Parallelamente alla costruzione politica dell’area Schengen, caratterizzata dall’abolizione delle frontiere interne dell’Unione Europea, è avvenuta, negli anni, una profonda ridefinizione dei confini esterni europei in termini di sicurezza e controllo (Campesi 2015; Ciabarri 2020). All’apertura dello spazio interno dell’Unione è corrisposta, infatti, una profonda chiusura verso l’esterno messa in atto attraverso una politica migratoria basata sul paradigma del controllo (Irrera 2016) e sullo sviluppo di strategie politiche volte a escludere alcune categorie di persone (Huysmans 2000) attraverso un generale riassetto delle politiche e delle pratiche di controllo delle frontiere esterne. I confini, intesi come garanti della sicurezza, sono diventati essi stessi sistemi di regole fondati su processi di differenziazione e selettività (Mau et al. 2012) diventando socialmente e politicamente intrinsechi alla vita quotidiana, influenzando persone e luoghi in modo diseguale (Popescu 2021). La gestione europea del fenomeno migratorio, né dichiaratamente governativa né prevalentemente sopranazionale (Caviedes 2016), fortemente ancorata a processi di securitizzazione e a una conseguente gestione “poliziesca” dei confini, appare ancora oggi, frammentata e destrutturata e assume un costante carattere emergenziale in cui il controllo sembra essere l’unico strumento a disposizione della politica. La questione migratoria e il dibattito che ne consegue, si riducono ai tecnicismi attraverso cui governare i flussi migratori sulla base di strategie politiche che rispondono solo alla logica immunitaria dell’esclusione, in cui la migrazione figura come devianza da arginare, anomalia da abolire (Di Cesare 2017). La sicurezza diventa priorità nella formulazione delle politiche migratorie, e il gesto dell’ospitalità diventa per i cittadini europei un peso non più tollerabile (Spina 2016). I migranti sono usurpatori da combattere, in un contesto socioeconomico incerto in cui l’assenza di una ripresa forte e l’indebolimento costante dei legami sociali decretano l’impossibilità che ci siano spazio, lavoro e diritti per tutti (Spina 2016). Prende forma così una gestione securitaria e tecnocratica dei confini, costruita sulla lotta allo straniero, in difesa del territorio europeo (Musarò 2019), in cui anche la democrazia e il rispetto dei diritti umani vengono subordinati alla logica del controllo (Cebeci-Schumacher 2016). In un tale contesto politico, tuttavia, alternative possibili esistono e si manifestano nello spazio della società civile. A partire dal 2014 con le attività di Search and Rescue (SAR) nel Mediterraneo centrale da parte delle Organizzazioni Non Governative (ONG) e poi nel 2015 con l’avvio del progetto dei corridoi umanitari, promosso dalla Federazione delle Chiese Evangeliche Italiane (FCEI) insieme con la Tavola Valdese e la Comunità di S. Egidio, si assiste alla nascita di nuove forme di solidarietà dal basso, in cui il riconoscimento dell’altro diventa l’elemento fondamentale su cui costruire relazioni orientate all’accoglienza, in un’ottica di solidarietà. Se il riconoscimento, infatti, come suggerisce Butler, dipende anche e soprattutto dall’esistenza di un framework normativo che permetta e offra la possibilità di riconoscere l’altro nella sua diversità (Butler 2001), in una contemporaneità sempre più razionale e disgregata, in cui sembra scomparire lo slancio verso i legami sociali sopraffatti da derive individualistiche, tali iniziative costituiscono tale framework normativo che, superando quelle pratiche escludenti, dimostra che c’è ancora spazio per la solidarietà attraverso relazioni in cui si fanno propri i desideri e i bisogni dell’altro e ci si attiva per soddisfarli in un’ottica di reciprocità (Licursi 2010). Seppur in maniera diversa, sia l’attività di salvataggio in mare che l’iniziativa dei corridoi umanitari, infatti, aprono un varco che consente uno sguardo finalmente altro sulla questione migratoria, sollevando riflessioni circa la necessità e la possibilità di costruire una società diversa proprio a partire dall’incontro con lo straniero. Già Simmel, d’altronde, tra i classici della sociologia, aveva individuato il potenziale trasformativo dello straniero nella misura in cui egli costringe la società a ridefinirsi incessantemente. Egli pone continuamente al gruppo sociale il problema della propria collocazione e della propria integrazione, mettendo in gioco le categorie dell’inclusione e dell’esclusione (De Simone 2016). Se la condizione essenziale perché l’umanità abbia un futuro è che ogni essere umano sia inserito nella struttura dinamica della società (De Simone 2016) e se è vero che - rifacendoci nuovamente al pensiero sociologico di Simmel - la società può essere compresa solo se pensata come relazione, la natura relazionale del sociale è allora una natura in cui si è nella misura in cui si è con l’altro (Licursi, 2010). Ne consegue che il problema del rapporto con lo straniero non è più contingenza storico-politica, ma piuttosto condizione costante e continua in cui si trova ogni gruppo sociale che vive e si evolve attraverso la continua affermazione della propria identità (De Simone 2016). Il passaggio all’altro, infatti, è alla base della nostra esistenza quotidiana: ciascuno si vede nell’altro (De Simone 2016) e non esiste soggettività se non in quanto risposta all’altro (Licursi 2010). Come fa notare Butler, citando Cavarero, infatti, siamo necessariamente esposti all’altro e la politica consiste, in parte, proprio nell’imparare ad affrontare questa costante e necessaria esposizione (Butler 2001). Nell’impossibilità, dunque, di pensare l’esistenza sociale senza l’alterità, è necessario ripensare modelli di convivenza diversi, in cui al conflitto e all’esclusione si sostituisca la costruzione: «di un campo di relazioni in cui possano intersecarsi, per quanto faticosamente e sempre in modo instabile, il senso acuto di sé stessi e la generosità reciproca, vale a dire l’interesse per sé e l’interesse per gli altri» (Spina 2016: 4), nel tentativo di rafforzare e intensificare i legami sociali necessari all’esistenza della società stessa e al consolidamento di una dimensione pubblica e morale della comunità (Tota 2016). E’ proprio in questo che risiede l’importanza sociologica tanto dell’azione solidale nel Mediterraneo centrale quanto del progetto dei corridoi umanitari, nella possibilità cioè che tali iniziative offrono di ripensare il rapporto con lo straniero attraverso meccanismi alternativi che superino l’approccio razionale del paradigma securitario e del controllo, per mettere in atto azioni di solidarietà, che rimettano al centro il migrante e la sua soggettività in un’ottica di riconoscimento e reciprocità. In tal senso, pur in maniera diversa, tanto il sistema di SAR messo in atto dalle ONG nel mar Mediterraneo centrale, quanto la garanzia di un arrivo sicuro e legale, affiancato dalla possibilità di un’integrazione dal basso all’interno del tessuto sociale ospitante, rimettono al centro la capacità di azione dei migranti, cercando di colmare il divario tra le categorie del “noi” e “loro” attraverso una rivalutazione del ruolo cruciale che essi giocano anche nel mettere in discussione le strutture di governance esistenti (Musarò 2016). In particolar modo, soccorrere le persone in mare acquista, in senso sociologico, un valore simbolico in quanto significa ribaltare la posizione di sudditanza delle vittime indifese, valorizzando la capacità di azione delle persone migranti e sostenendole nella sfida che esse pongono al regime di confine europeo (Stierl 2017), sostenendo così il loro diritto di affermare tanto la propria capacità di azione quanto la propria identità politica e sociale, nell’ottica di poter scegliere il proprio destino (Dadusc-Mudu 2020). Inoltre, la componente fortemente politica che caratterizza le azioni SAR di alcune ONG nel mediterraneo centrale, in netta rottura con le politiche migratorie europee, offre nuove modalità di concettualizzare e comprendere le migrazioni e i confini, superando la logica dell’esclusione quale unica via nell’incontro con lo straniero. Seppur in maniera diversa, con alcuni limiti soprattutto legati al mancato superamento di quel meccanismo selettivo che rischia, inevitabilmente, di creare dei canali privilegiati della mobilità (Trotta 2017), riproducendo in qualche modo un’inclusione gerarchizzata, istituire corridoi umanitari che permettano l’arrivo legale e sicuro dei richiedenti asilo, significa però anche riflettere sulla migrazione in termini di possibilità. In tal senso, le modalità di integrazione previste all’interno del progetto dei corridoi umanitari, caratterizzate da un aiuto volto all’autonomia e non all’assistenza, e basate sul coinvolgimento e sul contatto diretto del migrante con la società ospitante, si pongono come nuove modalità relazionali in cui il migrante riconosce e viene riconosciuto all’interno di una società che non lo emargina ma lo accoglie come soggetto autonomo e indipendente, in un’ottica di reciprocità che vede tra gli elementi cruciali, l’attivazione della società civile (Garofalo 2017). In tal senso, i processi di attivazione di capitali sociali avviati dalla società civile nel quadro dei corridoi umanitari, acquistano un fortissimo valore sociologico – ma anche politico – in quanto seppur in maniera diversa dall’azione solidale in mare, anch’essi si inseriscono negli interstizi dei confini, nel tentativo di rompere azioni di separazione e agevolare pratiche di unione (Garofalo 2017). Volgendo dal particolare al generale, l’importanza sociologica di tali pratiche di solidarietà risiede non solo nel cambiamento di prospettiva sulle migrazioni che esse offrono ma anche sulla loro capacità di riaprire il ciclo del dono nella società, ripensando quest’ultima attraverso la costruzione di legami sociali piuttosto che in termini di conflitto (Fistetti 2016). È un gesto, quello del dono, che presuppone un salto al di fuori della razionalità utilitaristica (Fistetti 2016) superando tanto l’individualismo metodologico weberiano – per cui l’azione sociale è comprensibile solo postulando che essa è, se non necessariamente egoista, quantomeno interessata e razionale (Caillé 1998) – quanto l’olismo durkheimiano per cui la totalità sociale preesiste agli individui, per abbracciare quel terzo paradigma del dono di cui parla Caillé, riconoscendo che nell’azione sociale c’è altro oltre il calcolo e l’interesse (Caillé 1998). Il dono, in tal senso, si trova al cuore di quella terza rete dei beni e servizi che Caillé definisce la rete della socialità, in cui i beni sono messi al servizio della creazione e del consolidamento del legame sociale acquisendo così non tanto un valore d’uso né un valore di scambio quanto, piuttosto, un valore di legame (Caillè 1998). Se nello Stato e nel mercato i beni devono circolare tra soggettività astratte, prescindendo dalle concrete relazioni personali ed evitando per quanto possibile di crearne (Dei 2018), è nel dono che le società diventano umane, in quel saper soddisfare l’interesse proprio solo passando per la soddisfazione dell’interesse degli altri (Caillè 1998). È dunque in questo terzo paradigma (Caillé 1998), che si inscrivono le pratiche sociali e politiche di solidarietà messe in atto dalla società civile nell’ambito delle migrazioni, quali forme di resistenza contro la costituzione formalizzata delle relazioni umane veicolata tanto dall’economia di mercato quanto dallo Stato di diritto. Seppur in modalità diverse, la solidarietà messa in atto dalla società civile nel Mediterraneo centrale e quella attuata dal progetto dei corridoi umanitari, diventano simbolo di quella caparbietà di cui parla Godbout (Dei 2018) che permette di continuare ad agire e stabilire legami sociali non fondati sulla rottura, comunicando con gli altri senza passare per i sistemi previsti, ripensando così la migrazione a partire dai legami sociali (Dei 2018). Negli scenari contemporanei della globalizzazione, che destrutturano e dilatano lo spazio oltre i confini, la questione dell’esistenza e della convivenza con l’altro acquista un’importanza fondamentale non solo nel cambiamento di prospettiva rispetto alle migrazioni ma anche nel ripensamento generale della società. I confini fisici nazionali, infatti, diventano al contempo confini cognitivi, emotivi, valoriali di opportunità di scelta e di vita in cui la capacità e la qualità della co-esistenza tra esseri umani (Simon 2006) si pongono quali elementi fondamentali per la sopravvivenza della società stessa. In tal senso, le pratiche di solidarietà messe in atto dalle ONG nel Mediterraneo centrale e quelle attuate dal progetto dei corridoi umanitari, per quanto diverse tra loro, convergono tuttavia nel loro significato simbolico e nella loro importanza sociologica, e possono essere lette all’interno del framework teorico del dono nella misura in cui esse costituiscono tentativi di ripensare le migrazioni e il rapporto con l’alterità in termini di legami sociali, valorizzando il senso etico dell’incontro con l’altro oltre la chiusura e il risentimento politico, sociale e culturale (Spina 2016).

Società civile e nuove forme di solidarietà. Per una sociologia del dono nelle migrazioni / Blasetti, Eugenia. - (2021). (Intervento presentato al convegno V CONFERENZA NAZIONALE DELLE DOTTORANDE E DEI DOTTORANDI IN SCIENZE SOCIALI tenutosi a Online; Italia).

Società civile e nuove forme di solidarietà. Per una sociologia del dono nelle migrazioni

Eugenia Blasetti
Primo
2021

Abstract

Parallelamente alla costruzione politica dell’area Schengen, caratterizzata dall’abolizione delle frontiere interne dell’Unione Europea, è avvenuta, negli anni, una profonda ridefinizione dei confini esterni europei in termini di sicurezza e controllo (Campesi 2015; Ciabarri 2020). All’apertura dello spazio interno dell’Unione è corrisposta, infatti, una profonda chiusura verso l’esterno messa in atto attraverso una politica migratoria basata sul paradigma del controllo (Irrera 2016) e sullo sviluppo di strategie politiche volte a escludere alcune categorie di persone (Huysmans 2000) attraverso un generale riassetto delle politiche e delle pratiche di controllo delle frontiere esterne. I confini, intesi come garanti della sicurezza, sono diventati essi stessi sistemi di regole fondati su processi di differenziazione e selettività (Mau et al. 2012) diventando socialmente e politicamente intrinsechi alla vita quotidiana, influenzando persone e luoghi in modo diseguale (Popescu 2021). La gestione europea del fenomeno migratorio, né dichiaratamente governativa né prevalentemente sopranazionale (Caviedes 2016), fortemente ancorata a processi di securitizzazione e a una conseguente gestione “poliziesca” dei confini, appare ancora oggi, frammentata e destrutturata e assume un costante carattere emergenziale in cui il controllo sembra essere l’unico strumento a disposizione della politica. La questione migratoria e il dibattito che ne consegue, si riducono ai tecnicismi attraverso cui governare i flussi migratori sulla base di strategie politiche che rispondono solo alla logica immunitaria dell’esclusione, in cui la migrazione figura come devianza da arginare, anomalia da abolire (Di Cesare 2017). La sicurezza diventa priorità nella formulazione delle politiche migratorie, e il gesto dell’ospitalità diventa per i cittadini europei un peso non più tollerabile (Spina 2016). I migranti sono usurpatori da combattere, in un contesto socioeconomico incerto in cui l’assenza di una ripresa forte e l’indebolimento costante dei legami sociali decretano l’impossibilità che ci siano spazio, lavoro e diritti per tutti (Spina 2016). Prende forma così una gestione securitaria e tecnocratica dei confini, costruita sulla lotta allo straniero, in difesa del territorio europeo (Musarò 2019), in cui anche la democrazia e il rispetto dei diritti umani vengono subordinati alla logica del controllo (Cebeci-Schumacher 2016). In un tale contesto politico, tuttavia, alternative possibili esistono e si manifestano nello spazio della società civile. A partire dal 2014 con le attività di Search and Rescue (SAR) nel Mediterraneo centrale da parte delle Organizzazioni Non Governative (ONG) e poi nel 2015 con l’avvio del progetto dei corridoi umanitari, promosso dalla Federazione delle Chiese Evangeliche Italiane (FCEI) insieme con la Tavola Valdese e la Comunità di S. Egidio, si assiste alla nascita di nuove forme di solidarietà dal basso, in cui il riconoscimento dell’altro diventa l’elemento fondamentale su cui costruire relazioni orientate all’accoglienza, in un’ottica di solidarietà. Se il riconoscimento, infatti, come suggerisce Butler, dipende anche e soprattutto dall’esistenza di un framework normativo che permetta e offra la possibilità di riconoscere l’altro nella sua diversità (Butler 2001), in una contemporaneità sempre più razionale e disgregata, in cui sembra scomparire lo slancio verso i legami sociali sopraffatti da derive individualistiche, tali iniziative costituiscono tale framework normativo che, superando quelle pratiche escludenti, dimostra che c’è ancora spazio per la solidarietà attraverso relazioni in cui si fanno propri i desideri e i bisogni dell’altro e ci si attiva per soddisfarli in un’ottica di reciprocità (Licursi 2010). Seppur in maniera diversa, sia l’attività di salvataggio in mare che l’iniziativa dei corridoi umanitari, infatti, aprono un varco che consente uno sguardo finalmente altro sulla questione migratoria, sollevando riflessioni circa la necessità e la possibilità di costruire una società diversa proprio a partire dall’incontro con lo straniero. Già Simmel, d’altronde, tra i classici della sociologia, aveva individuato il potenziale trasformativo dello straniero nella misura in cui egli costringe la società a ridefinirsi incessantemente. Egli pone continuamente al gruppo sociale il problema della propria collocazione e della propria integrazione, mettendo in gioco le categorie dell’inclusione e dell’esclusione (De Simone 2016). Se la condizione essenziale perché l’umanità abbia un futuro è che ogni essere umano sia inserito nella struttura dinamica della società (De Simone 2016) e se è vero che - rifacendoci nuovamente al pensiero sociologico di Simmel - la società può essere compresa solo se pensata come relazione, la natura relazionale del sociale è allora una natura in cui si è nella misura in cui si è con l’altro (Licursi, 2010). Ne consegue che il problema del rapporto con lo straniero non è più contingenza storico-politica, ma piuttosto condizione costante e continua in cui si trova ogni gruppo sociale che vive e si evolve attraverso la continua affermazione della propria identità (De Simone 2016). Il passaggio all’altro, infatti, è alla base della nostra esistenza quotidiana: ciascuno si vede nell’altro (De Simone 2016) e non esiste soggettività se non in quanto risposta all’altro (Licursi 2010). Come fa notare Butler, citando Cavarero, infatti, siamo necessariamente esposti all’altro e la politica consiste, in parte, proprio nell’imparare ad affrontare questa costante e necessaria esposizione (Butler 2001). Nell’impossibilità, dunque, di pensare l’esistenza sociale senza l’alterità, è necessario ripensare modelli di convivenza diversi, in cui al conflitto e all’esclusione si sostituisca la costruzione: «di un campo di relazioni in cui possano intersecarsi, per quanto faticosamente e sempre in modo instabile, il senso acuto di sé stessi e la generosità reciproca, vale a dire l’interesse per sé e l’interesse per gli altri» (Spina 2016: 4), nel tentativo di rafforzare e intensificare i legami sociali necessari all’esistenza della società stessa e al consolidamento di una dimensione pubblica e morale della comunità (Tota 2016). E’ proprio in questo che risiede l’importanza sociologica tanto dell’azione solidale nel Mediterraneo centrale quanto del progetto dei corridoi umanitari, nella possibilità cioè che tali iniziative offrono di ripensare il rapporto con lo straniero attraverso meccanismi alternativi che superino l’approccio razionale del paradigma securitario e del controllo, per mettere in atto azioni di solidarietà, che rimettano al centro il migrante e la sua soggettività in un’ottica di riconoscimento e reciprocità. In tal senso, pur in maniera diversa, tanto il sistema di SAR messo in atto dalle ONG nel mar Mediterraneo centrale, quanto la garanzia di un arrivo sicuro e legale, affiancato dalla possibilità di un’integrazione dal basso all’interno del tessuto sociale ospitante, rimettono al centro la capacità di azione dei migranti, cercando di colmare il divario tra le categorie del “noi” e “loro” attraverso una rivalutazione del ruolo cruciale che essi giocano anche nel mettere in discussione le strutture di governance esistenti (Musarò 2016). In particolar modo, soccorrere le persone in mare acquista, in senso sociologico, un valore simbolico in quanto significa ribaltare la posizione di sudditanza delle vittime indifese, valorizzando la capacità di azione delle persone migranti e sostenendole nella sfida che esse pongono al regime di confine europeo (Stierl 2017), sostenendo così il loro diritto di affermare tanto la propria capacità di azione quanto la propria identità politica e sociale, nell’ottica di poter scegliere il proprio destino (Dadusc-Mudu 2020). Inoltre, la componente fortemente politica che caratterizza le azioni SAR di alcune ONG nel mediterraneo centrale, in netta rottura con le politiche migratorie europee, offre nuove modalità di concettualizzare e comprendere le migrazioni e i confini, superando la logica dell’esclusione quale unica via nell’incontro con lo straniero. Seppur in maniera diversa, con alcuni limiti soprattutto legati al mancato superamento di quel meccanismo selettivo che rischia, inevitabilmente, di creare dei canali privilegiati della mobilità (Trotta 2017), riproducendo in qualche modo un’inclusione gerarchizzata, istituire corridoi umanitari che permettano l’arrivo legale e sicuro dei richiedenti asilo, significa però anche riflettere sulla migrazione in termini di possibilità. In tal senso, le modalità di integrazione previste all’interno del progetto dei corridoi umanitari, caratterizzate da un aiuto volto all’autonomia e non all’assistenza, e basate sul coinvolgimento e sul contatto diretto del migrante con la società ospitante, si pongono come nuove modalità relazionali in cui il migrante riconosce e viene riconosciuto all’interno di una società che non lo emargina ma lo accoglie come soggetto autonomo e indipendente, in un’ottica di reciprocità che vede tra gli elementi cruciali, l’attivazione della società civile (Garofalo 2017). In tal senso, i processi di attivazione di capitali sociali avviati dalla società civile nel quadro dei corridoi umanitari, acquistano un fortissimo valore sociologico – ma anche politico – in quanto seppur in maniera diversa dall’azione solidale in mare, anch’essi si inseriscono negli interstizi dei confini, nel tentativo di rompere azioni di separazione e agevolare pratiche di unione (Garofalo 2017). Volgendo dal particolare al generale, l’importanza sociologica di tali pratiche di solidarietà risiede non solo nel cambiamento di prospettiva sulle migrazioni che esse offrono ma anche sulla loro capacità di riaprire il ciclo del dono nella società, ripensando quest’ultima attraverso la costruzione di legami sociali piuttosto che in termini di conflitto (Fistetti 2016). È un gesto, quello del dono, che presuppone un salto al di fuori della razionalità utilitaristica (Fistetti 2016) superando tanto l’individualismo metodologico weberiano – per cui l’azione sociale è comprensibile solo postulando che essa è, se non necessariamente egoista, quantomeno interessata e razionale (Caillé 1998) – quanto l’olismo durkheimiano per cui la totalità sociale preesiste agli individui, per abbracciare quel terzo paradigma del dono di cui parla Caillé, riconoscendo che nell’azione sociale c’è altro oltre il calcolo e l’interesse (Caillé 1998). Il dono, in tal senso, si trova al cuore di quella terza rete dei beni e servizi che Caillé definisce la rete della socialità, in cui i beni sono messi al servizio della creazione e del consolidamento del legame sociale acquisendo così non tanto un valore d’uso né un valore di scambio quanto, piuttosto, un valore di legame (Caillè 1998). Se nello Stato e nel mercato i beni devono circolare tra soggettività astratte, prescindendo dalle concrete relazioni personali ed evitando per quanto possibile di crearne (Dei 2018), è nel dono che le società diventano umane, in quel saper soddisfare l’interesse proprio solo passando per la soddisfazione dell’interesse degli altri (Caillè 1998). È dunque in questo terzo paradigma (Caillé 1998), che si inscrivono le pratiche sociali e politiche di solidarietà messe in atto dalla società civile nell’ambito delle migrazioni, quali forme di resistenza contro la costituzione formalizzata delle relazioni umane veicolata tanto dall’economia di mercato quanto dallo Stato di diritto. Seppur in modalità diverse, la solidarietà messa in atto dalla società civile nel Mediterraneo centrale e quella attuata dal progetto dei corridoi umanitari, diventano simbolo di quella caparbietà di cui parla Godbout (Dei 2018) che permette di continuare ad agire e stabilire legami sociali non fondati sulla rottura, comunicando con gli altri senza passare per i sistemi previsti, ripensando così la migrazione a partire dai legami sociali (Dei 2018). Negli scenari contemporanei della globalizzazione, che destrutturano e dilatano lo spazio oltre i confini, la questione dell’esistenza e della convivenza con l’altro acquista un’importanza fondamentale non solo nel cambiamento di prospettiva rispetto alle migrazioni ma anche nel ripensamento generale della società. I confini fisici nazionali, infatti, diventano al contempo confini cognitivi, emotivi, valoriali di opportunità di scelta e di vita in cui la capacità e la qualità della co-esistenza tra esseri umani (Simon 2006) si pongono quali elementi fondamentali per la sopravvivenza della società stessa. In tal senso, le pratiche di solidarietà messe in atto dalle ONG nel Mediterraneo centrale e quelle attuate dal progetto dei corridoi umanitari, per quanto diverse tra loro, convergono tuttavia nel loro significato simbolico e nella loro importanza sociologica, e possono essere lette all’interno del framework teorico del dono nella misura in cui esse costituiscono tentativi di ripensare le migrazioni e il rapporto con l’alterità in termini di legami sociali, valorizzando il senso etico dell’incontro con l’altro oltre la chiusura e il risentimento politico, sociale e culturale (Spina 2016).
2021
V CONFERENZA NAZIONALE DELLE DOTTORANDE E DEI DOTTORANDI IN SCIENZE SOCIALI
migrazioni; politiche migratorie europee; società civile; sociologia del dono
04 Pubblicazione in atti di convegno::04b Atto di convegno in volume
Società civile e nuove forme di solidarietà. Per una sociologia del dono nelle migrazioni / Blasetti, Eugenia. - (2021). (Intervento presentato al convegno V CONFERENZA NAZIONALE DELLE DOTTORANDE E DEI DOTTORANDI IN SCIENZE SOCIALI tenutosi a Online; Italia).
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