella Monaca – emersi dalla volontà progettuale di realizzare i diversi comparti edilizi separati tra loro e di prestare attenzione principalmente ai flussi di attraversamento su larga scala – hanno generato una suddivisione del quartiere in due luoghi nettamente distinti. Essi differiscono tra loro non solo dal punto di vista dell’organizzazione spaziale, ma anche rispetto all’uso che gli abitanti fanno di determinati spazi, influenzando sia il rapporto abitante-territorio sia le relazioni che si instaurano tra gli abitanti stessi, condizionando quindi il rapporto abitante-abitante. L’elaborazione della mappa dei luoghi ha permesso di definire meglio questi due luoghi, che si collocano a nord e a sud del quartiere, e di focalizzarne le differenze. L’analisi prodotta intende dimostrare come le diverse forme degli spazi del quartiere abbiano influenzato gli usi dello spazio e le relazioni sociali: dalla visione, fortemente marginale, fornita dalla zona nord del quartiere, a quella più dinamica e partecipata offerta dalla zona situata a sud. Tutto ciò determina l’individuazione di due luoghi che vengono percepiti dagli abitanti in maniera diversa. Autorganizzazione e cura degli spazi, maggiore gestione, sia dei fenomeni di devianza che delle occupazioni senza titolo, si riscontrano nei comparti edilizi R8, R11 ed R15, situati nella parte sud del quartiere, nei pressi di largo Mengaroni; occupazioni conflittuali e rapporti destabilizzanti si riscontrano invece nella parte nord, principalmente all’interno dell’R5, e più in generale lungo via dell’Archeologia, con conseguente difficoltà di relazione tra gli stessi abitanti e con l’instaurarsi di fenomeni di invisibilità, associati ad un maggiore controllo del territorio da parte della criminalità organizzata. Emerge per questa zona una realtà difficile da penetrare perché caratterizzata da codici, segni e linguaggi naturalmente diretti, immediati, impetuosi che creano una sorta di barriera di incomunicabilità nei confronti degli estranei al contesto. Nella zona di largo Mengaroni, invece, la notevole presenza di associazioni e servizi per il quartiere determina una maggiore dimensione di spazio pubblico che genera forme di apertura e confronto, pur sempre conflittuale, tra gli abitanti. Tutto ciò non esclude il fatto che queste due zone forniscano un’unica rappresentazione dell’intero quartiere ma ciò che le distingue, ad un’analisi più approfondita, è la modalità di organizzazione, più o meno diffusa, dei processi relazionali. Il contrasto tra questi due luoghi fa quindi da sfondo ai diversi racconti presenti nel quarto capitolo, in cui si intrecciano le storie degli abitanti con i quali sono entrato in contatto in questi anni di ricerca. Nei racconti ho cercato di far emergere tutte le percezioni, le impressioni che ho ricevuto, mettendo in evidenza la diversa sensazione che gli abitanti mi hanno trasmesso in relazione ai due luoghi. I racconti non rappresentano altro che il mio modo di vedere il quartiere nel senso che, se qualcuno mi chiedesse di parlargli di Tor Bella Monaca, non saprei descriverla in maniera diversa. Non mancano nei racconti la disperazione unita a qualche forma di speranza, la marginalità arginata alle volte da piccole pratiche di solidarietà ed espressioni di emozioni portate spesso all’estremo e coesistenti in uno stesso luogo, in una stessa storia, in una stessa persona. Nel quinto capitolo ho cercato di individuare i segnali che oggi emergono da Tor Bella Monaca. Dopo la realizzazione del quartiere, la crisi di gestione, frutto del fallimento delle politiche abitative, ha generato un vuoto istituzionale che gli abitanti hanno cercato di colmare attraverso forme di autogestione percepite dagli stessi come legittime. Si sono costruite delle regole comuni, delle norme condivise, e in questa sorta di auto-governo, un aspetto dominante consiste nella negoziazione – con caratteristiche spesso conflittuali – di spazi e di diritti che dovrebbero invece essere riconosciuti e non conquistati: dalle complesse dinamiche di accesso all’alloggio pubblico, che comprendono fenomeni di occupazione accanto a quelli sempre meno frequenti delle assegnazioni, alla creazione dello spazio pubblico, ottenuto come produzione spontanea piuttosto che come esito progettuale, alle strategie di controllo del territorio ad opera della criminalità organizzata. Al di fuori di queste dinamiche, in questo quartiere, è piuttosto difficile farsi riconoscere un diritto nell’ambito della legalità, e chi non ha la forza di lottare viene spesso escluso. Come molte altre periferie, Tor Bella Monaca ha vissuto il declino della solidarietà politica: dalle lotte per il diritto alla casa, che avvenivano attraverso forme di organizzazione collettiva ed inclusiva, alle odierne lotte per la casa, che avvengono sotto forma individuale ed escludente. Dopo un primo periodo in cui gli abitanti percepivano una forte volontà di coesione e mutuo-aiuto ed in cui la lotta ne ha strutturato legami e appartenenza, oggi, l’egoismo privato, indotto da una strategia di controllo sociale che permette di perseguire la superficialità pubblica, si è concretizzato con una sorta di restringimento della dimensione spaziale-relazionale fino a raggiungere la soglia minima della rete familiare o di vicinato. Pertanto oggi al posto della solidarietà politica nella dimensione macro del quartiere, troviamo un sentimento solidale in quella micro del pianerottolo o della scala, in cui spesso i legami di vicinato permettono una sopravvivenza, all’ombra del lecito e dell’illecito, in un quartiere dove vige la logica del far da sé. Dall’inferno di una realtà fortemente disagiata emergono luci e ombre. Per molti aspetti la logica del far da sé ha instaurato meccanismi di sopravvivenza che hanno permesso di risolvere molti problemi quotidiani, ma hanno anche generato uno stato di illegalità diffusa dal quale è più difficile riemergere, e dal quale diventa persino problematico rivendicare diritti: l’unica soluzione è, quindi, quella di conquistarseli. Queste dinamiche da un lato sviluppano forme di progettualità locali, a volte condivise tra gli abitanti, e valorizzazione di risorse latenti permettendone l’attivazione e la promozione di percorsi costruttivi, ma dall’altro riducono la possibilità di fuoriuscita dal recinto. In tale contesto è facile il dilagare di fenomeni criminali che si alimentano del disagio diffuso e della mancanza di prospettive; contesti che creano un terreno fertile che favorisce la criminalità organizzata. Essa si sviluppa con l’assenza delle regole e la complicità o l’incapacità delle istituzioni e ricatta i soggetti più deboli agendo sui loro bisogni primari. In questi quartieri la criminalità rappresenta, spesso, l’unico ascensore sociale, l’unica possibilità di riscatto in quanto subentra alla mancanza dello Stato e crea essa stessa welfare: si insinua in maniera subdola nei comportamenti quotidiani dei cittadini e spezza il legame che c’è tra povertà e onestà. Ma contestualmente a tali dinamiche emergono anche altre forme di progettualità ad opera del variegato mondo dell’associazionismo. Quasi tutti gli spazi pubblici del quartiere, intesi come luoghi dove si produce una dimensione pubblica, sono frutto di conquista da parte di gruppi di abitanti e di occupazioni ad opera di associazioni. Queste ultime assumono il ruolo di principale interlocutore dei cittadini e condizionano le vicende politiche del territorio. Il loro tentativo di porsi in maniera conflittuale nei confronti delle istituzioni non sempre si concretizza e alla fine tendono a sostituirsi ad esse abbassando il livello dello scontro sociale. Divise tra l’obiettivo di produrre conflitto e la necessità di fornire una risposta concreta e immediata ai problemi che cercano di contrastare, le associazioni sono le artefici di una strategia che tende a non far esplodere le forme di richiesta. Diventano, loro malgrado, una sorta di valvola di sfogo per i cittadini che non permette al conflitto di esplodere. Prodigarsi per fornire una risposta puntuale, benché costretti dalle contingenze, significa evitare che il bisogno resti inevaso, quindi evitare che le richieste di soddisfacimento assumano toni e forme più violente e incisive. A Tor Bella Monaca il conflitto non scoppia proprio perché, contrariamente a quanto avvenuto di recente a Tor Sapienza, la marcata presenza del mondo dell’associazionismo canalizza e smorza la rabbia proveniente dal basso. Nell’ultimo capitolo ho affrontato il tema del fallimento della pianificazione urbanistica, che si è dimostrata inadeguata ai bisogni reali della città (LA CECLA, 2014). Le complesse dinamiche, umane, economiche e ambientali che attraversano le città sono sfuggite al suo tentativo di irreggimentarle. Il contrasto tra la città pubblica e la città privata si presenta in maniera evidente nella sua discontinuità relazionale, ma anche nella sua apparentemente inaspettata conformità con cui si percepisce il senso di una marginalità diffusa. La dimensione periferica dell’una, al pari di quella dell’altra, non ammette differenza alcuna. Non solo l’ambizione della pianificazione pubblica, attraverso i piani di edilizia popolare, non ha ridotto la distanza tra il centro e la periferia romana, ma non è stata in grado neanche di evitare che tale distanza, nel corso degli anni, aumentasse insieme al disagio sociale e al manifestarsi di nuove sofferenze. Essa non ha scongiurato l’insorgere e il rafforzarsi di sempre più vistose ed accese disuguaglianze che stanno alla base degli odierni conflitti sociali. Da questo punto di vista tra i quartieri abusivi e quelli pianificati non vi è nessuna distinzione. Per cogliere le trasformazioni che hanno investito Roma dal dopoguerra in poi il conflitto risulta uno dei temi principali da analizzare (DE ANGELIS 2005, 7). Oggi non è più quello di classe ma continua ad esistere e rappresenta il nodo centrale dell’abitare: esso è centrale soprattutto in quei contesti legati a condizioni di esclusione del diritto, segregazione, marginalità. Contesti che si ritrovano indistintamente in tutta la periferia romana, caratterizzata da un insieme di insediamenti frammentari il cui assetto urbanistico polverizzato ha scoraggiato quella mescolanza virtuosa, necessaria a promuovere la coesione sociale. L’insorgenza di nuove povertà, e quindi di forti disuguaglianze, aumenta nuove e profonde tensioni sociali i cui esiti, come è avvenuto a Tor Sapienza, possono giungere a forme estreme. Ma cos’è che identifica oggi un luogo come periferia? Fino a qualche decennio fa essa era tutto ciò che stava fuori dalla città e al suo interno vi era la classe operaia o, come a Roma, il sottoproletariato di recente immigrazione: la sua rappresentazione di classe era chiara, così come lo era in maniera opposta per altri quartieri situati al centro della città, e tutto risultava estremamente ben definito. Con lo sviluppo della metropoli invece, caratterizzata da nuove culture e da processi di deterritorializzazione, in cui lo spazio si estende oltre i confini e non ha più limiti, il rapporto centro-periferia non è più adeguato. Le vecchie borgate romane, territori altri rispetto alla città, con il loro speciale marchio di disperazione, rappresentavano per lo status sociale dei loro abitanti, in un orizzonte temporale, il contingente in attesa di essere altro. Erano il luogo da cui sarebbe partito il loro riscatto e i conflitti venivano sintetizzati all’interno di un ideale collettivo che ne avrebbe contraddistinto il comune destino. La periferia di oggi non avverte neanche il senso della città – se ancora essa è in grado di produrne qualcuno – e i rituali di resistenza quotidiana vengono ricondotti all’unità, all’improbabile strategia della sopravvivenza in cui lo scontro, fatto da tutti contro tutti, non fa altro che riprodursi senza regole e al di là dello spazio, periferizzando l’intera città. Da questo punto di vista ciò che rende diversa la periferia romana di oggi dalle borgate del secolo scorso è il verso della direzione della corsa: se prima la periferia correva verso la città oggi essa corre verso qualcos’altro; un qualcosa di indefinito e perciò ancor più desolate di quanto non lo fosse la periferia di un tempo. Ciò che resiste invece è ancora il conflitto sociale, che si esprime oggi in forme diverse, trasformato molto spesso in devianza o in violenza anonima e da questo punto di vista le soluzioni non possono essere viste solo ed esclusivamente in chiave urbanistica e architettonica, come proposto di recente con le note operazioni di rammendo. Nell’ultimo paragrafo del capitolo mi propongo di evidenziare l’importanza di valorizzare tutte quelle risorse fisiche, sociali e culturali che, all’interno del quartiere, si battono per un modello di convivenza diverso e che, attualmente, rappresentano le uniche realtà da cui si può ripartire. I segnali che arrivano oggi da questo quartiere sono contrapposti, oscillano continuamente tra ombre e luci. Sacche di criminalità diffusa si alternano a forme di progettualità locali, spesso latenti. Tor Bella Monaca abita certamente un inferno, ma per riuscire a trovare ciò che inferno non è occorre riconoscere e valorizzare quelle energie in movimento per un nuovo progetto civile e sociale. In assenza di un nuovo progetto politico, in grado di riscattare le odierne periferie, nel clima di crisi economica e generale, la deriva di Tor Bella Monaca è rappresentata dall’acuirsi delle forme conflittuali interne in cui i più deboli sono destinati ad esserlo ancor di più e ancor più numerosi. L’unica speranza di riscatto può venire da un nuovo progetto di welfare che produca cittadinanza; un progetto di forte centralità dell’azione pubblica che, come trent’anni fa riuscì a realizzare il sogno della casa per tutti, oggi possa realizzare il sogno della città per tutti.
14-lug-2016
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Note: Mutazione del concetto di periferia. Tor Bella Monaca, l’ultima grande periferia pubblica
Tipologia: Tesi di dottorato
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