La tesi generale da cui sono partita è che la danza non deve essere considerata solo come un’attività ristretta ad uno specifico ambito professionale, ma che alcuni suoi tratti riguardino ogni essere umano: movimento, gesto, spazio, tempo, ritmo e peso sono chiavi di lettura dell’esperienza del nostro modo di sentire la vita, del nostro poter ricevere impressioni, apprendere il mondo circostante, subire e produrre mutamenti. È l'idea, per usare un'espressione che evidenzi la sua dimensione fondante, della danza come "pratica non speciale": essa ci mostra in modo intensificato e amplificato alcuni aspetti del nostro essere ed avere un corpo in movimento. Non considero la danza come oggetto di studio, così come non considero il corpo un oggetto di conoscenza. Mi sono domandata, in primo luogo, come fare per comprendere il corpo senza correre il rischio di convertirlo in oggetto (di studio, di disprezzo o di culto) o strumento (dell'azione, della manipolazione socio-politica, di una tecnica coreutica astratta) e ho trovato una prima pista nella domanda "cosa ci mostra la danza della nostra corporeità?". Nel 1° Capitolo, intitolato "La “piccola danza” quotidiana. L’esperienza del corpo", dopo aver riassunto brevemente il processo di riflessione interna ad alcune discipline (psicologia cognitiva, fisiologia e neurologia) che ha portato gli stessi studiosi da un approccio alla consapevolezza corporea vista come rappresentazione "oggettiva" ad un progressivo riconoscimento dell'impossibilità di oggettivare quel qualcosa che noi chiamiamo "esperienza del corpo", ho indagato la dimensione del sentire ed essere consapevoli del proprio corpo, che comprende i vari aspetti della propriocezione, dello schema corporeo, della memoria somatica, dell’intelligenza senso-motoria e tutti i tipi di consapevolezza non intellettuale dell’esperienza di essere umani. In particolare ho parlato del già citato concetto di “cinestesia”, il “sentire di muoversi”, cioè la capacità di sentire i movimenti del proprio corpo nei muscoli, nelle articolazioni, nell’apparato scheletrico, a volte persino nei nervi e negli organi interni. La capacità, in breve, di comprendere e gestire l’esperienza motoria del nostro corpo. Oltre agli spunti tratti dalle discipline citate, e quelli provenienti da studi specifici delle neuroscienze e della recente psicologia cognitiva su aspetti cinestetici e sull'inconscio corporeo, le riflessioni della psicoanalisi eterodossa di Wilhelm Reich e Alexander Lowen, in questo percorso del primo capitolo è stato fondamentale l'approccio alla corporeità, al movimento e alla spazialità di Merleau-Ponty e di Michel Bernard, la prospettiva transizionale/paradossale di Donald Winnicott, gli studi sull'improvvisazione e le riflessioni di Steve Paxton. Altro aspetto importante che ho cercato di far emergere è l’importanza dell’imitazione cinestesica, intesa non come “scimmiottamento” superficiale di gesti e forme esteriori, ma come complesso processo di apprendimento e trasmissione di un sapere corporeo, che è condizione ontogenetica di possibilità di ogni ulteriore apprendimento di natura linguistica o intellettuale, nonché di ogni agire in vista di uno scopo, e che viene esperito, espresso ed esibito in modo intensificato quando si danza. La mímesis cinestetica, così intesa, è un altro filo conduttore trasversale di tutti i capitoli. La danza ci mostra, in prima istanza, che il nostro corpo quando è in movimento è capace di produrre senso e anche significati, non linguistici, che dunque il corpo è capace di pensiero, è intelligente, di una intelligenza prevalentemente senso-motoria/cinestetica. Un primo risultato di questo lavoro è, dunque, che, grazie all’intensificazione che la consapevolezza corporeo-cinestetica subisce nella danza, ci rendiamo conto che il corpo non è puro esecutore di “ordini” mentali, ma è esso stesso un dispositivo organizzante-interpretante, e il suo organizzare il sensibile è una forma di pensiero, non verbale e non direttamente verbalizzabile, ed è correlato ad una apertura di senso. Questa dimensione di apertura di uno spazio di senso della corporeità, caratterizzato da una reversibilità tra dentro e fuori, tra la realtà interna e quella esterna, tra percipiente e percepito, tra agire e patire, è legata a quella dei fenomeni e degli oggetti transizionali, studiati da Winnicott, in particolare, al concetto di “spazio potenziale”, che separa e unisce allo stesso tempo, lo spazio della “prima illusione”, che dà il via alla vita immaginativa ed espressiva dell’infante e poi dell’adulto. La sapienza corporeo/cinestesica, in questo senso, è una delle condizioni di possibilità dell’entrare in una dimensione creativa. Lo spazio transizionale è, infatti, allo stesso tempo, lo spazio del “giocare”, di un’esperienza cioè priva di particolari scopi e che rende possibile il “rilassarsi”, quello stato di riposo (di parziale non controllo o controllo flessibile) da cui può scaturire un atteggiamento creativo. Ho descritto poi come nel processo creativo della danza, in particolare nell'improvvisazione, sia proprio il recupero, la riattivazione e riconfigurazione della memoria corporea e dell’imitazione cinestetica a permettere il sorgere del nuovo, della sorpresa, del gesto inaspettato. Nel corso delle ricerche incluse in questo capitolo è avvenuto, per me, lo spostamento dal cercare di comprendere, attraverso la danza, il processo creativo, peraltro molto studiato in generale, all'evidenza della creatività sorgiva della natura umana, creatività che è nel e del corpo sensibile e consapevole e che è esibita dalla danza. Altro modo di comprendere l'esemplarità della danza e altra chiave di lettura di questo lavoro è pertanto che la danza ci mostra non solo che la nostra corporeità è intelligente, ma che il suo muoversi e sentire di muoversi è all'origine di ogni intelligenza e che questa intelligenza è creatività. E tutto questo ha richiesto un approfondimento filogenetico delle "origini" (con tutte le cautele che l'uso di questo termine necessita) della danza. Nel 2° capitolo, dal titolo "Danza e risonanza. L’esperienza mimetica del corpo che danza", ho pertanto rivolto lo sguardo a cosa significava la danza in quelle civiltà in cui essa possedeva una funzione vitale e riconosciuta dall’intera comunità, con lo scopo di individuare quali aspetti dell’esperienza umana e comunitaria essa incarnava. In questo mi sono avvalsa dell'apporto di diverse discipline che studiano le "origini", come l'etnologia, l'antropologia, la paleontologia, la storia delle religioni, in particolare orientali, la storia della danza, ma anche della riflessione di Platone, di Marcel Jousse, di Marcel Mauss, di Walter Benjamin, di Rudolf von Laban, di Irmgard Bartenieff, di Judith Kestemberg, della psicologia della Gestalt, di Daniel Stern, di Mary Stark Whitehouse. Proprio la capacità amplia di imitazione cinestesica, di “rendersi simili a”, di cui ho parlato nel 1° Capitolo, di cui oggi forse sperimentiamo una forma diminuita, addormentata, o forse trasformata e parzialmente migrata altrove, sembra essere alla base della fioritura precoce della danza in ogni civiltà e dell’importanza e centralità che essa aveva. E la sua trasformazione e/o migrazione sembra essere all’origine della precoce perdita di esemplarità della danza, rispetto alle altre arti. La danza, notano infatti etnomusicologi, antropologi e storici della danza, fiorisce precocemente in tutte le civiltà. Alle origini essa è una delle attività più serie ed importanti, ma in seguito viene gradualmente relegata ad un ambito più ristretto, fino a perdere quasi del tutto il suo carattere di attività donatrice di senso. Nelle civiltà che precedettero l’affermarsi della scrittura come mezzo di acquisizione, elaborazione e trasmissione del sapere la danza rappresentava un’esperienza determinante nella vita della comunità. In un lento processo storico, che non riguarda solo la danza, ma coinvolge tutte quelle attività che oggi chiamiamo “arte”, in occidente la danza è diventata ciò che possiamo chiamare “danza teatrale occidentale”, attività altamente specializzata concepita e strutturata per essere rappresentata di fronte ad un pubblico spettatore passivo, il quale, se proprio desidera “divertirsi”, può andare a ballare il sabato sera. Essa ha dunque perso quel ruolo privilegiato che aveva nelle civiltà basate sull’oralità, di costituire il modo primario per esprimere tutto ciò che contava. La tesi generale che sostengo in questo capitolo, in continuità con quanto detto nel precedente, è che l'imitazione cinestetica non è da intendersi come una specifica capacità di imitazione esteriore di gesti e movimenti, ma come il modo primario, non concettuale, mimetico, appunto, in cui ci rapportiamo all’altro, inteso sia come ambiente naturale sia come collettività umana. E che essa sia dunque un aspetto, forse il principale, sicuramente il più originario, di quella capacità mimetica o mímesis, principio filosofico-antropologico dell’esperire e agire umani, descritto da Platone ed Aristotele, e che ricorre in tutta la storia della filosofia, ampiamente usato in numerose altre discipline con significati e sfumature così ampi che è impossibile fare a tale proposito un discorso generale. Detto in altri termini, la tesi è che la mímesis all’origine (ontogenetica e filogenetica) sia cinestetica ed che sia dunque un altro nome, o la categoria più ampia, di quella che nel primo capitolo è stato denominato schema corporeo, praktognosia, spazio corporeo, intelligenza corporea, corpo-pensiero, thinking body. Sostengo, poi, che tale dono della nostra corporeità, sia di scorgere/sentire le somiglianze in natura, sia di produrle, abbia, allo stesso tempo, una dimensione di trascendenza rispetto ai limiti di ciò che di solito chiamiamo “io”. Si tratta di quella che viene definita “corporeità estatica”. La corporeità, come si è già affermato nel 1° capitolo e come si vedrà ancora in seguito, nella sua essenza, è sempre estatica. La dimensione estatica o di trascendenza, sempre parziale, rispetto ai confini dell’ego è descrivibile come risonanza cinestetica, come empatia, come mímesis, capacità di mimare la natura mediante il proprio corpo, di produrre in esso e con esso somiglianze. Le riflessioni sul contesto, sul ruolo e sulle modalità della danza delle origini faranno anche emergere lo stretto collegamento tra la dimensione cinestetico/mimetica e l’archetipo femminile, presente in tutti gli esseri umani, ma oggi in occidente rimosso o degradato, magistralmente descritto soprattutto da Marjia Gimbutas, ma anche, secondo diverse prospettive, da Carl Gustav Jung, Johann J. Bachofen, Erich Neumann, Riane Eisler, Heidi Goettner-Abendroth, Luciana Percovich, solo per citarne alcuni. E, spero, apparirà chiaro, in seguito alle riflessioni sulla danza dei primordi, che la dimensione ecologica (sentirsi parte della natura), politica (sentirsi parte di una collettività) ed estatica (sentirsi parte di un “tutto”), presentavano alle origini un legame strettissimo, immanente alla corporeità. E che l’aver rimosso o degradato, nella civiltà occidentale, ormai estesa quasi all’intero mondo, la corporeità, la danza (nel senso profondo di esperienza antropologica originaria), il femminile, va di pari passo con una coscienza unilaterale ed egoica e con i disastri ecologici, le guerre, il razzismo, la discriminazione di genere e di età (infanti e vecchi), che mette a repentaglio la vita stessa della nostra e di molte altre specie viventi. Oggetto del 3° capitolo, il cui titolo è "Movimento immagine danza. La dimensione simbolica del corpo che danza" è, grazie alle riflessioni di Susanne Langer, Rudolf von Laban, Aby Warburg, Daniel Stern e Maxene Sheets-Johnstone, in generale, lo stretto legame tra il movimento consapevole, la memoria e le immagini interne, non solo visive, ma amodali o transmodali, come è già emerso dai diversi esempi presi in esame e dalle riflessioni condotte nei capitoli precedenti. E che sia questa stessa cooriginarietà a far emergere la dimensione simbolica della danza. Sembrerebbe, infatti, che al solo rivolgere l’attenzione o l’ascolto ad una parte del corpo, o al corpo intero (per chi ci riesce, dopo un lungo allenamento), accada qualcosa, un cambiamento dello stato di coscienza, che evoca e allo stesso tempo riconfigura l’archivio somatico-sensibile. La disciplina e la pratica dell’attenzione e dell’ascolto cinestetico aprono la strada della presenza, delle immagini interne, dell’integrazione tra sentire e pensare, tra dentro e fuori, tra io e mondo. È come se l’ascolto del corpo e del respiro risvegliasse le energie dormienti in noi, e, proprio come avviene quando i fisici, osservando l’elettrone, ne modificano la posizione, nel momento stesso in cui focalizziamo la nostra attenzione sul corpo, qualcosa cambia, le forze si allineano in maniera diversa. Questo tipo di attenzione non è dunque di tipo “oggettivo”, qualsiasi cosa ciò possa significare, ma è essa stessa parte del gioco. Questo accesso al corpo come campo di memoria e di immagini è comune a diverse discipline, ma nella danza, si potrebbe dire, è anche il modo in cui questo grande archivio cinestetico è rigiocato cinesteticamente in una "forma" e non tradotto in altri “codici”. In altre parole, se un movimento rivela sempre qualcosa di chi lo compie attraverso il “come” lo compie, è proprio questo stesso “come” a permettere la mímesis, che colloca il gesto in quello spazio potenziale in cui il gioco tra unione e separazione, tra identità e differenza si apre alla possibilità dell’immaginazione, del simbolo, della dimensione culturale stessa. E questo avviene “per la prima volta” ontogeneticamente e filogeneticamente in modo cinestetico, nella fase transizionale per l’infante, nella fase “primitiva” per l’umanità, come Daniel Stern, Susanne Langer e Aby Warburg, in modi diversi, molto efficacemente spiegano. Quando la danza diventa arte performativa, per coinvolgere il sentire dello spettatore passivo bisogna enfatizzare la figura modalmente, cioè canalizzare la sua forma rivolgendosi a sensi diversi, soprattutto alla vista e all’udito, e la figura si stacca dallo sfondo indifferenziato, fino, a volte e molto tempo dopo, a occultarlo del tutto, a presentarsi come pura figura. Il momento di passaggio si può cogliere, in modo embrionale, già nella fase della "magia", cioè quando nelle danze rituali si separa l'attività di danzare dai suoi "effetti", per esempio "curativi", quando la danza non è più solo puramente estatica, di comunione della comunità con la natura/Grande Madre, ma si concepisce una sorta di nesso di causalità, una separazione tra mezzi e fini, che, anche se molto diverso da quello della scienza moderna, introduce comunque un principio di causa-effetto e di temporalità lineare, un prima e un dopo. La dimensione simbolica non è dunque solo presente nella danza, e già questo sarebbe una conquista rispetto alle diffuse teorie che vedono la danza solo come autoespressione, ma nasce in essa e con essa. La riflessione sulla danza nelle civiltà orali ci mostra che la dimensione simbolica da essa inaugurata è il modo in cui l'umanità si orientava nel suo passaggio da un mondo "magico", come lo definisce Warburg, ad uno "logico", in un processo di progressivo allontanamento dalla fisicità del simbolo, verso l'astrazione e la separazione, in parallelo alla tragica rottura con la natura che l'essere umano ha operato nella modernità. Se riflettiamo sul passaggio dalla danza danzata dalla comunità intera a quella danzata da pochi e vista da altri, emergono almeno due questioni: quella della progressiva separazione tra la dimensione cinestetica e quella visiva, che condurrà poi alla prepotenza dello sguardo centrale, alla postura del controllo e del potere e quella, strettamente collegata, dell'incapacità di questo stesso sguardo solo visivo e centrale di vedere/sentire la dimensione temporale della danza, visto che, dopo un lungo processo, la danza è diventata un'arte rivolta prevalentemente alla vista. Se, invece di fermarci alla considerazione della dimensione visivo/spaziale, consideriamo la danza da un punto di vista anche temporale ed energetico, il movimento viene apprezzato nei sui aspetti dinamici o "qualitativi", la cui individuazione e definizione, sulla base di un filo rosso che lega Laban, Langer, Stern e Sheets-Johnstone, è un altro dei temi trasversali di questo lavoro. Nel 4° capitolo, intitolato "Anti-corpi, altri corpi. La danza come esempio di esercizio critico della corporeità", ho inteso porre la questione, di importanza vitale, di cosa ci mostri la danza oggi e di come quello che ci mostra appartenga a tutti noi e possiamo farne uso, che è uno dei motivi principali per cui ho voluto mettere per iscritto queste riflessioni. La danza ci mostra innanzi tutto che tutte/i abbiamo un corpo, e non è una cosa da poco, se intendiamo il corpo non come esecutore di ordini mentali ma come thinking body, come intelligenza corporea. Il valore di questa riflessione sull’esperienza del corpo che danza sta, in primo luogo, nella “scoperta” che ascoltare/sentire la nostra corporeità è già un esercizio critico. Anzi, è l’esercizio più profondamente critico, perché arriva laddove la parola e il pensiero, i principali strumenti critici della nostra civiltà, non arrivano. Il rifiuto teorico del concetto tradizionale di corpo, possibile grazie al guardare attraverso la danza, e tutti gli spostamenti filosofici che esso comporta, costituisce una sorta di protezione immunitaria contro la visione (solo visiva) dicotomica, un vero “anticorpo”, come dice Michel Bernard, nel doppio senso della parola, ai condizionamenti. E che sono possibili, grazie alla pratica e alla fruizione della danza, o meglio, del movimento consapevole e creativo, altri corpi. Uno dei temi del quarto capitolo è proprio quello degli "anticorpi" o altri corpi, pensati e agiti attraverso la danza e la pratica del gesto consapevole. Se, infatti, i condizionamenti sociali e culturali che passano attraverso la parola e le immagini sono stati oggetto di riflessione e, rispetto ad essi, sono stati elaborati strumenti critici, quelli che sono operati nei confronti dei corpi, per esempio attraverso le tecniche del corpo, sono più profondi, molto precoci, non verbali e non verbalizzabili, per cui più difficili da individuare in una cultura che concepisce l'esercizio critico soprattutto attraverso la parola. Per comprendere questi aspetti e altri limitrofi ho preso spunto da Michel Bernard, da Marcel Mauss, dalla biopolitica, da Ugo Volli, da Eugenio Barba. Da un punto di vista più strettamente filosofico, la riflessione segue, in questo capitolo, soprattutto alcuni testi di Alain Badiou e di Giorgio Agamben, Aby Warburg e Maxene Sheets-Johnstone, ma anche le pratiche del gesto di Virgilio Sieni, di Jérôme Bel, di Trisha Brown. Prendendo spunto dalle riflessioni di Alain Badiou, ho cercato di mostrare come la danza, che abbiamo visto essere il modo in cui ogni capacità simbolica nasce, possa riportarci ad una dimensione sorgiva in cui il corpo e il pensiero di cui è portatore sono inaugurali, quando i nomi non sono ancora assegnati e in cui è possibile darne di nuovi. Badiou considera, infatti, la danza come “evento prima del nome”, come arresto provvisorio dei “nomi” che diamo alle cose e quindi come possibilità di attribuirgliene altri. La danza è dunque molto distante dalla parola, non tanto perché esprime una dimensione istintuale e pre-linguistica del corpo, ma soprattutto perché ci mostra, in maniera radicale, come la dimensione linguistica configuri e strutturi la nostra realtà, spesso senza che ne siamo consapevoli. Abbiamo così i "corpi disobbedienti" della danza, che sottolineano la natura sottrattiva della danza, e del corpo che danza, un corpo, "anonimo" (letteralmente, prima di avere un nome), o meglio il corpo che nasce come corpo nell'istante in cui danza. Anche i "gesti sospesi", che disattivano o rendono inoperosi i dualismi, sono un altro modo di vedere la possibilità che la danza sia una pratica critica, proposto di Giorgio Agamben, la cui riflessione sul gesto è accompagnata dall'incontro con la danza, grazie alla collaborazione con Virgilio Sieni. Emerge così, in questo capitolo, in maniera più esplicita, ma è comunque uno dei livelli di lettura trasversali di questo lavoro, la dimensione politica della corporeità. Ho cercato di mostrare, anche grazie a qualche esempio concreto (Jérôme Bel, Trisha Brown, Virgilio Sieni) come sia possibile una pratica della consapevolezza dei corpi e degli spazi, in contesti comunitari, in relazione a dimensioni territoriali specifiche, in particolare in contesti urbani, quasi sempre fuori dall'ambito dello spettacolo (inteso qui come organizzazione industriale e commerciale delle rappresentazioni), ma comunque in una dimensione che possiamo in qualche modo definire estetica. Ho inoltre cercato di far emergere anche l'altra faccia della valenza "immunitaria" della danza, quella della possibilità di dare luogo ad altri corpi, sia dal punto di vista della danza performativa che, a partire dal secolo scorso ci ha mostrato una molteplicità di corpi possibili, sia, in senso più profondo, per mostrare come l'esercizio critico della pratica del corpo pensante, in tanto in quanto decodifica i condizionamenti, ci mostra la creatività sorgiva della natura (corporea) umana. La creatività, quindi, non è da vedersi solo come uno stile o una competenza che possiamo acquisire grazie ad una tecnica, ma come l'essenza stessa del nostro modo (cin-)estetico di stare al mondo.

Muoversi, sentire, immaginare. La danza come esercizio critico della corporeità / Donato, Simona. - (2021 Apr 29).

Muoversi, sentire, immaginare. La danza come esercizio critico della corporeità

DONATO, SIMONA
29/04/2021

Abstract

La tesi generale da cui sono partita è che la danza non deve essere considerata solo come un’attività ristretta ad uno specifico ambito professionale, ma che alcuni suoi tratti riguardino ogni essere umano: movimento, gesto, spazio, tempo, ritmo e peso sono chiavi di lettura dell’esperienza del nostro modo di sentire la vita, del nostro poter ricevere impressioni, apprendere il mondo circostante, subire e produrre mutamenti. È l'idea, per usare un'espressione che evidenzi la sua dimensione fondante, della danza come "pratica non speciale": essa ci mostra in modo intensificato e amplificato alcuni aspetti del nostro essere ed avere un corpo in movimento. Non considero la danza come oggetto di studio, così come non considero il corpo un oggetto di conoscenza. Mi sono domandata, in primo luogo, come fare per comprendere il corpo senza correre il rischio di convertirlo in oggetto (di studio, di disprezzo o di culto) o strumento (dell'azione, della manipolazione socio-politica, di una tecnica coreutica astratta) e ho trovato una prima pista nella domanda "cosa ci mostra la danza della nostra corporeità?". Nel 1° Capitolo, intitolato "La “piccola danza” quotidiana. L’esperienza del corpo", dopo aver riassunto brevemente il processo di riflessione interna ad alcune discipline (psicologia cognitiva, fisiologia e neurologia) che ha portato gli stessi studiosi da un approccio alla consapevolezza corporea vista come rappresentazione "oggettiva" ad un progressivo riconoscimento dell'impossibilità di oggettivare quel qualcosa che noi chiamiamo "esperienza del corpo", ho indagato la dimensione del sentire ed essere consapevoli del proprio corpo, che comprende i vari aspetti della propriocezione, dello schema corporeo, della memoria somatica, dell’intelligenza senso-motoria e tutti i tipi di consapevolezza non intellettuale dell’esperienza di essere umani. In particolare ho parlato del già citato concetto di “cinestesia”, il “sentire di muoversi”, cioè la capacità di sentire i movimenti del proprio corpo nei muscoli, nelle articolazioni, nell’apparato scheletrico, a volte persino nei nervi e negli organi interni. La capacità, in breve, di comprendere e gestire l’esperienza motoria del nostro corpo. Oltre agli spunti tratti dalle discipline citate, e quelli provenienti da studi specifici delle neuroscienze e della recente psicologia cognitiva su aspetti cinestetici e sull'inconscio corporeo, le riflessioni della psicoanalisi eterodossa di Wilhelm Reich e Alexander Lowen, in questo percorso del primo capitolo è stato fondamentale l'approccio alla corporeità, al movimento e alla spazialità di Merleau-Ponty e di Michel Bernard, la prospettiva transizionale/paradossale di Donald Winnicott, gli studi sull'improvvisazione e le riflessioni di Steve Paxton. Altro aspetto importante che ho cercato di far emergere è l’importanza dell’imitazione cinestesica, intesa non come “scimmiottamento” superficiale di gesti e forme esteriori, ma come complesso processo di apprendimento e trasmissione di un sapere corporeo, che è condizione ontogenetica di possibilità di ogni ulteriore apprendimento di natura linguistica o intellettuale, nonché di ogni agire in vista di uno scopo, e che viene esperito, espresso ed esibito in modo intensificato quando si danza. La mímesis cinestetica, così intesa, è un altro filo conduttore trasversale di tutti i capitoli. La danza ci mostra, in prima istanza, che il nostro corpo quando è in movimento è capace di produrre senso e anche significati, non linguistici, che dunque il corpo è capace di pensiero, è intelligente, di una intelligenza prevalentemente senso-motoria/cinestetica. Un primo risultato di questo lavoro è, dunque, che, grazie all’intensificazione che la consapevolezza corporeo-cinestetica subisce nella danza, ci rendiamo conto che il corpo non è puro esecutore di “ordini” mentali, ma è esso stesso un dispositivo organizzante-interpretante, e il suo organizzare il sensibile è una forma di pensiero, non verbale e non direttamente verbalizzabile, ed è correlato ad una apertura di senso. Questa dimensione di apertura di uno spazio di senso della corporeità, caratterizzato da una reversibilità tra dentro e fuori, tra la realtà interna e quella esterna, tra percipiente e percepito, tra agire e patire, è legata a quella dei fenomeni e degli oggetti transizionali, studiati da Winnicott, in particolare, al concetto di “spazio potenziale”, che separa e unisce allo stesso tempo, lo spazio della “prima illusione”, che dà il via alla vita immaginativa ed espressiva dell’infante e poi dell’adulto. La sapienza corporeo/cinestesica, in questo senso, è una delle condizioni di possibilità dell’entrare in una dimensione creativa. Lo spazio transizionale è, infatti, allo stesso tempo, lo spazio del “giocare”, di un’esperienza cioè priva di particolari scopi e che rende possibile il “rilassarsi”, quello stato di riposo (di parziale non controllo o controllo flessibile) da cui può scaturire un atteggiamento creativo. Ho descritto poi come nel processo creativo della danza, in particolare nell'improvvisazione, sia proprio il recupero, la riattivazione e riconfigurazione della memoria corporea e dell’imitazione cinestetica a permettere il sorgere del nuovo, della sorpresa, del gesto inaspettato. Nel corso delle ricerche incluse in questo capitolo è avvenuto, per me, lo spostamento dal cercare di comprendere, attraverso la danza, il processo creativo, peraltro molto studiato in generale, all'evidenza della creatività sorgiva della natura umana, creatività che è nel e del corpo sensibile e consapevole e che è esibita dalla danza. Altro modo di comprendere l'esemplarità della danza e altra chiave di lettura di questo lavoro è pertanto che la danza ci mostra non solo che la nostra corporeità è intelligente, ma che il suo muoversi e sentire di muoversi è all'origine di ogni intelligenza e che questa intelligenza è creatività. E tutto questo ha richiesto un approfondimento filogenetico delle "origini" (con tutte le cautele che l'uso di questo termine necessita) della danza. Nel 2° capitolo, dal titolo "Danza e risonanza. L’esperienza mimetica del corpo che danza", ho pertanto rivolto lo sguardo a cosa significava la danza in quelle civiltà in cui essa possedeva una funzione vitale e riconosciuta dall’intera comunità, con lo scopo di individuare quali aspetti dell’esperienza umana e comunitaria essa incarnava. In questo mi sono avvalsa dell'apporto di diverse discipline che studiano le "origini", come l'etnologia, l'antropologia, la paleontologia, la storia delle religioni, in particolare orientali, la storia della danza, ma anche della riflessione di Platone, di Marcel Jousse, di Marcel Mauss, di Walter Benjamin, di Rudolf von Laban, di Irmgard Bartenieff, di Judith Kestemberg, della psicologia della Gestalt, di Daniel Stern, di Mary Stark Whitehouse. Proprio la capacità amplia di imitazione cinestesica, di “rendersi simili a”, di cui ho parlato nel 1° Capitolo, di cui oggi forse sperimentiamo una forma diminuita, addormentata, o forse trasformata e parzialmente migrata altrove, sembra essere alla base della fioritura precoce della danza in ogni civiltà e dell’importanza e centralità che essa aveva. E la sua trasformazione e/o migrazione sembra essere all’origine della precoce perdita di esemplarità della danza, rispetto alle altre arti. La danza, notano infatti etnomusicologi, antropologi e storici della danza, fiorisce precocemente in tutte le civiltà. Alle origini essa è una delle attività più serie ed importanti, ma in seguito viene gradualmente relegata ad un ambito più ristretto, fino a perdere quasi del tutto il suo carattere di attività donatrice di senso. Nelle civiltà che precedettero l’affermarsi della scrittura come mezzo di acquisizione, elaborazione e trasmissione del sapere la danza rappresentava un’esperienza determinante nella vita della comunità. In un lento processo storico, che non riguarda solo la danza, ma coinvolge tutte quelle attività che oggi chiamiamo “arte”, in occidente la danza è diventata ciò che possiamo chiamare “danza teatrale occidentale”, attività altamente specializzata concepita e strutturata per essere rappresentata di fronte ad un pubblico spettatore passivo, il quale, se proprio desidera “divertirsi”, può andare a ballare il sabato sera. Essa ha dunque perso quel ruolo privilegiato che aveva nelle civiltà basate sull’oralità, di costituire il modo primario per esprimere tutto ciò che contava. La tesi generale che sostengo in questo capitolo, in continuità con quanto detto nel precedente, è che l'imitazione cinestetica non è da intendersi come una specifica capacità di imitazione esteriore di gesti e movimenti, ma come il modo primario, non concettuale, mimetico, appunto, in cui ci rapportiamo all’altro, inteso sia come ambiente naturale sia come collettività umana. E che essa sia dunque un aspetto, forse il principale, sicuramente il più originario, di quella capacità mimetica o mímesis, principio filosofico-antropologico dell’esperire e agire umani, descritto da Platone ed Aristotele, e che ricorre in tutta la storia della filosofia, ampiamente usato in numerose altre discipline con significati e sfumature così ampi che è impossibile fare a tale proposito un discorso generale. Detto in altri termini, la tesi è che la mímesis all’origine (ontogenetica e filogenetica) sia cinestetica ed che sia dunque un altro nome, o la categoria più ampia, di quella che nel primo capitolo è stato denominato schema corporeo, praktognosia, spazio corporeo, intelligenza corporea, corpo-pensiero, thinking body. Sostengo, poi, che tale dono della nostra corporeità, sia di scorgere/sentire le somiglianze in natura, sia di produrle, abbia, allo stesso tempo, una dimensione di trascendenza rispetto ai limiti di ciò che di solito chiamiamo “io”. Si tratta di quella che viene definita “corporeità estatica”. La corporeità, come si è già affermato nel 1° capitolo e come si vedrà ancora in seguito, nella sua essenza, è sempre estatica. La dimensione estatica o di trascendenza, sempre parziale, rispetto ai confini dell’ego è descrivibile come risonanza cinestetica, come empatia, come mímesis, capacità di mimare la natura mediante il proprio corpo, di produrre in esso e con esso somiglianze. Le riflessioni sul contesto, sul ruolo e sulle modalità della danza delle origini faranno anche emergere lo stretto collegamento tra la dimensione cinestetico/mimetica e l’archetipo femminile, presente in tutti gli esseri umani, ma oggi in occidente rimosso o degradato, magistralmente descritto soprattutto da Marjia Gimbutas, ma anche, secondo diverse prospettive, da Carl Gustav Jung, Johann J. Bachofen, Erich Neumann, Riane Eisler, Heidi Goettner-Abendroth, Luciana Percovich, solo per citarne alcuni. E, spero, apparirà chiaro, in seguito alle riflessioni sulla danza dei primordi, che la dimensione ecologica (sentirsi parte della natura), politica (sentirsi parte di una collettività) ed estatica (sentirsi parte di un “tutto”), presentavano alle origini un legame strettissimo, immanente alla corporeità. E che l’aver rimosso o degradato, nella civiltà occidentale, ormai estesa quasi all’intero mondo, la corporeità, la danza (nel senso profondo di esperienza antropologica originaria), il femminile, va di pari passo con una coscienza unilaterale ed egoica e con i disastri ecologici, le guerre, il razzismo, la discriminazione di genere e di età (infanti e vecchi), che mette a repentaglio la vita stessa della nostra e di molte altre specie viventi. Oggetto del 3° capitolo, il cui titolo è "Movimento immagine danza. La dimensione simbolica del corpo che danza" è, grazie alle riflessioni di Susanne Langer, Rudolf von Laban, Aby Warburg, Daniel Stern e Maxene Sheets-Johnstone, in generale, lo stretto legame tra il movimento consapevole, la memoria e le immagini interne, non solo visive, ma amodali o transmodali, come è già emerso dai diversi esempi presi in esame e dalle riflessioni condotte nei capitoli precedenti. E che sia questa stessa cooriginarietà a far emergere la dimensione simbolica della danza. Sembrerebbe, infatti, che al solo rivolgere l’attenzione o l’ascolto ad una parte del corpo, o al corpo intero (per chi ci riesce, dopo un lungo allenamento), accada qualcosa, un cambiamento dello stato di coscienza, che evoca e allo stesso tempo riconfigura l’archivio somatico-sensibile. La disciplina e la pratica dell’attenzione e dell’ascolto cinestetico aprono la strada della presenza, delle immagini interne, dell’integrazione tra sentire e pensare, tra dentro e fuori, tra io e mondo. È come se l’ascolto del corpo e del respiro risvegliasse le energie dormienti in noi, e, proprio come avviene quando i fisici, osservando l’elettrone, ne modificano la posizione, nel momento stesso in cui focalizziamo la nostra attenzione sul corpo, qualcosa cambia, le forze si allineano in maniera diversa. Questo tipo di attenzione non è dunque di tipo “oggettivo”, qualsiasi cosa ciò possa significare, ma è essa stessa parte del gioco. Questo accesso al corpo come campo di memoria e di immagini è comune a diverse discipline, ma nella danza, si potrebbe dire, è anche il modo in cui questo grande archivio cinestetico è rigiocato cinesteticamente in una "forma" e non tradotto in altri “codici”. In altre parole, se un movimento rivela sempre qualcosa di chi lo compie attraverso il “come” lo compie, è proprio questo stesso “come” a permettere la mímesis, che colloca il gesto in quello spazio potenziale in cui il gioco tra unione e separazione, tra identità e differenza si apre alla possibilità dell’immaginazione, del simbolo, della dimensione culturale stessa. E questo avviene “per la prima volta” ontogeneticamente e filogeneticamente in modo cinestetico, nella fase transizionale per l’infante, nella fase “primitiva” per l’umanità, come Daniel Stern, Susanne Langer e Aby Warburg, in modi diversi, molto efficacemente spiegano. Quando la danza diventa arte performativa, per coinvolgere il sentire dello spettatore passivo bisogna enfatizzare la figura modalmente, cioè canalizzare la sua forma rivolgendosi a sensi diversi, soprattutto alla vista e all’udito, e la figura si stacca dallo sfondo indifferenziato, fino, a volte e molto tempo dopo, a occultarlo del tutto, a presentarsi come pura figura. Il momento di passaggio si può cogliere, in modo embrionale, già nella fase della "magia", cioè quando nelle danze rituali si separa l'attività di danzare dai suoi "effetti", per esempio "curativi", quando la danza non è più solo puramente estatica, di comunione della comunità con la natura/Grande Madre, ma si concepisce una sorta di nesso di causalità, una separazione tra mezzi e fini, che, anche se molto diverso da quello della scienza moderna, introduce comunque un principio di causa-effetto e di temporalità lineare, un prima e un dopo. La dimensione simbolica non è dunque solo presente nella danza, e già questo sarebbe una conquista rispetto alle diffuse teorie che vedono la danza solo come autoespressione, ma nasce in essa e con essa. La riflessione sulla danza nelle civiltà orali ci mostra che la dimensione simbolica da essa inaugurata è il modo in cui l'umanità si orientava nel suo passaggio da un mondo "magico", come lo definisce Warburg, ad uno "logico", in un processo di progressivo allontanamento dalla fisicità del simbolo, verso l'astrazione e la separazione, in parallelo alla tragica rottura con la natura che l'essere umano ha operato nella modernità. Se riflettiamo sul passaggio dalla danza danzata dalla comunità intera a quella danzata da pochi e vista da altri, emergono almeno due questioni: quella della progressiva separazione tra la dimensione cinestetica e quella visiva, che condurrà poi alla prepotenza dello sguardo centrale, alla postura del controllo e del potere e quella, strettamente collegata, dell'incapacità di questo stesso sguardo solo visivo e centrale di vedere/sentire la dimensione temporale della danza, visto che, dopo un lungo processo, la danza è diventata un'arte rivolta prevalentemente alla vista. Se, invece di fermarci alla considerazione della dimensione visivo/spaziale, consideriamo la danza da un punto di vista anche temporale ed energetico, il movimento viene apprezzato nei sui aspetti dinamici o "qualitativi", la cui individuazione e definizione, sulla base di un filo rosso che lega Laban, Langer, Stern e Sheets-Johnstone, è un altro dei temi trasversali di questo lavoro. Nel 4° capitolo, intitolato "Anti-corpi, altri corpi. La danza come esempio di esercizio critico della corporeità", ho inteso porre la questione, di importanza vitale, di cosa ci mostri la danza oggi e di come quello che ci mostra appartenga a tutti noi e possiamo farne uso, che è uno dei motivi principali per cui ho voluto mettere per iscritto queste riflessioni. La danza ci mostra innanzi tutto che tutte/i abbiamo un corpo, e non è una cosa da poco, se intendiamo il corpo non come esecutore di ordini mentali ma come thinking body, come intelligenza corporea. Il valore di questa riflessione sull’esperienza del corpo che danza sta, in primo luogo, nella “scoperta” che ascoltare/sentire la nostra corporeità è già un esercizio critico. Anzi, è l’esercizio più profondamente critico, perché arriva laddove la parola e il pensiero, i principali strumenti critici della nostra civiltà, non arrivano. Il rifiuto teorico del concetto tradizionale di corpo, possibile grazie al guardare attraverso la danza, e tutti gli spostamenti filosofici che esso comporta, costituisce una sorta di protezione immunitaria contro la visione (solo visiva) dicotomica, un vero “anticorpo”, come dice Michel Bernard, nel doppio senso della parola, ai condizionamenti. E che sono possibili, grazie alla pratica e alla fruizione della danza, o meglio, del movimento consapevole e creativo, altri corpi. Uno dei temi del quarto capitolo è proprio quello degli "anticorpi" o altri corpi, pensati e agiti attraverso la danza e la pratica del gesto consapevole. Se, infatti, i condizionamenti sociali e culturali che passano attraverso la parola e le immagini sono stati oggetto di riflessione e, rispetto ad essi, sono stati elaborati strumenti critici, quelli che sono operati nei confronti dei corpi, per esempio attraverso le tecniche del corpo, sono più profondi, molto precoci, non verbali e non verbalizzabili, per cui più difficili da individuare in una cultura che concepisce l'esercizio critico soprattutto attraverso la parola. Per comprendere questi aspetti e altri limitrofi ho preso spunto da Michel Bernard, da Marcel Mauss, dalla biopolitica, da Ugo Volli, da Eugenio Barba. Da un punto di vista più strettamente filosofico, la riflessione segue, in questo capitolo, soprattutto alcuni testi di Alain Badiou e di Giorgio Agamben, Aby Warburg e Maxene Sheets-Johnstone, ma anche le pratiche del gesto di Virgilio Sieni, di Jérôme Bel, di Trisha Brown. Prendendo spunto dalle riflessioni di Alain Badiou, ho cercato di mostrare come la danza, che abbiamo visto essere il modo in cui ogni capacità simbolica nasce, possa riportarci ad una dimensione sorgiva in cui il corpo e il pensiero di cui è portatore sono inaugurali, quando i nomi non sono ancora assegnati e in cui è possibile darne di nuovi. Badiou considera, infatti, la danza come “evento prima del nome”, come arresto provvisorio dei “nomi” che diamo alle cose e quindi come possibilità di attribuirgliene altri. La danza è dunque molto distante dalla parola, non tanto perché esprime una dimensione istintuale e pre-linguistica del corpo, ma soprattutto perché ci mostra, in maniera radicale, come la dimensione linguistica configuri e strutturi la nostra realtà, spesso senza che ne siamo consapevoli. Abbiamo così i "corpi disobbedienti" della danza, che sottolineano la natura sottrattiva della danza, e del corpo che danza, un corpo, "anonimo" (letteralmente, prima di avere un nome), o meglio il corpo che nasce come corpo nell'istante in cui danza. Anche i "gesti sospesi", che disattivano o rendono inoperosi i dualismi, sono un altro modo di vedere la possibilità che la danza sia una pratica critica, proposto di Giorgio Agamben, la cui riflessione sul gesto è accompagnata dall'incontro con la danza, grazie alla collaborazione con Virgilio Sieni. Emerge così, in questo capitolo, in maniera più esplicita, ma è comunque uno dei livelli di lettura trasversali di questo lavoro, la dimensione politica della corporeità. Ho cercato di mostrare, anche grazie a qualche esempio concreto (Jérôme Bel, Trisha Brown, Virgilio Sieni) come sia possibile una pratica della consapevolezza dei corpi e degli spazi, in contesti comunitari, in relazione a dimensioni territoriali specifiche, in particolare in contesti urbani, quasi sempre fuori dall'ambito dello spettacolo (inteso qui come organizzazione industriale e commerciale delle rappresentazioni), ma comunque in una dimensione che possiamo in qualche modo definire estetica. Ho inoltre cercato di far emergere anche l'altra faccia della valenza "immunitaria" della danza, quella della possibilità di dare luogo ad altri corpi, sia dal punto di vista della danza performativa che, a partire dal secolo scorso ci ha mostrato una molteplicità di corpi possibili, sia, in senso più profondo, per mostrare come l'esercizio critico della pratica del corpo pensante, in tanto in quanto decodifica i condizionamenti, ci mostra la creatività sorgiva della natura (corporea) umana. La creatività, quindi, non è da vedersi solo come uno stile o una competenza che possiamo acquisire grazie ad una tecnica, ma come l'essenza stessa del nostro modo (cin-)estetico di stare al mondo.
29-apr-2021
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11573/1541957
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