E poiché possedere delle qualità presuppone una certa soddisfazione di constatarle reali, è lecito prevedere come a uno cui manchi il senso della realtà anche nei confronti di se stesso, possa un bel giorno capitare di scoprire in sé l’uomo senza qualità. R. Musil (1930-1942), Der Mann ohne Eigenschaften, Rowohlt Verlag, Berlin [tr. it. (1957), L’uomo senza qualità, Torino, Einaudi: 14]. L’uomo senza qualità è per definizione l’uomo della possibilità: il Sé moderno caratterizzato dalla sua incompiutezza, dall’elevato grado di libertà che non è possibile godere nell’esperienza attuale, perché questa è innanzitutto una fatica da sopportare. È un’opera, quella di Musil, che racconta il tramonto di un mondo giunto a un momento di sospensione nel quale l’eclissi di una tradizione raggiunge il suo punto più drammatico con l’affermazione dell’assenza di senso (Mann, 1945 [1997)] come Leitmotiv. Quando noi curatori di questo volume Senza valore ci siamo incontrati per la prima volta davanti a un caffè virtuale per discuterne (eravamo segregati ciascuno a casa propria durante il lockdown, in una condizione di straniamento e rarefazione del senso di realtà) abbiamo tutti avvertito lo spirito di Ulrich, il protagonista del romanzo di Musil, aleggiare e materializzarsi tra di noi come un innominabile convitato di pietra. Non avevamo un’idea precisa del libro che avremmo progettato e mandato alle stampe, ci accomunava però l’urgenza di dare voce alla sensazione di disagio e inquietudine che proviamo oggi, a oltre cento anni dalle celebri conferenze di Weber sul “lavoro dello spirito” (Cacciari 2020), in quanto professionisti della ricerca posti di fronte alla necessità di elaborare il lutto dell’interruzione repentina di un quotidiano che avevamo imparato a considerare normale, ma anche per questo stimolati a tornare a interrogarci sul senso della nostra istituzione di riferimento, l’Università, che ci contiene per la maggior parte del tempo della nostra vita adulta (Sicca 2016; Altmanova, Cannavacciuolo, Ottaiano, Russo 2020) e di cui la svolta epocale della pandemia ci interpella a ripensare e a mettere in discussione quanto vi si considera assunto o dato per scontato. Quel medesimo smarrimento di senso che governa il mondo attorno a Ulrich è - già da anni - comune esperienza quotidiana all’interno di ambienti di lavoro e di vita sempre più sottoposti a forme di “coercive accountability” (Shore, Wright 2000), e dunque a quantificazione, valutazione standardizzata, burocratizzazione e normalizzazione (Vidaillet 2013, Muller 2018): dalle istituzioni fondamentali dove si fruisce la maggior parte dei beni e servizi per la sopravvivenza, quelle essenziali, a quelle associate al tempo libero, quindi organizzazioni pubbliche e private ad ampio spettro. E ovviamente anche all’Università che è parte integrante di tutte le società economicamente sviluppate (Shore, Taitz 2010; Shore, Wright 2018). Ebbene, anche a noi universitari, che stiamo sperimentando sulla nostra carne la mutazione genetica dell’“homo academicus europeanus” (Normand, 2016) e che, esattamente come il protagonista de L’uomo senza qualità, sentiamo di aver smarrito il senso della realtà in cui viviamo e del sapere che vi produciamo, è accaduto un bel giorno, in un momento storico segnato dall’angoscia del coronavirus, di scoprire in noi stessi i depositari malinconici di un sapere che siamo convinti conti più di quanto si presti ad essere contato (Benneworth, Gulbrandsen, Hazelkorn 2016), un sapere désouvré, senza qualità e senza valore, ma proprio per questo forse a più basso tasso di obsolescenza e sempre verde, a dispetto delle mode contingenti, dell’imperialismo epistemico del mainstream e delle velleità di dominio della cultura dominante che, in virtù del suo potere simbolico, tende ad autopromuoversi a verità universale (Bourdieu e Wacquant, 1999 [2005]). 2. Attraversando il guado. Sperando non sia la sponda Da qualche anno ormai il nostro mondo del sapere, dell’educazione e dell’editoria scientifica nazionale è sotto “assedio” (Baert, Shipman 2005) da parte di un’agenzia di valutazione della qualità dell’università (Borrelli 2015). Si tratta, com’è stato osservato, di un “sistema praticamente dispotico e teoreticamente retrogrado” (Pievatolo 2017): dispotico in quanto utilizza criteri stabiliti da un’autorità nominata dal governo e li impone alla comunità scientifica, e retrogrado perché tali criteri si fondano sulla pretesa che presunti successi passati possano assicurarne anche in futuro. Apparentemente si potrebbe pensare che si tratti soltanto di una questione organizzativa, ma in realtà il ricorso alla valutazione premiale dell’università è molto più di questo. La discontinuità rispetto al passato di questa forma di governo delle istituzioni epistemiche non potrebbe essere più radicale, e la sua posta in gioco è infinitamente più alta di una semplice innovazione gestionale (Borrelli, Giannone 2019). Segna la cattura del mondo della ricerca da parte di quella che Michel Foucault ha descritto come la “tecnologia ambientale” praticata dal neoliberalismo (Foucault 2004 [2005: 214], fondata su un’antropologia che concepisce l’uomo come “responsive“ ed “eminentemente governabile”, ossia “come colui che è possibile maneggiare, e che risponderà sistematicamente alle modificazioni sistematiche che verranno introdotte artificialmente nell’ambiente” (Foucault 2004 [2005: 220]). Il fatto è che, parlando di valutazione della ricerca, il genitivo va inteso sempre nel senso di un genitivo oggettivo anche quando ad attuarla siano, come nelle forme di autovalutazione, gli stessi ricercatori o studiosi: non è la ricerca che valuta se stessa – sulla base di un sapere, spesso tacito, che è tutt’uno con l’esercizio del lavoro intellettuale – ma è la ricerca che è valutata, a scopi di direzione e controllo in vista di obiettivi extrascientifici (Pinto 2012: 32-33). Viviamo in un tempo che è stato variamente caratterizzato come l’epoca della “società dei controlli” (Power 1997), della “società della valutazione” (Dahler-Larsen 2001 [2012]), del “governo attraverso i numeri” (Supiot 2015; Shore, Wright 2015) o del “potere delle metriche” (Beer 2016), tutte espressioni del modus operandi di uno “Stato valutativo” (Neave 2012) che, in “perfetto Stato” neoliberale (Giannone 2019; Mozzana 2019), non si limita più a tracciare i confini dei comportamenti legittimi in virtù della legge, ma si spinge – non diversamente da come oggi opera in Cina, su più ampio raggio, il sistema di credito sociale (Pieranni 2020) - fino a incentivare le pratiche che esso stesso stabilisce come eccellenti attraverso la valutazione ossia, in ultima analisi, attraverso un “potere spacciato per sapere” (Zarka 2009 [2019]) che mette a valore e a profitto il sapere tipizzandolo, misurandolo, classificandolo e gerarchizzandolo. Un sistema che, di fatto, sta introducendo disservizi se non addirittura patologie corruttive nel sistema della conoscenza (Shore 2018). A scanso di equivoci ci corre l’obbligo di dichiararlo subito. Quello che avete tra le mani è un libro del tutto inutile, un testo che non fa testo in base alle regole del sistema di valutazione della ricerca. Un libro inutile, perché si tratta di una curatela di volume collettaneo, un nobile genere editoriale ormai decaduto, che non viene più riconosciuto ed è sempre meno praticato. Inutile, inoltre, perché ospita contributi di studiosi di diverse discipline, in un momento in cui interdisciplinarità e transdisciplinarità sono disincentivate e messe al bando dai criteri di valutazione. E, soprattutto, inutile perché raccoglie una serie di contributi “indisciplinati” che sono stati respinti dalle riviste accreditate, oppure che sono stati concepiti deliberatamente al di fuori dei crismi correnti della “scientificità” e che, quindi, non avrebbero potuto essere accettati dall’anonimo valutatore di turno, nell’ambito di quella pratica istituzionalizzata di prostituzione intellettuale che è diventata ormai la peer review (Frey 2003). E ancora inutile perché, contrariamente al modo di scrivere di oggi, non arriva e non vuole arrivare a delle conclusioni, nella convinzione che un libro è un oggetto culturale solo se si dà come opera aperta, in divenire e in dialogo costante con i suoi lettori, in modo che il suo senso sia sempre inattuale e di là da venire. Un libro inutile, dunque, e senza valore che ciononostante abbiamo voluto realizzare a ogni costo, perché convinti di quella che Nuccio Ordine ha definito l’“utilità dell’inutile”, cioè l’utilità paradossale di quelle forme di sapere fine a se stesse, le quali “proprio per la loro natura gratuita e disinteressata, lontana da ogni vincolo pratico e commerciale – possono avere un ruolo fondamentale nella coltivazione dello spirito e nella crescita civile e culturale dell’umanità” (Ordine 2013: 7). A questo punto sarà chiara ai lettori la filosofia che ispira questo libro. Alla mortificante “cultura in scatola” (Bertoni 2016) confezionata dalla “tirannia della valutazione” (del Rey 2013 [2018]), opponiamo la passione del conoscere come paidéia (παιδεία) di autonomia, creatività e gioia. Auspichiamo un sollecito e salutare “ritorno al senso” (Alvesson, Gabriel, Paulsen 2017) perché la ricerca riprenda ad avere qualcosa di meno triste e di più significativo di cui occuparsi per il bene pubblico, che non raggiungere artificiose soglie di produttività fine a se stessa, lasciarsi catturare dalla logica della neoliberalizzazione (Giroux 2014) e intrappolare dalle stolide quanto stucchevoli “griglie” della burocrazia valutativa (Cassin 2014). Peroriamo il riscatto dell’università dalle “rovine” in cui è precipitata negli ultimi trenta anni (Readings 1996, Dupont 2014), per esempio dall’ipertrofia delle funzioni amministrative e manageriali a scapito di quelle didattiche e di ricerca (Ginsberg 2011), o anche dalla moltiplicazione delle tecniche di gestione aziendale che avrebbero dovuto assicurare la qualità e migliorare il posizionamento competitivo degli atenei, e che invece di fatto burocratizzano il lavoro accademico e “fanno sì che si passi un sacco di tempo a cercare di vendere qualcosa agli altri” trasformando le università in “marchi da vendere a potenziali studenti e finanziatori” (Graeber 2015 [2016: 116-117]). Siamo convinti che occorra uscire dalla spirale perversa di matrice anglosassone del “consumismo accademico” (Williams 2013), per cui l’apprendimento da parte degli studenti si è ormai trasformato anche alle nostre latitudini in una frenetica e irriflessa corsa all’accumulazione di “crediti” formativi (le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti in un celebre film, e chi parla male pensa e vive male). Sosteniamo altresì la necessità di smettere di considerare le università come fossero aziende che operano sul mercato dell’istruzione (Connell 2019; Borrelli, Gavrila, Spanò, Stazio 2019), e dunque di rimetterci dalla “malattia” del managerialismo che ha colpito la ricerca (de Gaulejac 2012), di “sospendere la competizione” (Bonato 2015), spegnere quei “motori di ansia” (Espeland, Sauder 2016) che sono i ranking accademici (Hazelkorn 2011 [2015]) e disinfiammare l’esasperazione coatta e artificiosa del lavoro di ricerca (Berg e Seeber 2016), stimolata dal doping della valutazione e della quantificazione del sé (Lupton 2016; Lupton, Mewburn, Thompson 2018). Invitiamo pertanto a cessare di “pavoneggiarci” sulla base di una visione “impattocentrica” della ricerca (Mauro 2017), e a sbarazzarci della grottesca inflazione di eccellenze autoproclamate che oggi paiono diventate un must (sì, necessariamente utilizziamo un verbo modale - tradizionalmente si chiamavano verbi servili - della lingua inglese) a tutti i livelli nell’ambiente accademico. Promuoviamo, per contro, l’éthos (proprio l’ἦθος come “dimora” del sé, prima ancora che l’εθος come “costume di vita”) di una ineccellenza felice che la faccia finita una volta per tutte sia con la “vanità” che con l’“aspirazione all’eccellenza”, vere e proprie tare che affliggono oggi la nostra università - e, diremmo, questa contemporaneità che ci è capitata in sorte, con i suoi “miti razionalizzati” e istituzionalizzati della qualità (Meyer, Rowan 1977). Tare morali, vanità e aspirazione all’eccellenza, delle quali Nietzsche ebbe buon gioco a denunciare le radici rispettivamente nella servile suscettibilità alle impressioni altrui (Nietzsche 1886 [1977: § 261]) e nell’istinto morboso a far sì che gli altri soffrano di noi (Nietzsche 1881 [1978: § 113]). Del resto, l’eccellenza, se ve n’è una, non può che essere intesa come buona qualità diffusa in tutti i segmenti e le strutture che in un paese si occupano di ricerca e formazione, e non certo nei termini dell’incentivazione di presunti picchi di qualità finanziati con logiche premiali a danno dell’ecosistema complessivo della ricerca. Come ha osservato il linguista Raffaele Simone (2012), “in un sistema pubblico non si devono identificare i migliori; i migliori si devono creare. A questo scopo, l’università deve proporre l’offerta migliore perché tutti possano essere migliori, anche se si sa che non tutti lo saranno, e deve poi occuparsi in modo serio dei non-migliori e dei tanti che, pur avendo vocazione, sono sviati e confusi da una struttura scoordinata e di qualità instabile”. Ecco perché critichiamo risolutamente una valutazione che individui e premi la ricerca che si presume di maggiore qualità alla luce dei valori e dei saperi comunemente riconosciuti, e invochiamo invece una trasvalutazione dei valori che lasci spazio a pratiche di libertà affinché la ricerca venga gestita “con il minimo possibile di dominio” (Foucault 1984 [1994: 291]) e vi si possano far valere le ragioni di un sapere senza valore, potenzialmente generativo di nuovi e magari imponderabili valori. Sosteniamo, infine, che occorra superare l’idea per cui l’aggettivo “scientifico” debba sempre accompagnare ogni forma di produzione di sapere e di “ricerca”, fino a diventare una sorta di idolatrico lasciapassare nel circuito della conoscenza accreditata. Si pensi ad esempio alla trasformazione degli studi letterari in “scienze umanistiche”, quasi che al di fuori delle “scienze” non vi sia sapere ammissibile. È evidentemente una questione epistemologica (che, data la sua indecidibilità, tende sempre più oggi ad essere affrontata e risolta nei termini surrogatori e sbrigativi di una questione bibliometrica) con chiare ricadute in termini di metodologia della ricerca e della convivenza e, in ultima analisi, di pratiche sociali (Feyerabend 1975 [1979]). Lo chiarisce, ad esempio nell’ambito degli studi organizzativi, il concetto di “etichette” (label), adottato da Barbara Czarniawska (1993), che le considera alla stregua di strumenti di controllo, di artefatti che contribuiscono a definire confini e, dunque, identità. L’approccio scientifico (e persino quello scientificista, quindi di una scienza a tutti i costi) è stato dirompente e rassicurante in termini di salute pubblica e privata e di aspettative sulla lunghezza della vita, fino a egemonizzare ogni altra forma di conoscenza a partire dal XVII secolo, con la rivoluzione galileiana (Sicca, 2017). La scienza moderna – è stato osservato - si basa su una visione del mondo unitaria e compatta, fondata sulla ricerca di un invisibile semplice al di là della complessità dei fenomeni e sull’assunto della riduzione dell’eterogeneo all’omogeneo, che mira a “identificare un nucleo ristretto di presupposti e di leggi, tramite i quali poter accedere alle molteplici scale spaziali e temporali del cosmo, non importa quanto lontane dalla collocazione dell’osservatore umano nella sua limitazione spaziotemporale” (Ceruti 2018: 93). Si tratta di un radicale salto paradigmatico nell’ordine epistemico rispetto a millenarie, tradizionali, forme di conoscenza (Foucault 1966). Il che, dal canto nostro, ci autorizza a nutrire dubbi sull’opportunità di includere nel concetto di scienza qualunque disciplina, per esempio la letteratura, la musica, le arti figurative, ma anche la sociologia e l’economia che – rinunciando a corse in avanti e conservando l’etimologia – andrebbero ancora oggi, in questo complicato passaggio di millennio, rapportate a fonti e radici che affondano in antiche forme di saperi “pre-scientifici”. “Scienza” non è, à la Vico, qualunque cosa ambisca a raggiungere una conoscenza auspicabilmente oggettiva, adattabile e, magari, verificabile e condivisibile. Anche perché oggettività, adattabilità e verificabilità non sono di fatto proprio la stessa cosa se ci si occupa di economia, di fisica o chimica, di musica, di studi organizzativi, etc. A noi pare, invece, che “scienza” sia un modo (potente) di produrre conoscenza all’interno di un certo a priori storico, ma siamo convinti che anche altre forme di saperi e di conoscenze (non scientifiche e tuttavia non meno rigorose e rilevanti per l’esistenza umana) hanno ancora molto da dire con efficacia e forza interpretativa. Resta invece - attraversando il guado e sperando che quella che stiamo vivendo in questi anni non sia la sponda - la possibilità di spiegare l’attuale corsa generalizzata ad attribuirsi il côtédi scienza in ragione di comprensibili esigenze di legittimazione nei processi di acquisizione di finanziamenti in un mondo rassicurato dalle grandi scoperte scientifiche (chissà se la vulnerabilità emersa nel 2020 con un salto di specie dall’animale non umano a noi invertirà o rafforzerà la rotta), quindi rassicurante, in ragione di considerazioni di sociologia della conoscenza, di gestione e contenimento di ataviche ansie collettive e, in ultima analisi, di retorica del linguaggio accademico. Da questa impostazione deriva la contrapposizione della logica della dimostrazione (utile) a ciò che non è dimostrabile (quindi inutile), e di conseguenza da escludere dai procedimenti delle scienze. Eppure, nella struttura delle argomentazioni esistono (nella storia del pensiero, ma anche nella stessa storia della scienza) feconde alternative al dimostrare, certo meno rassicuranti, come ad esempio la logica della narrazione che pure ha realizzato non pochi risultati per il progredire della conoscenza. Se le epistemologie orientate alla spiegazione si basano sulla razionalità cognitiva con l’obiettivo di puntualizzare, di separare, individualizzare, comparare, calcolare e dare valutazioni secondo la scansione vero/falso, la modalità narrativa privilegia invece la strategia della comprensione e procede orientandosi negli “stati nervosi” del presente (Davies 2018) attraverso una pluralità di ricostruzioni possibili, e utilizzando come criterio di validazione la plausibilità, piuttosto che la verità (Sicca, 2020). 3. Lo studio è una passione inutile Quando si dice di qualcosa che è senza prezzo e senza valore, si può alludere alla sua assenza di pregio all’interno di un certo sistema di valori, ma verosimilmente anche alla eccedenza e inestimabilità del suo pregio rispetto all’ordine attuale delle quotazioni. Dunque, lo statuto del senza valore può riguardare parimenti ciò che non ha valore e ciò che invece ne ha troppo per poter essere apprezzato nelle condizioni date. In entrambi i casi l’oggetto percepito come senza valore si sottrae a ogni misura del valore corrente, sia che non possa essere misurato per difetto di pregio sia che, al contrario, risulti letteralmente s-misurato per eccesso di pregio. Il senza valore è dunque lo spazio inesplorato in cui gli opposti si incontrano fino a coincidere, facendo sì che si confondano il più povero e il più ricco, il più umile e il più pregiato. Questo principio di indistinzione rappresenta quanto di più alieno e inquietante (e quindi assolutamente da scongiurare) per la valutazione, la cui missione sociale è al contrario fondare l‘ordine del senso costituito sulla chiarezza delle distinzioni e dei rapporti di valore. Ma prima o poi ogni sistema di valutazione si imbatte nella sua ineludibile aporia: o assolve alle sue funzioni rimuovendo di aver rimosso ciò che sfugge alla sua misura, o si delegittima e implode di fronte alla incoercibile dismisura del senza valore. È il paradosso di ogni velleità di accountability, che rende visibile nella misura in cui rende invisibile, proprio perché fonda il valore della trasparenza sull’intrasparenza dei valori. Ecco allora che ciò che per il sistema di valutazione è senza valore assume per noi l’inestimabile valore, se non altro, di mostrare quanto sfugge ai suoi radar e di denunciare l’abisso originario di opacità e di hybris su cui esso costitutivamente si fonda. D’altra parte, si sa, lo statuto dell’equilibrio economico generale caro al pensiero neoclassico si fonda sull’incontro tra la funzione di domanda sottesa dall’utilità marginale decrescente che interseca l’offerta, con rendimenti di scala crescenti quando la capacità produttiva è sottoutilizzata. In altra parole, ciò significa che la prima mela è più utile della seconda, che questa a sua volta è più utile della terza, e così via. Ma questa prospettiva di misurazione del valore mostra tutti i suoi limiti nel momento in cui, invece della mela, la posta in gioco è la conoscenza nel contesto della ricerca accademica. La conoscenza, infatti, è qualcosa che più se ne ha, meno ci si sente sazi e sfamati. Anzi, a dirla tutta, la conoscenza è proprio qualcosa che affama. Una suggestiva immagine proposta dallo scrittore George Steiner riconduce l’assiomatica del conoscere alla nostra ancestrale natura di implacabili inseguitori e cacciatori: in quanto soggetti di conoscenza ci sentiamo obbligati ad aprire, una dopo l’altra, tutte le “porte nel castello di Barbablù”, perché ognuna conduce alla successiva “con una logica di intensificazione che coincide con la stessa coscienza che la mente ha di essere” (Steiner 1971 [2011: 118]). La fame di conoscenza fa di noi dei “cacciatori della realtà”, dovunque ci conduca tale fame. Per questo rivendichiamo il diritto di coltivare quella “parte maledetta” del sapere – come l’avrebbe definita Georges Bataille – che nutrendoci ci mantiene costantemente affamati, ma che eccede la misura dell’utile come coefficiente del valore, e che rimanda piuttosto al vocabolario del desiderio e alla sfera gratuita della libertà dall’imperativo produttivistico. Introducendo il suo progetto di una filosofia dell’umano oltre i limiti dell’economia politica, anche Bataille rivendicava il carattere senza valore della sua ricerca rispetto ai requisiti del rigore scientifico e ai crismi del sapere codificato, votandosi con e nella sua scrittura a quella medesima esplosione di effervescenza improduttiva di cui aspirava a carpire il segreto e che riteneva alla base di ogni forma ed espressione di vita sul pianeta: E se fosse questa la cosa migliore, – si chiedeva – [cioè] non soddisfare alcuna aspettativa e offrire proprio quel che tutti rifiutano, quel che ignorano volontariamente, per mancanza di forza: questo movimento di brusca sorpresa, che sconvolge e toglie allo spirito il riposo; una specie di ardito rovesciamento, la sostituzione di una dinamica, in accordo con il mondo, alla stagnazione delle idee isolate, ai problemi testardi di una angoscia che non ha voluto vedere. Ma come, senza voltare le spalle alle aspettative altrui, avrei potuto avere questa estrema libertà di pensiero che parifica le nozioni alla libertà del movimento del mondo? Sarebbe vano trascurare le regole del rigore, che procede lentamente e con metodo; ma come risolvere l’enigma, come misurarci con l’universo, se ci limitiamo al sonno delle conoscenze convenzionali? (1967 [1992: 27]). Le domande poste da Bataille sul valore di un sapere senza valore in rapporto alle regole del rigore scientifico restano ancora attuali, inevase e in un certo senso intrinsecamente inevadibili. A maggior ragione, ci sembrano particolarmente stringenti e significative oggi che alle istituzioni del sapere si somministrano massicce dosi di sonnifero epistemico onde cancellare proprio queste domande senza tuttavia riuscire davvero a eliminarle, e coltivare così l’illusione di poter padroneggiare la “libertà del movimento del mondo” attraverso il controllo preventivo e la sterilizzazione della più “estrema libertà di pensiero”. Quelle formulate da Bataille sono le stesse domande che, malgrado la colonizzazione diffusa da parte della cultura della valutazione, oggi continua a farsi ogni studioso che avverte estendersi intorno a sé lo sconfortante vuoto del “sonno delle conoscenze convenzionali”, il ristagno mortifero di passioni tristi e servili, gli effetti “tossici” di un sapere amministrato e sottoposto a misurazioni standardizzate di valore (Pinto, Borrelli, Pievatolo, Bertoni 2020; Smyth 2017). E, soprattutto, per quanto ci riguarda, sono proprio queste le domande decisive e fondamentali da cui ha preso forma il desiderio liberatorio di concepire un libro come questo, lo stesso tipo di desiderio che condividiamo con ciascuno degli autori che siamo onorati abbiano accettato di partecipare a questa stimolante avventura intellettuale. Dietro le frequenti recriminazioni che oggi si levano da più parti contro la presunta overeducation e lo skill mismatching del nostro sistema formativo si ode distintintamente la voce dell’eterno sospetto e pregiudizio borghese contro l’eccesso di sapere, o meglio contro un sapere percepito come eccesso improduttivo e come spreco di risorse in rapporto a quelli che sarebbero i reali o presunti fabbisogni lavorativi nel paese. Un’idea che non si potrebbe esprimere meglio di come l’ha esemplificata Silvio Berlusconi quando era premier: “Perché dovremmo pagare uno scienziato quando facciamo le migliori scarpe del mondo?”. Va detto che nel nostro paese l’istruzione superiore può sembrare eccessiva solo a chi non vede (o finge di non vedere) che è piuttosto il livello di professionalità richiesto nel nostro mercato del lavoro a non essere in realtà particolarmente qualificato. Ma in generale c’è una questione di fondo che riguarda complessivamente il valore del sapere in quanto tale e il senso della libertà di pensiero e di autorealizzazione in un sistema democratico, e che coinvolge non da oggi tutto il mondo sviluppato. Basta volgere lo sguardo al dibattito che si è sviluppato negli anni Settanta sulla crisi della democrazia per rendersi conto di come fosse proprio l’espansione educativa dei cittadini, e non la sua insufficienza, ad essere messa sul banco degli imputati della crisi dei paesi occidentali in quegli anni: Il risultato di questa espansione può essere la sovrapproduzione di persone con istruzione universitaria in rapporto ai lavori disponibili adatti a loro [...] L’espansione dell’istruzione universitaria può creare frustrazione e disagio psicologico presso i laureati che non riescono ad assicurarsi il tipo di lavoro cui credono che il titolo di studio conseguito dia loro diritto, il che può anche creare frustrazione e disagi materiali per i non laureati che non riescono ad accedere a quei lavori che prima erano loro disponibili [e che invece cominciano sempre più spesso ad essere offerti ai laureati]” (Crozier, Huntington e Watanuki 1975 [1977: 183]). Riaffiora in questo genere di riflessioni la mai risolta tensione tra cultura spirituale e coltivazione materiale, vocazione e professione, cura di sé e lavoro comandato, valori ideali e valore commerciale. Considerata in una prospettiva di allocazione ottimale del capitale umano, la formazione culturale infatti continua a essere vista come una indebita dilapidazione di risorse materiali e immateriali: troppo sapere, e troppo diffuso fra i cittadini, non solo risulta senza valore in un sistema economico efficiente, ma potrebbe addirittura essere dannoso perché potenziale fonte di critica e resistenza sociale. Ecco perché anche il lavoro che svolgono gli intellettuali deve essere ridefinito, depotenziato e istituzionalmente normalizzato mediante dispositivi come, appunto, la valutazione. Con il risultato di essere trasformato e risemantizzato da studio a ricerca, come ha suggestivamente spiegato Giorgio Agamben (2017): a differenza del termine «ricerca», che rimanda a un girare in circolo senza ancora aver trovato il proprio oggetto (circare), lo studio, che significa etimologicamente il grado estremo di un desiderio (studium), ha sempre già trovato il suo oggetto. Nelle scienze umane, la ricerca è solo una fase temporanea dello studio, che cessa una volta identificato il suo oggetto. Lo studio è, invece, una condizione permanente. Si può, anzi, definire studio il punto in cui un desiderio di conoscenza raggiunge la sua massima intensità e diventa una forma di vita: la vita dello studente – meglio, dello studioso. Per questo – al contrario di quanto implicito nella terminologia accademica, in cui lo studente è un grado più basso rispetto al ricercatore – lo studio è un paradigma conoscitivo gerarchicamente superiore alla ricerca, nel senso che questa non può raggiungere il suo scopo se non è animata da un desiderio e, una volta raggiuntolo, non può che convivere studiosamente con esso, trasformarsi in studio. Verosimilmente a nessuno sarebbe mai potuto venire in mente di concepire un libro senza valore, prima dell’istituzione dei dispositivi della valutazione della qualità e del valore della ricerca. Sarebbe stata un’iniziativa superflua e per certi versi incomprensibile, non foss’altro perché scrivere un libro è sempre stata in un certo senso un’attività all’insegna della dépense, che richiede un surplus di “studio”, cioè appunto di investimento desiderante e libidinale, di gran lunga eccedente l’orizzonte del valore economico e del rendimento utilitaristico. Oggi che a ogni “prodotto della ricerca” (se “prodotto” è participio passato del verbo all’infinito, allora tutto quanto dopo la pubblicazione è già compiuto, alle spalle) si ritiene di dover assegnare un valore nel listino del sapere, proporre ai lettori un libro e un sapere dichiaratamente senza valore (in base ai criteri della valutazione) ci sembra un atto di particolare valore, un gesto controcorrente, di sfida, di provocazione e di scandalo, che mira a provocare un “inciampo” (nell’accezione etimologica che ha la parola scandalo) nel senso di realtà e nel discorso accademico dominante, onde provare a mantenere ostinatamente aperta una vertigine di possibilità, uno spiraglio verso un essere altrimenti del sapere e del valore. Per questo immaginiamo Senza valore non come un prodotto, ma come un processo: con la pubblicazione non finisce ma inizia il vero lavoro del libro, un lavoro non votato alla valutazione di un già compiuto ma alla costruzione di un possibile. È un libro, il nostro, che scaturisce innanzitutto da un istintivo moto di insofferenza verso ogni genere di polizia del pensiero, e poi dalla consapevolezza che non bisognerebbe mai lasciare che il senso della realtà s’imponga sul mondo in modo così integrale e senza riserve da schiacciare ogni residuo senso della possibilità, perché - richiamando ancora Robert Musil in L’uomo senza qualità - il possibile “non comprende solo i sogni delle persone nervose, ma anche le non ancora deste intenzioni di Dio” (p. 12). Il possibile di oggi può diventare il reale di domani, a patto naturalmente che non lo si uccida nella culla in quanto senza valore. L’idea di un valore a venire implica l’umiltà, etica prima ancora che scientifica, di riservare uno spazio di agibilità a “qualcuno per il quale una cosa reale non vale di più di una immaginaria. È lui che dà finalmente senso e determinazione alle nuove possibilità, e le suscita” (p. 13). Difendere la possibilità di un sapere senza valore significa tutelare il sapere del possibile, il pluralismo dei valori e dei saperi dal soffocante esame di realtà cui i vincitori del momento puntano a sottomettere un sistema intrinsecamente dinamico, aperto e fallibile come non può che essere la conoscenza. 4. Del “misurarsi la palla”, ovvero il valore del valore Scopo dichiarato di ogni sistema di valutazione è accertare e assegnare un valore a qualcosa. Il significato di ogni oggetto dipende dal suo valore differenziale all’interno di una classificazione. “Ci sono persone che, per difendere il proprio valore, cioè il proprio essere, pur senza essere consapevoli di mettere in atto una strategia, sono obbligate a difendere l’universo da cui dipende la riproduzione della loro esistenza” (Bourdieu 2016 [2019: 138]). E dunque qual è il significato profondo delle classificazioni e dei ranking se non il tentativo di universalizzare un particolare modo di essere e di imporre un principio di attribuzione del valore sulla base del quale certi soggetti riescono a fregiarsi del riconoscimento di migliori ed eccellenti? Qual è, in sostanza, il valore del valore? Come si fa a stabilirlo e perché oggi nell’accademia si ritiene impossibile farne a meno, atteso che la ricerca ha potuto svilupparsi per secoli e raggiungere risultati soddisfacenti anche in assenza di agenzie di valutazione della qualità? “La volontà di potenza è essenzialmente creatrice e la potenza non può mai essere commisurata alla rappresentazione: non è mai rappresentabile, interpretabile o valutabile, in quanto ‘è ciò che’ interpreta, ‘ciò che’ valuta, ‘ciò che vuole’” (Deleuze 1962 [2002: 126]. Riflettendo sul concetto nietzschiano di volontà potenza, Gilles Deleuze ci fornisce indicazioni preziose sul senso del valutare e sul valore dei valori. Volontà di potenza – chiarisce Deleuze - non significa che la volontà abbia come scopo la potenza. La potenza non è qualcosa che si può volere come si desidera un oggetto di cui si è privi, ma è semmai qualcosa che inerisce all’essere che vuole, in quanto vuole, determinandone l’elemento generativo e la differenza specifica. Chi vuole, insomma, non ha bisogno di volere la potenza come chi esiste non ha bisogno di voler esistere. Se, invece, si vuole la potenza è perché se ne desidera la rappresentazione agli occhi degli altri, si vuole essere riconosciuti come detentori di potenza. Ecco perché volere la potenza è in fondo un’aspirazione da schiavi. D’altra parte, se la potenza viene pensata come oggetto di rappresentazione, essa dipenderà dall’essere dotati o meno di un valore per cui una cosa viene comunemente apprezzata. Di conseguenza, chi vuole farsi riconoscere sulla base di tale valore è indotto necessariamente al conformismo servile, e diventa così incapace di stabilire egli stesso dei valori diversi da quelli comuni. Al contrario, un’autentica volontà di potenza crea nuovi valori e non si limita a cercare di farsi accreditare e riconoscere quelli consolidati. Ed è proprio perché ha uno stile tutto suo e crea nuovi valori che non gli interessa entrare in competizione con nessun altro, essendo la competizione ciò che si sviluppa per l’acquisizione di valori comuni già affermati. La riflessione di Deleuze ci aiuta a sciogliere l’ambiguità intrinseca alla valutazione: da una parte, essa è il modo in cui ogni singola volontà di potenza esprime e genera valori intenzionando il mondo, dall’altra è la verifica del possesso di un insieme di requisiti considerati valori in virtù del modo in cui il mondo è stato intenzionato dagli altri. Da una parte, cioè, è l’atto di creare valori, dall’altra l’attribuzione di valori comunemente riconosciuti. È la medesima ambivalenza che ritroviamo nella semantica greca del “valore”. In greco l’aggettivo áxios significa “equivalente, del valore di, degno di” e, in quanto connesso etimologicamente al verbo ago “condurre, spingere”, indica propriamente ciò che tira, ciò che pesa, o meglio “ciò che tira col suo peso o controbilancia”. I valori, in altre parole, sono ciò per cui si “pro-pende” in modo precategoriale, ed in questo senso esprimono la cifra inconfondibile, letteralmente il centro di “gravità”, di ciascuna volontà di potenza. Volere è “pendere” verso qualcosa in particolare piuttosto che verso qualcos’altro. Per tornare a Deleuze, dunque, la volontà di potenza non vuole qualcosa di rappresentato estrinsecamente come la potenza, ma è attirata dal centro di gravità dei suoi valori, dei suoi pesi. La potenza rappresentata è infatti “una idea da schiavi e da impotenti, giudicata in base a valori comuni del tutto stabiliti” (1962 [2002: 126]. Corradicale di áxios è anche il termine axíoma, che designa come in italiano un “principio di verità evidente”, ma a partire da un significato originario di “valore, qualità”. Ciò che registriamo nel significato di “assioma” è la coessenzialità, come in un anello di Moebius, tra valore fondante e ordine costituito, tra attività legislatrice e legge. Un assioma non necessita di essere dimostrato, essendo il fondamento sulla cui base facciamo dimostrazioni. Ma, come ricorda Wittgenstein, un assioma rappresenta una certezza indubbia solo perché e fintantoché non la mettiamo in dubbio. E tuttavia sarebbe sempre possibile sottoporla a dubbio. “Se il vero è ciò che è fondato, allora il fondamento non è né vero né falso” (Wittgenstein 1969 [1999: § 205]). E ancora: “a fondamento della credenza fondata sta la credenza infondata” (Wittgenstein 1969 [1999: § 253]). L’assioma ci mostra come qualcosa di infondato (una qualità percepita, di per sé senza valore se non per chi la percepisce) si traduce senza soluzioni di continuità in un sistema di verità autoevidente dotato di valore normativo per tutti gli altri. Per una curiosa inversione semantica, il valore si trasforma da reazione che controbilancia, a vero e proprio motore primo, dispositivo inaugurale di agency: il verbo axióo “valutare” nella forma media vuol dire “stimarsi degno di, meritare”, e quindi “volere, desiderare”, ed è così che il valore finisce per rubare la scena al volere, anzi per mettere in scena il volere, per tornare a fare dell’agentività e della volontà di potenza un oggetto di rappresentazione e di misurazione. Vi è in gioco in questa assiomatica una teoria del Soggetto e del Desiderio, o meglio del Soggetto come Desiderio. Lo sottolinea lo stesso Deleuze insieme con Guattari, quando ci mettono in guardia sul fatto che l’inconscio non è un “teatro” dove si mette in scena un soggetto come fatto compiuto, ma una “fabbrica” che costruisce il soggetto come atto che non cessa mai di compiersi. “Non c’è soggetto fisso che per la repressione” - affermano (Deleuze, Guattari 1972 [1975: 29]). Allora, evidentemente la potenza creatrice del desiderio non è mai rappresentazione, bensì “macchina” imprevedibile di produzione del reale, e di conseguenza la soggettività non si può declinare che in termini di evento, singolarità, formatività. Non si può, cioè, vincolare il volere al valore, di modo che se si merita qualcosa allora lo si vuole, e se lo si vuole è perché lo si merita. Questo binomio valore-volere funziona infatti come una strategia di governo e di contenimento del volere, un modo per neutralizzare l’imprevedibilità del volere annullandolo come principio attivo e destituendolo ad effetto derivato, appunto a rappresentazione. Come se non si potesse volere qualcosa senza meritarlo, o d’altra parte meritarlo eppure non volerlo. Queste due opzioni sarebbero altrettanti comportamenti devianti nell’economia della valutazione, cioè dell’atto di stabilire valori e istituire la condizione di possibilità dello scambio simbolico delle equivalenze: se chi vuole senza averne titolo non è che un ingenuo, un truffatore o un folle schizofrenico, chi non vuole ciò che ha meritato di ottenere può rappresentare addirittura un principio di eversione del sistema. Il primo non può volere, il secondo deve volere. Entrambi sono in modo diverso degli im-postori, cioè dei soggetti che si mettono fuori dal proprio posto, e per entrambi si tratta di ricondurli al proprio posto, all’ordine costituito del valore-volere. In ogni caso, occorre sempre ridimensionare il soggetto del desiderio per poter circoscrivere i desideri dei soggetti e, così, marginalizzarli a fantasmi idiosincratici. Bisogna cioè indurlo a “misurarsi la palla”, come si dice in napoletano quando si vuole invitare a non sciogliere il rapporto normativo fondante tra il volere e il valore. Se si può volere solo ciò che si vale e si merita, ciò significa che il desiderio è commisurato a un valore anteriore che lo esprime e da cui deriva, come se fosse l’effetto di una struttura significante che lo pre-comprende e, pre-comprendendolo, lo cattura e lo limita. Eppure, la volontà di potenza, per poter essere tale, dovrebbe essere un atto primo, un’effrazione del corso dei significati e delle cose, la singolarità che dà inizio a ogni concatenamento di comportamenti, cioè che causa senza essere causato, che spiega senza poter essere spiegato, e che in nessun modo può pretendere di essere garantita in virtù di ciò che spetterebbe a chi vuole. In fondo, non sarebbe veramente un volere se ciò che vogliamo ci spetta, il nostro desiderio non sarebbe davvero ciò che vogliamo ma semplicemente quanto ci è dovuto sulla base del sistema dei valori correnti. Certo, il volere ha a che fare intrinsecamente con i valori, con “qualcosa che ci tira da qualche parte con il suo peso” e che ci fa appunto “propendere” per una condotta piuttosto che per un’altra, dandoci un obiettivo che “valga la pena” di essere voluto e perseguito. Se non avessimo valori tutto per noi sarebbe equivalente e indifferente, e quindi non ci sarebbe neanche materia per esercitare la nostra volontà. E, tuttavia, quello che fa la valutazione è proprio sospendere il nostro personale propendere, per appenderlo a qualcosa di predeterminato, a una sua rappresentazione stilizzata, in modo che di ciascuno sia autorizzato solo il volere di cui si possa verificare e certificare il corrispondente valore. Ma, come ha spiegato Luc Boltanski (2009 [2014: 59]), una società che persegua questo modello “meritocratico” (Boarelli 2019, Littler 2017) di assegnare ad ogni volere quote di potenza calcolate sul metro del corrispettivo valore, è in ultima istanza irrealizzabile, oltre che decisamente indesiderabile: Una delle ragioni [per cui lo è] attiene al carattere instabile e non immediatamente osservabile delle capacità personali che la verifica ha il compito di rivelare. Dal momento che non è possibile reiterare indefinitamente quelle verifiche, si tende inevitabilmente a radicare le potenze oggetto di esame negli strati più profondi della persona degli attori, vale a dire nel loro sostrato biologico. Le società che si vogliono meritocratiche sono a forte rischio di razzismo [...], o quantomeno tendono a un naturalismo biologizzante. Una seconda ragione attiene al fatto che è impossibile ideare formati di verifica in grado di strutturare ciascuna verifica condotta localmente in modo tale da delimitare in modo rigoroso il punto di vista dal quale è opportuno valutare i candidati e contemporaneamente neutralizzare totalmente gli effetti del contesto. Ne consegue che per condurre verifiche davvero ‘giuste’ in senso meritocratico bisognerebbe predisporre un formato di verifica ad hoc per ciascuna singola prova alla quale una certa persona venisse sottoposta in ogni specifica situazione data: è evidente che il risultato sarebbe di rendere le verifiche del tutto incommensurabili tra loro, e quindi incapaci di legittimare delle gerarchie sociali. La loro utilità si ridurrebbe a nulla. Eppure, malgrado l’inutilità di queste verifiche valutative (che paiono tanto più intollerabilmente autoritarie quanto più, appunto, ottusamente vane e velleitarie), quello che continuamente ci ripete il discorso della valutazione è che bisogna addomesticare il volere soggettivo sulla base di un correlato oggettivo sul piano del valore. Ossia che bisogna regolarizzare la dismisura del volere, dargli un limite attraverso una misura. Sta di fatto che quando il valore si converte in volere, ormai non è più in gioco il desiderio ma entra in scena il dovere, e allora diventa davvero tutta un’altra storia. Nel valore-volere tutto il desiderio è già dato e calcolato, e il soggetto risulta effettivamente nient’altro che un fatto compiuto. Il suo valore ipoteca il suo volere impedendogli di fare la differenza, anzi di essere una differenza. Lo condanna a ripetere ciò che è, rendendo velleitario e quindi sopprimendo in lui ogni impulso creativo e generativo. Con la sua pretesa di ricondurre gli im-postori al loro posto, la valutazione riterritorializza ciò che la potenza desiderante del soggetto minaccia costantemente di deterritorializzare. Per quanto impraticabile, la valutazione è lì per riaffermare ostinatamente un principio di ricomposizione ed equivalenza tra valore e volere, tra ciò che si è soggettivamente e ciò che si è ammessi a volere nella realtà oggettiva, tra meriti personali e consacrazioni istituzionali. Ma, considerando la sua intrinseca irrealizzabilità, si comprende bene come in fondo la sua vera missione non sia “tanto il tentativo di misurare il valore, bensì il tentativo di affermare i valori” (Coin 2015: 117), certi valori in particolare, se non altro quello per cui bisogna sempre ricordarsi in ogni caso di misurarsi la palla. E, si sa, misurarsela è un po’ evirarsi... 5. I testi “Senza valore”: un caleidoscopio rappresentativo. Per poter realizzare classificazioni e classifiche la valutazione ha bisogno di ridurre (in termini epistemologici) a misura comune, ma in questo modo finisce per alterare le condotte dei ricercatori, la loro costruzione di relazioni tra mezzi e fini, fino a condizionare la natura stessa dei prodotti (ah, prodotto, participio passato di un verbo all’infinito: quindi tutto è già successo) della ricerca stessa. Un meccanismo che si allontana radicalmente dal processo, che è invece materia viva, tecnica (téchne- τέχνη), pensiero del come-si-fa, centrale nelle culture più feconde nella storia del pensiero, delle civiltà e dei processi di civilizzazione. Con la presente curatela (opera di cura e di curiosità) abbiamo voluto valorizzare soprattutto questa dimensione in fieri del sapere, il come-si-pensa durante la ricerca e non solo dopo, in fase di accertamento e validazione. Lo abbiamo fatto prestando attenzione a come il lavoro si trasforma, spesso, dalla costruzione di un disegno della ricerca alla stesura di un testo, fino al momento del referaggio, in un gioco di empatia (prima, durante e dopo) tra valutato e valutatore. Insomma, i testi che qui vi proponiamo vogliono essere anche un esercizio terapeutico che ribalti la compiacenza servile in indipendenza di pensiero, e sfidi i modi in cui la valutazione limita, sovverte, talvolta boicotta, scritti che spesso hanno molto da dire e da dare alla Comunità. E alle Società. Partecipando a Senza valore, ciascuno degli autori è stato animato da un desiderio di cambiamento, ma anche di divertimento in un progetto comune. Ognuno di noi si è impegnato ad amplificare il confronto e il dibattito attraverso momenti di presentazione, seminari, convegni, nello spirito di una processualità inerente a quel sapere come materia viva che qui abbiamo inteso promuovere. Abbiamo deciso di organizzare i contributi in quattro sezioni tematiche, che rispecchiano quattro diverse declinazioni dei temi del valore e della valutazione. La prima sezione raccoglie i contributi che descrivono gli scenari teorici, epistemologici e socio-culturali in cui si iscrive e trova legittimazione il discorso sulla valutazione. Daniele Goldoni, nel suo saggio intitolato Originalità ci presenta una dissertazione filosofica su un concetto che è sempre più assurto a parametro centrale nella valutazione della ricerca scientifica. Partendo da Kant, la sua argomentazione mette in risalto la tensione tra un’originalità come valore riconosciuto in un determinato contesto sociale in base a un giudizio di “gusto” – dunque in relazione a parametri stabiliti socialmente ad esempio dalle comunità accademiche e dalla letteratura vigente – e un’originalità assoluta, che «non è oggetto di valutazione, ma è il criterio di ogni valutazione» (ultra, p. xxx). Con un argomento che ricorda quello deleuziano sulla volontà di potenza, l'autore ci illustra come la promozione di un’originalità di gusto, ovvero un'originalità non fondativa ma fondata, rischi di ridurre il concetto a mero "criterio formale" per l'autoriconoscimento di comunità accademiche in definitiva tutt'altro che aperte all'inedito. Questo tipo di prassi si rivela piuttosto un potenziale cavallo di troia per introdurre, attraverso la retorica della creatività, logiche imprenditoriali negli ambiti tanto dell’Università quanto delle politiche culturali. Ideale continuazione della linea di Goldoni è l'indagine di Daniele Garritano (Trust the Process. La costruzione del testo scientifico fra ideologie della scrittura e pratiche di decifrazione) sugli impliciti comunicativi attraverso i quali le comunità accademiche si riconoscono e nell’ambito dei quali si “costruiscono” tanto la conoscenza scientifica quanto i criteri di valutazione della stessa. Partendo dall’inestricabile intreccio tra economia e saperi, il saggio propone, con Foucault, Bourdieu e de Certeau, di esplorare gli orizzonti epistemici, gli immaginari e le pratiche di produzione di senso all'interno delle comunità scientifiche per dissotterrare quell’insieme di valori eterogenei e mutevoli che sottendono e condizionano implicitamente ordini epistemologici all’apparenza neutrali e oggettivi. Non si tratta solo di leggere i rituali istituzionalizzati che rappresentano l’ideologia della valutazione, ma di rivolgersi alle pratiche che quotidianamente producono e riproducono il paradigma della valutazione nelle modalità della scrittura e della lettura, nel sistema di aspettative, credenze e regole nel quale quelle assumono il loro orizzonte di senso, nei «modi quotidiani di scrivere e di leggere il testo scientifico, cioè in un senso comune che orienta la produzione e la circolazione dei saperi» (ultra, p. xxx). Senza per questo disconoscere le possibilità di antagonismi e rotture che proprio la natura costruita e processuale di quelle pratiche lascia aperte. In queste crepe nuovi discorsi - discorsi apparentemente senza valore poiché "altri" rispetto a quelli comunemente intesi - possono emergere, così come questo volume auspica. A questo riguardo l’appello di un rappresentante delle “scienze dure” come il fisico teorico Mario Nicodemi, Sostenere il valore dell’innovazione nella ricerca scientifica, è particolarmente significativo con. In un’argomentazione che suona qui come una risposta indiretta alle questioni sollevate dai due precedenti saggi, Nicodemi invita a pensare l’innovazione non solo come ricerca di nuovi contenuti, ma di nuove pratiche e modalità di ricerca votate all’interdisciplinarità e alla trasversalità, al fine, appunto, di lasciar aperto lo spazio di conflitti produttivi e direzioni audaci nella ricerca scientifica. Un appello che invita anche gli enti finanziatori a un impegno che sia fondato non su mode intellettuali ma su più rigorose e coraggiose aperture epistemologiche. Questo invito richiama il tema del fondamento teorico-culturale dell'economia, affrontato da Andrea Fumagalli in Dalla terra, alle risorse natuali, alla natura: l’esauribilità dell’energia e in La violenza della finanza e il disagio di vivere: conflitto o nichilismo?. Nel primo egli utilizza il concetto di bio-economia di Georgescu-Roegen per mettere in discussione la teoria marginalistica di stampo marshalliano e la modalità statica e astratta con cui l’economia sia classica che neoclassica si è riferita alle “risorse naturali”. Un sistema economico che presuppone la “non deperibilità” delle risorse produce disastri ambientali, ma anche perversioni epistemologiche che possono essere equiparate (sebbene in piccolo) ai paradossi dell’applicazione di una logica imprenditoriale al sapere. Le ricadute di queste perversioni sono, come Fumagalli mostra nel suo secondo contributo in chiusura di questo volume, in definitiva psicologiche ed esistenziali. Il disagio di vivere dell’uomo contemporaneo afflitto dal precariato (oggi nel linguaggio prevalente la chiamiamo flessibilità) è essenzialmente legato a meccanismi di valorizzazione basati su presupposti spacciati per neutrali (di cui sarebbero gli algoritmi della finanza a fare da garanti) ma in realtà espressione di una precisa gerarchia finanziaria. In un paradigma bioeconomico che intreccia sempre più sfera finanziaria, sfera tecnologica e sfera cognitivo-affettiva, tali meccanismi risultano prima imposti agli individui e poi da essi interiorizzati in un tipico processo di identificazione con l’aguzzino proprio del "realismo capitalista" (Fisher, 2009), che presenta molti aspetti in comune con i meccanismi della valutazione della ricerca. La cultura del dato, delle statistiche, delle classificazioni è il contesto in cui la valutazione, insieme a una certa forma di sorveglianza (Zuboff, 2019), diventa habitus. Si tratta di un paradigma sempre più imperante, emblematicamente rappresentato dal bollettino quotidiano dei dati sul coronavirus emesso dalla Protezione Civile nei mesi dell’emergenza. E proprio i cambiamenti che la condizione di distanziamento sociale dovuta all'emergenza Covid hanno prodotto nella costruzione delle relazioni umane, lavorative, didattiche, insieme alla centralità assunta dalle tecnologie della comunicazione e dell'elaborazione dati in questo processo, sono al centro della seconda sezione di questo lavoro. Riflessioni che troveranno poi nella quarta sezione una sponda attraverso l'approfondimento delle tecnologie algoritmiche e della più generale configurazione tecno-culturale che alimenta il contesto della valutazione. Gli autori della seconda sezione analizzano le problematiche che affliggono il mondo del lavoro, dell'istruzione e della ricerca, insieme ai processi di soggettivazione che li accompagnano. Problematiche senza dubbio accentuate, se non radicalizzate, dall'emergenza che ci troviamo a vivere durante la stesura di queste pagine, ma da cui l'emergenza stessa può aiutare a intravedere vie d'uscita. Enzo Rullani, in Scuola in transizione: reinventare l’apprendimento per gestire la complessita’ emergente, propone una serie di campi di innovazione per la scuola alla luce di una crisi, quella generata dal Covid, che, mentre ha messo in risalto l’inadeguatezza del sistema scolastico attuale, ha anche «sollecitato l’impiego di creatività individuale e di mezzi di relazione nuovi» (ultra, p. xxx). Il clash che l’attuale crisi ha messo in evidenza è quello tra un sistema educativo ancora fortemente impregnato da una cultura fordista – basata su percorsi d’apprendimento di tipo istruttivo, gerarchico e statico – e un sistema socio-economico di tipo post-fordista flessibile e dinamico. In questo conflitto emerge l’affanno del sistema scolastico (e di quello della ricerca) e l’inadeguatezza dei suoi dispositivi, ingolfati nel tentativo di mediazione tra i due mondi. Senza un profondo cambiamento della visione e dei modelli d’apprendimento, infatti, la modernizzazione della scuola è condannata al fallimento di una mera trasformazione manageriale, che vedrebbe proprio nella valutazione il suo strumento attuativo. Un approccio “creativo” all’apprendimento, invece, come quello proposto da Rullani, sarebbe in grado di farsi carico dei “salti” e dei percorsi rischiosi, inizialmente in perdita, che sono la premessa per aprire nuove vie e cambi di paradigma nel lungo periodo. Sempre partendo dalle trasformazioni attualizzate dall’emergenza Covid, Giovanni Costa («Teniamoci in contatto, a distanza». Tempi e spazi del lavoro organizzato nell’epoca del Covid-19) si interroga sul senso della relazione spazio/tempo nelle aziende, nelle istituzioni e nella scuola. Nel contesto del confinamento e del lavoro da casa, mediato dalle tecnologie della comunicazione, i concetti di distanza, prossimità e interdipendenza necessitano di essere ripensati rispetto alla teoria classica dell’organizzazione. Lo spazio di lavoro e la sua organizzazione, infatti, non hanno solo a che fare con l’efficienza ma anche con la strutturazione di relazioni e di modi di percepire la realtà; hanno, cioè, «un elevato ruolo simbolico» (ultra, p. xxx). E la mediazione delle ICT, rendendo meno cruciale la contiguità fisica nella strutturazione delle relazioni tanto lavorative quanto didattiche e affettive, interviene in maniera decisiva nella ridefinizione delle categorie spazio-temporali, così come delle pratiche sociali. «Quello che sembra venir meno è il ruolo della concentrazione spazio- temporale delle decisioni (o delle esperienze) collettive» (ultra, p. xxx). Non si inganni il lettore: la prospettiva dell’autore, che noi condividiamo, non è “apocalittica”. La Rete non è una solo minaccia ma può essere una risorsa, ma «per essere valorizzata richiede che se ne conosca in profondità la grammatica e la sintassi e che diventi essa stessa oggetto di insegnamento» (ultra, p. xxx). In questo quadro i dispositivi economico-politici applicati alla determinazione del valore tanto nel mercato quanto nel mondo dell’istruzione e della ricerca, richiedono anch’essi un ripensamento: strumenti come il prezzo, il ranking, gli indicatori bibliometrici e di impat factor, devono essere riposizionati dando più peso ad altre proposizioni di valore quali il valore dello spazio, della sicurezza, della sostenibilità, delle relazioni, se si vuole «arrestare il processo di banalizzazione quantitativa di tutte le interazioni sociali» (ultra, p. xxx). Riflessioni condivise anche da Carlo Grassi (xxxxx) il quale, rifacendosi al concetto bataillano di “silenzio definitivo”, vede nel distanziamento e nelle relazioni a distanza tecnologicamente mediate non tanto dispositivi di controllo sociale e limitazione della libertà quanto la radicalizzazione di tendenze antropologiche ancestrali verso la solitudine e la spaziatura come condizione necessaria a ogni comunicazione. Nello spirito dell’interdisciplinarità Senza Valore raccoglie contributi che spaziano dalla sociologia alla riflessione filosofica, dagli studi organizzativi all’estetica e all’art management. Proprio l’ibridazione tra questi differenti approcci anima la terza sezione di questo volume. Alberto Abruzzese ripropone un saggio del 2014 dal titolo Insegnare comunicazione, in cui mette in guardia da facili strumentalizzazioni della comunicazione nell’ambito del marketing dei beni culturali. Al di là delle retoriche sull’importanza dei beni storici, artistici e ambientali, Abruzzese sottolinea come la tendenza a «dividere i contenuti dagli strumenti» (ultra, p. xxx) sia il sintomo di un difetto di pensiero mediologico che affligge il pensiero umanistico e le classi dirigenti da esso formate. È dunque l’intera genealogia dell’umanesimo come strumento di dominio, dalle sue radici greco- romane fino alla mondializzazione capitalista, passando per il cristianesimo e l’illuminismo, a dover essere decostruita per poter far emergere il vuoto di senso in cui la modernità si sta rivelando. Un vuoto di cui l’arte è portavoce, ma che invece proprio la comunicazione dell’arte oggi tenta di mascherare, censurandolo attraverso rappresentazioni rassicuranti ed edificanti. Luca Zan (Non ci sono scorciatoie. Il difficile rapporto tra management e arte), riportando la sua decennale esperienza nel campo della gestione delle organizzazioni culturali, denuncia la proliferazione di impostazioni epistemologicamente ingenue nell'ambito delle narrazioni mainstream del management, troppo inclini a rapide scorciatoie di stampo razionalista e poco inclini alla contaminazione, lenta e sfidante, con i saperi umanistici. Un vizio riflesso e accentuato dall'impostazione approssimativa dei corsi di studio universitari e dalla confusione organizzativa che affligge il 3+2 in Italia. Contro il quale occorre operare sistematica sperimentazione e attitudine alla trasversalità. Infine Luigi Maria Sicca, Domenico Napolitano e Davide Borrelli (Per una antropologia delle organizzazioni: direzione d'orchestra e identità di genere) si interrogano sull’identità di genere e sulle relazioni di potere e cambiamento, in un parallelismo tra mondo delle organizzazioni e mondo artistico-musicale. Il vizio metafisico che il binarismo di genere riproduce nell’ambito dello sviluppo organizzativo, esemplificato dalla figura archetipica (e metafora ormai abusata) del direttore d’orchestra, alimenta forme di non inclusione che hanno molto in comune con l’atteggiamento eteronormativo della valutazione. Per contro pratiche artistiche come l’improvvisazione e la conduction aiutano a dischiudere un paradigma dell’accoglienza valido oltre i limiti di quelle stesse pratiche, anzi latente in tutte le dinamiche socio-antropologiche delle realtà organizzative – considerate come soggettività centrali nei processi di produzione del valore e dei valori. Tale paradigma, esemplificato dalla figura maieutica del “conduttore”, non è votato ad attualizzare forme e valori pre-determinati, ma a far emergere questi dalle relazioni immanenti tra gli attori coinvolti. Si tratta, cioè, di mettere le relazioni prima delle identità, di far derivare le categorie dai processi vivi e desideranti di costruzione delle singolarità, in maniera non normativa e non deterministica, per «far venire alla luce e lasciar essere il non ancora dato» (ultra, p. xxx). L’invito è, in definitiva, quello di promuovere l’accoglienza dell’alterità come ethos dello sviluppo organizzativo che riguarda tanto le aziende quanto le università e le istituzioni culturali. La quarta e ultima sezione, come annunciato, è dedicata all'approfondimento della modalità algoritmica di rapporto al sapere che influisce in maniera determinante sulle pratiche della valutazione, attraverso metriche automatizzate che riflettono, al di là della mera tecnicalità, una vera e propria cultura del calcolo. L'Articolo accademico generato automaticamente di Maria Luisa Stazio è al contempo un esperimento e una provocazione: laddove i parametri della valutazione tendono a ridurre il sapere a dimensione quantitativa, un articolo scritto da un algoritmo programmato per rispondere pedissequamente a quei parametri potrebbe paradossalmente essere promosso a pieni voti nonostante sia privo di validità scientifica quanto alla sua veridicità e relazione col reale. Angelo Baccelloni, Gerarda Fattoruso, Maria Grazia Olivieri, Massimo Squillante (Consumer decision-making process: un approccio multicriteriale) offrono una panoramica tecnica sul decision-making algoritmico e riportano dati empirici sulla sua efficacia nell’ambito della persuasione dei consumatori. Nonostante il taglio diverso rispetto agli altri contributi qui raccolti, l’articolo contribuisce a mettere in luce gli elementi di senso iscritti nelle tecnologie e nei processi che presiedono tanto le azioni quanto le governance del mercato. Facendo trasparire l’analogia tra quei processi e quelli vigenti nell’ambito della valutazione accademica, questo sguardo tecnico rivela, a chi sa ben guardare, che l’assimilazione sempre maggiore dell’università al mercato è condotta su un terreno socio-tecnico, in cui l’ideologia è iscritta, in definitiva, nella qualità delle operazioni algoritmiche stesse. 6. Conclusioni Con questo capitolo introduttivo abbiamo inteso raccogliere una riflessione ad amplio spettro sulle condizioni che caratterizzano il contesto della ricerca accademica di questi anni, e in particolare sulla questione archetipica del valore, della valutazione e dei suoi effetti di veridizione. Mai come oggi sperimentiamo la stridente contraddizione tra l’aspettativa di certezza rivolta alla tecnologia e alla scienza e il principio di fallibilità e di “scetticismo organizzato” che governa la ricerca (Merton 1942). Ce lo testimonia la pandemia in corso anticipata da un lungo ciclo di illusioni e fantasie onnipotenti, rispetto alle quali l’indicazione a livello globale è la meno tecnologica possibile: lavare le mani, starnutire con discrezione, non toccarsi. Da più parti si continua ad esigere risposte certe e chiare; mentre la comunità scientifica ripete con tenacia e alla noia che loro, i medici, di soluzioni proprio non ne hanno. E alla richiesta di rassicurazioni, ribadiscono che la medicina non è una scienza esatta. Come non lo è l’Economia (Oikonomia, Οικονομία) che stabilisce di tempo in tempo le regole (nomos - νόμος) della casa (oikos - οἶκος). E questo libro rende evidente, con senso del limite e rinuncia a facili (e talvolta necessarie) rassicurazioni, che né l’una né l’altra sono scienze esatte. Già, rassicurare e valutare (altri hanno ampliamente delineato il binomio “valutare e punire”, Pinto, 2012): perché è questo uno scopo sommerso, invisibile eppure fondamentale delle regole che si danno tutte le nostre istituzioni e quindi anche quelle accademiche. Ce ne parlava Alfred Bion (1962a; 1962b) già alla metà del secolo scorso, quando in seno al Tavistock Institute di Londra evidenziava che se è vero che esistono delle funzioni dichiarate (efficacia, efficienza, economicità) cui le istituzioni, quindi anche le Università, assolvono; è anche vero che altre restano invisibili (Perini, 2007; Sicca, 2016): quelle per gestire ansie primitive, fantasmi, con cui ognuno ha a che fare nelle proprie attività. Le regole che ci siamo dati nel mondo accademico sono come dei “contenitori” entro cui spendiamo la maggior parte del tempo della nostra vita adulta e che svolgono un contenimento di marca infantile. Una funzione materna quella del contenere, rassicurare e valutare, dunque, nella versione di una mamma buona che nutre e conferisce lavoro, dignità, ruolo, stipendio, riconoscimento sociale; ma anche una mamma che sa ingannare e avvelenare quando ci illude che siamo i più belli. Senza tempo. Spetta a noi, come studiosi e docenti, farci carico di un lavoro di consapevolezza per attraversare la stagione che ci è capitata in sorte, leggendo il linguaggio, i codici, le regole prevalenti, problematizzandole senza derive estremiste. Guardando appena poco indietro e rammentando La banalità del male (Arendt, 1963 [1974]) possiamo constatare, in fondo, che per tutto quanto concerne controllo, valutazione, ambizione ben misurabile, con precisione e al millimetro, grazie all’onnipotenza del calcolo e per tutto quanto deriva dalle premesse epistemologiche illustrate in questo nostro capitolo introduttivo ... abbiamo già dato. Infine, una considerazione amara e inevitabilmente autocritica guardando questa volta avanti a noi: sempre più permeante è considerare vincenti quei profili accademici (premiati dall’ideologia della valutazione, se portata all’estremo) che svolgono con crescente specializzazione e competenza attività imprenditoriali e manageriali, specie quelle di fund raising e di coordinamento di lavori di squadra e sempre meno attività di studio. Sempre di più e sempre più i giovani e giovanissimi, per attraversare e vincere le tappe del proprio percorso di carriera, si impegnano sin dalle prime fasi nel lavoro di ricerca dei finanziamenti alla ricerca, piuttosto che nel fare ricerca: il che, converranno i nostri lettori, non è esattamente la stessa cosa, anche guardando (nuovamente con sguardo al passato) alla storia dell’economia della conoscenza e, in particolare, al contributo di Bourdieu (1979 [2001]) laddove introduce la teoria della pratica e della logica dei campi, e della differenziazione. Con l’esito prevedibile, nel lungo periodo, di formare generazioni di somari o, comunque, di ricercatori che non hanno mai fatto pesanti investimenti di tempo in ricerca o di studiosi che non hanno mai studiato, fino ad approdare a una paradossale distinzione tra ricerca e studio. Nulla di male in sé (forse, almeno immaginando si possa guardare al nuovo con occhi nuovi) a meno che non lo si consideri sintomo di una affermazione delle burocrazie (nell’accezione patologica, come inversione del rapporto mezzi-fini) sulle democrazie (come luogo imperfetto di espressione della soggettività, quindi mezzi in funzione di obiettivi segnati in ragione di priorità inesorabilmente valoriali). Pensiamo, in tal senso, a quei modelli di governance universitaria, che incedono con crescente insistenza, che vedono negli incentivi monetari l’architrave premiante dell’intero impianto accademico: così è già in molte Università di grande prestigio internazionale (specie negli Stati Uniti) in cui tendono a restare pochi i permanent professor, mentre la maggior parte dei membri delle faculty sono strutturalmente impegnati nella partita della mobilità dei mercati del lavoro, accademico e non. Con una parallela competizione per la partecipazione ai panel dedicati all’attribuzione dei fondi di ricerca, condizione necessaria per accedere alla vita dei Dipartimenti, in un circuito chiuso, insomma, che ricorda il serpente che si mangia la coda; o il dilemma dell’uovo e della gallina. Agli ammiratori (senza dilemma) di questo approccio che oggi è pensiero prevalente, a coloro che in esso vedono una opportunità di crescita e di sviluppo, noi rispondiamo con lo sgomento di Ulrich che dice di uno stato di natura che ciascuno vive (ognuno a modo proprio, con maggiore o minore consapevolezza) al cospetto di ogni contemporaneità. Ponendo quindi, alcune domande, tanto semplici e banali quanto senza risposta certa, univoca, scientifica. Domande radicate nella storia della filosofia e sempre verdi: chi definisce il merito alla base del “governo dei migliori”? A chi sono affidati i processi di selezione? Questi ultimi sono davvero in grado di smarcarsi da quella “lotteria naturale” cara a Rawls (1971), ovvero a condizioni non pianificabili (anche per i più ingenui in grado di profetizzarne ottimisticamente l’eliminazione o il superamento) come etnia e varianti, classe sociale e varianti, genere e varianti.., e altro ancora?

Consumer Decision-Making Process: Un Approccio Multicriteriale / Baccelloni, Angelo; Fattoruso, Gerarda; Grazia Olivieri, Maria; Squillante, Massimo. - (2020).

Consumer Decision-Making Process: Un Approccio Multicriteriale

Angelo Baccelloni;
2020

Abstract

E poiché possedere delle qualità presuppone una certa soddisfazione di constatarle reali, è lecito prevedere come a uno cui manchi il senso della realtà anche nei confronti di se stesso, possa un bel giorno capitare di scoprire in sé l’uomo senza qualità. R. Musil (1930-1942), Der Mann ohne Eigenschaften, Rowohlt Verlag, Berlin [tr. it. (1957), L’uomo senza qualità, Torino, Einaudi: 14]. L’uomo senza qualità è per definizione l’uomo della possibilità: il Sé moderno caratterizzato dalla sua incompiutezza, dall’elevato grado di libertà che non è possibile godere nell’esperienza attuale, perché questa è innanzitutto una fatica da sopportare. È un’opera, quella di Musil, che racconta il tramonto di un mondo giunto a un momento di sospensione nel quale l’eclissi di una tradizione raggiunge il suo punto più drammatico con l’affermazione dell’assenza di senso (Mann, 1945 [1997)] come Leitmotiv. Quando noi curatori di questo volume Senza valore ci siamo incontrati per la prima volta davanti a un caffè virtuale per discuterne (eravamo segregati ciascuno a casa propria durante il lockdown, in una condizione di straniamento e rarefazione del senso di realtà) abbiamo tutti avvertito lo spirito di Ulrich, il protagonista del romanzo di Musil, aleggiare e materializzarsi tra di noi come un innominabile convitato di pietra. Non avevamo un’idea precisa del libro che avremmo progettato e mandato alle stampe, ci accomunava però l’urgenza di dare voce alla sensazione di disagio e inquietudine che proviamo oggi, a oltre cento anni dalle celebri conferenze di Weber sul “lavoro dello spirito” (Cacciari 2020), in quanto professionisti della ricerca posti di fronte alla necessità di elaborare il lutto dell’interruzione repentina di un quotidiano che avevamo imparato a considerare normale, ma anche per questo stimolati a tornare a interrogarci sul senso della nostra istituzione di riferimento, l’Università, che ci contiene per la maggior parte del tempo della nostra vita adulta (Sicca 2016; Altmanova, Cannavacciuolo, Ottaiano, Russo 2020) e di cui la svolta epocale della pandemia ci interpella a ripensare e a mettere in discussione quanto vi si considera assunto o dato per scontato. Quel medesimo smarrimento di senso che governa il mondo attorno a Ulrich è - già da anni - comune esperienza quotidiana all’interno di ambienti di lavoro e di vita sempre più sottoposti a forme di “coercive accountability” (Shore, Wright 2000), e dunque a quantificazione, valutazione standardizzata, burocratizzazione e normalizzazione (Vidaillet 2013, Muller 2018): dalle istituzioni fondamentali dove si fruisce la maggior parte dei beni e servizi per la sopravvivenza, quelle essenziali, a quelle associate al tempo libero, quindi organizzazioni pubbliche e private ad ampio spettro. E ovviamente anche all’Università che è parte integrante di tutte le società economicamente sviluppate (Shore, Taitz 2010; Shore, Wright 2018). Ebbene, anche a noi universitari, che stiamo sperimentando sulla nostra carne la mutazione genetica dell’“homo academicus europeanus” (Normand, 2016) e che, esattamente come il protagonista de L’uomo senza qualità, sentiamo di aver smarrito il senso della realtà in cui viviamo e del sapere che vi produciamo, è accaduto un bel giorno, in un momento storico segnato dall’angoscia del coronavirus, di scoprire in noi stessi i depositari malinconici di un sapere che siamo convinti conti più di quanto si presti ad essere contato (Benneworth, Gulbrandsen, Hazelkorn 2016), un sapere désouvré, senza qualità e senza valore, ma proprio per questo forse a più basso tasso di obsolescenza e sempre verde, a dispetto delle mode contingenti, dell’imperialismo epistemico del mainstream e delle velleità di dominio della cultura dominante che, in virtù del suo potere simbolico, tende ad autopromuoversi a verità universale (Bourdieu e Wacquant, 1999 [2005]). 2. Attraversando il guado. Sperando non sia la sponda Da qualche anno ormai il nostro mondo del sapere, dell’educazione e dell’editoria scientifica nazionale è sotto “assedio” (Baert, Shipman 2005) da parte di un’agenzia di valutazione della qualità dell’università (Borrelli 2015). Si tratta, com’è stato osservato, di un “sistema praticamente dispotico e teoreticamente retrogrado” (Pievatolo 2017): dispotico in quanto utilizza criteri stabiliti da un’autorità nominata dal governo e li impone alla comunità scientifica, e retrogrado perché tali criteri si fondano sulla pretesa che presunti successi passati possano assicurarne anche in futuro. Apparentemente si potrebbe pensare che si tratti soltanto di una questione organizzativa, ma in realtà il ricorso alla valutazione premiale dell’università è molto più di questo. La discontinuità rispetto al passato di questa forma di governo delle istituzioni epistemiche non potrebbe essere più radicale, e la sua posta in gioco è infinitamente più alta di una semplice innovazione gestionale (Borrelli, Giannone 2019). Segna la cattura del mondo della ricerca da parte di quella che Michel Foucault ha descritto come la “tecnologia ambientale” praticata dal neoliberalismo (Foucault 2004 [2005: 214], fondata su un’antropologia che concepisce l’uomo come “responsive“ ed “eminentemente governabile”, ossia “come colui che è possibile maneggiare, e che risponderà sistematicamente alle modificazioni sistematiche che verranno introdotte artificialmente nell’ambiente” (Foucault 2004 [2005: 220]). Il fatto è che, parlando di valutazione della ricerca, il genitivo va inteso sempre nel senso di un genitivo oggettivo anche quando ad attuarla siano, come nelle forme di autovalutazione, gli stessi ricercatori o studiosi: non è la ricerca che valuta se stessa – sulla base di un sapere, spesso tacito, che è tutt’uno con l’esercizio del lavoro intellettuale – ma è la ricerca che è valutata, a scopi di direzione e controllo in vista di obiettivi extrascientifici (Pinto 2012: 32-33). Viviamo in un tempo che è stato variamente caratterizzato come l’epoca della “società dei controlli” (Power 1997), della “società della valutazione” (Dahler-Larsen 2001 [2012]), del “governo attraverso i numeri” (Supiot 2015; Shore, Wright 2015) o del “potere delle metriche” (Beer 2016), tutte espressioni del modus operandi di uno “Stato valutativo” (Neave 2012) che, in “perfetto Stato” neoliberale (Giannone 2019; Mozzana 2019), non si limita più a tracciare i confini dei comportamenti legittimi in virtù della legge, ma si spinge – non diversamente da come oggi opera in Cina, su più ampio raggio, il sistema di credito sociale (Pieranni 2020) - fino a incentivare le pratiche che esso stesso stabilisce come eccellenti attraverso la valutazione ossia, in ultima analisi, attraverso un “potere spacciato per sapere” (Zarka 2009 [2019]) che mette a valore e a profitto il sapere tipizzandolo, misurandolo, classificandolo e gerarchizzandolo. Un sistema che, di fatto, sta introducendo disservizi se non addirittura patologie corruttive nel sistema della conoscenza (Shore 2018). A scanso di equivoci ci corre l’obbligo di dichiararlo subito. Quello che avete tra le mani è un libro del tutto inutile, un testo che non fa testo in base alle regole del sistema di valutazione della ricerca. Un libro inutile, perché si tratta di una curatela di volume collettaneo, un nobile genere editoriale ormai decaduto, che non viene più riconosciuto ed è sempre meno praticato. Inutile, inoltre, perché ospita contributi di studiosi di diverse discipline, in un momento in cui interdisciplinarità e transdisciplinarità sono disincentivate e messe al bando dai criteri di valutazione. E, soprattutto, inutile perché raccoglie una serie di contributi “indisciplinati” che sono stati respinti dalle riviste accreditate, oppure che sono stati concepiti deliberatamente al di fuori dei crismi correnti della “scientificità” e che, quindi, non avrebbero potuto essere accettati dall’anonimo valutatore di turno, nell’ambito di quella pratica istituzionalizzata di prostituzione intellettuale che è diventata ormai la peer review (Frey 2003). E ancora inutile perché, contrariamente al modo di scrivere di oggi, non arriva e non vuole arrivare a delle conclusioni, nella convinzione che un libro è un oggetto culturale solo se si dà come opera aperta, in divenire e in dialogo costante con i suoi lettori, in modo che il suo senso sia sempre inattuale e di là da venire. Un libro inutile, dunque, e senza valore che ciononostante abbiamo voluto realizzare a ogni costo, perché convinti di quella che Nuccio Ordine ha definito l’“utilità dell’inutile”, cioè l’utilità paradossale di quelle forme di sapere fine a se stesse, le quali “proprio per la loro natura gratuita e disinteressata, lontana da ogni vincolo pratico e commerciale – possono avere un ruolo fondamentale nella coltivazione dello spirito e nella crescita civile e culturale dell’umanità” (Ordine 2013: 7). A questo punto sarà chiara ai lettori la filosofia che ispira questo libro. Alla mortificante “cultura in scatola” (Bertoni 2016) confezionata dalla “tirannia della valutazione” (del Rey 2013 [2018]), opponiamo la passione del conoscere come paidéia (παιδεία) di autonomia, creatività e gioia. Auspichiamo un sollecito e salutare “ritorno al senso” (Alvesson, Gabriel, Paulsen 2017) perché la ricerca riprenda ad avere qualcosa di meno triste e di più significativo di cui occuparsi per il bene pubblico, che non raggiungere artificiose soglie di produttività fine a se stessa, lasciarsi catturare dalla logica della neoliberalizzazione (Giroux 2014) e intrappolare dalle stolide quanto stucchevoli “griglie” della burocrazia valutativa (Cassin 2014). Peroriamo il riscatto dell’università dalle “rovine” in cui è precipitata negli ultimi trenta anni (Readings 1996, Dupont 2014), per esempio dall’ipertrofia delle funzioni amministrative e manageriali a scapito di quelle didattiche e di ricerca (Ginsberg 2011), o anche dalla moltiplicazione delle tecniche di gestione aziendale che avrebbero dovuto assicurare la qualità e migliorare il posizionamento competitivo degli atenei, e che invece di fatto burocratizzano il lavoro accademico e “fanno sì che si passi un sacco di tempo a cercare di vendere qualcosa agli altri” trasformando le università in “marchi da vendere a potenziali studenti e finanziatori” (Graeber 2015 [2016: 116-117]). Siamo convinti che occorra uscire dalla spirale perversa di matrice anglosassone del “consumismo accademico” (Williams 2013), per cui l’apprendimento da parte degli studenti si è ormai trasformato anche alle nostre latitudini in una frenetica e irriflessa corsa all’accumulazione di “crediti” formativi (le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti in un celebre film, e chi parla male pensa e vive male). Sosteniamo altresì la necessità di smettere di considerare le università come fossero aziende che operano sul mercato dell’istruzione (Connell 2019; Borrelli, Gavrila, Spanò, Stazio 2019), e dunque di rimetterci dalla “malattia” del managerialismo che ha colpito la ricerca (de Gaulejac 2012), di “sospendere la competizione” (Bonato 2015), spegnere quei “motori di ansia” (Espeland, Sauder 2016) che sono i ranking accademici (Hazelkorn 2011 [2015]) e disinfiammare l’esasperazione coatta e artificiosa del lavoro di ricerca (Berg e Seeber 2016), stimolata dal doping della valutazione e della quantificazione del sé (Lupton 2016; Lupton, Mewburn, Thompson 2018). Invitiamo pertanto a cessare di “pavoneggiarci” sulla base di una visione “impattocentrica” della ricerca (Mauro 2017), e a sbarazzarci della grottesca inflazione di eccellenze autoproclamate che oggi paiono diventate un must (sì, necessariamente utilizziamo un verbo modale - tradizionalmente si chiamavano verbi servili - della lingua inglese) a tutti i livelli nell’ambiente accademico. Promuoviamo, per contro, l’éthos (proprio l’ἦθος come “dimora” del sé, prima ancora che l’εθος come “costume di vita”) di una ineccellenza felice che la faccia finita una volta per tutte sia con la “vanità” che con l’“aspirazione all’eccellenza”, vere e proprie tare che affliggono oggi la nostra università - e, diremmo, questa contemporaneità che ci è capitata in sorte, con i suoi “miti razionalizzati” e istituzionalizzati della qualità (Meyer, Rowan 1977). Tare morali, vanità e aspirazione all’eccellenza, delle quali Nietzsche ebbe buon gioco a denunciare le radici rispettivamente nella servile suscettibilità alle impressioni altrui (Nietzsche 1886 [1977: § 261]) e nell’istinto morboso a far sì che gli altri soffrano di noi (Nietzsche 1881 [1978: § 113]). Del resto, l’eccellenza, se ve n’è una, non può che essere intesa come buona qualità diffusa in tutti i segmenti e le strutture che in un paese si occupano di ricerca e formazione, e non certo nei termini dell’incentivazione di presunti picchi di qualità finanziati con logiche premiali a danno dell’ecosistema complessivo della ricerca. Come ha osservato il linguista Raffaele Simone (2012), “in un sistema pubblico non si devono identificare i migliori; i migliori si devono creare. A questo scopo, l’università deve proporre l’offerta migliore perché tutti possano essere migliori, anche se si sa che non tutti lo saranno, e deve poi occuparsi in modo serio dei non-migliori e dei tanti che, pur avendo vocazione, sono sviati e confusi da una struttura scoordinata e di qualità instabile”. Ecco perché critichiamo risolutamente una valutazione che individui e premi la ricerca che si presume di maggiore qualità alla luce dei valori e dei saperi comunemente riconosciuti, e invochiamo invece una trasvalutazione dei valori che lasci spazio a pratiche di libertà affinché la ricerca venga gestita “con il minimo possibile di dominio” (Foucault 1984 [1994: 291]) e vi si possano far valere le ragioni di un sapere senza valore, potenzialmente generativo di nuovi e magari imponderabili valori. Sosteniamo, infine, che occorra superare l’idea per cui l’aggettivo “scientifico” debba sempre accompagnare ogni forma di produzione di sapere e di “ricerca”, fino a diventare una sorta di idolatrico lasciapassare nel circuito della conoscenza accreditata. Si pensi ad esempio alla trasformazione degli studi letterari in “scienze umanistiche”, quasi che al di fuori delle “scienze” non vi sia sapere ammissibile. È evidentemente una questione epistemologica (che, data la sua indecidibilità, tende sempre più oggi ad essere affrontata e risolta nei termini surrogatori e sbrigativi di una questione bibliometrica) con chiare ricadute in termini di metodologia della ricerca e della convivenza e, in ultima analisi, di pratiche sociali (Feyerabend 1975 [1979]). Lo chiarisce, ad esempio nell’ambito degli studi organizzativi, il concetto di “etichette” (label), adottato da Barbara Czarniawska (1993), che le considera alla stregua di strumenti di controllo, di artefatti che contribuiscono a definire confini e, dunque, identità. L’approccio scientifico (e persino quello scientificista, quindi di una scienza a tutti i costi) è stato dirompente e rassicurante in termini di salute pubblica e privata e di aspettative sulla lunghezza della vita, fino a egemonizzare ogni altra forma di conoscenza a partire dal XVII secolo, con la rivoluzione galileiana (Sicca, 2017). La scienza moderna – è stato osservato - si basa su una visione del mondo unitaria e compatta, fondata sulla ricerca di un invisibile semplice al di là della complessità dei fenomeni e sull’assunto della riduzione dell’eterogeneo all’omogeneo, che mira a “identificare un nucleo ristretto di presupposti e di leggi, tramite i quali poter accedere alle molteplici scale spaziali e temporali del cosmo, non importa quanto lontane dalla collocazione dell’osservatore umano nella sua limitazione spaziotemporale” (Ceruti 2018: 93). Si tratta di un radicale salto paradigmatico nell’ordine epistemico rispetto a millenarie, tradizionali, forme di conoscenza (Foucault 1966). Il che, dal canto nostro, ci autorizza a nutrire dubbi sull’opportunità di includere nel concetto di scienza qualunque disciplina, per esempio la letteratura, la musica, le arti figurative, ma anche la sociologia e l’economia che – rinunciando a corse in avanti e conservando l’etimologia – andrebbero ancora oggi, in questo complicato passaggio di millennio, rapportate a fonti e radici che affondano in antiche forme di saperi “pre-scientifici”. “Scienza” non è, à la Vico, qualunque cosa ambisca a raggiungere una conoscenza auspicabilmente oggettiva, adattabile e, magari, verificabile e condivisibile. Anche perché oggettività, adattabilità e verificabilità non sono di fatto proprio la stessa cosa se ci si occupa di economia, di fisica o chimica, di musica, di studi organizzativi, etc. A noi pare, invece, che “scienza” sia un modo (potente) di produrre conoscenza all’interno di un certo a priori storico, ma siamo convinti che anche altre forme di saperi e di conoscenze (non scientifiche e tuttavia non meno rigorose e rilevanti per l’esistenza umana) hanno ancora molto da dire con efficacia e forza interpretativa. Resta invece - attraversando il guado e sperando che quella che stiamo vivendo in questi anni non sia la sponda - la possibilità di spiegare l’attuale corsa generalizzata ad attribuirsi il côtédi scienza in ragione di comprensibili esigenze di legittimazione nei processi di acquisizione di finanziamenti in un mondo rassicurato dalle grandi scoperte scientifiche (chissà se la vulnerabilità emersa nel 2020 con un salto di specie dall’animale non umano a noi invertirà o rafforzerà la rotta), quindi rassicurante, in ragione di considerazioni di sociologia della conoscenza, di gestione e contenimento di ataviche ansie collettive e, in ultima analisi, di retorica del linguaggio accademico. Da questa impostazione deriva la contrapposizione della logica della dimostrazione (utile) a ciò che non è dimostrabile (quindi inutile), e di conseguenza da escludere dai procedimenti delle scienze. Eppure, nella struttura delle argomentazioni esistono (nella storia del pensiero, ma anche nella stessa storia della scienza) feconde alternative al dimostrare, certo meno rassicuranti, come ad esempio la logica della narrazione che pure ha realizzato non pochi risultati per il progredire della conoscenza. Se le epistemologie orientate alla spiegazione si basano sulla razionalità cognitiva con l’obiettivo di puntualizzare, di separare, individualizzare, comparare, calcolare e dare valutazioni secondo la scansione vero/falso, la modalità narrativa privilegia invece la strategia della comprensione e procede orientandosi negli “stati nervosi” del presente (Davies 2018) attraverso una pluralità di ricostruzioni possibili, e utilizzando come criterio di validazione la plausibilità, piuttosto che la verità (Sicca, 2020). 3. Lo studio è una passione inutile Quando si dice di qualcosa che è senza prezzo e senza valore, si può alludere alla sua assenza di pregio all’interno di un certo sistema di valori, ma verosimilmente anche alla eccedenza e inestimabilità del suo pregio rispetto all’ordine attuale delle quotazioni. Dunque, lo statuto del senza valore può riguardare parimenti ciò che non ha valore e ciò che invece ne ha troppo per poter essere apprezzato nelle condizioni date. In entrambi i casi l’oggetto percepito come senza valore si sottrae a ogni misura del valore corrente, sia che non possa essere misurato per difetto di pregio sia che, al contrario, risulti letteralmente s-misurato per eccesso di pregio. Il senza valore è dunque lo spazio inesplorato in cui gli opposti si incontrano fino a coincidere, facendo sì che si confondano il più povero e il più ricco, il più umile e il più pregiato. Questo principio di indistinzione rappresenta quanto di più alieno e inquietante (e quindi assolutamente da scongiurare) per la valutazione, la cui missione sociale è al contrario fondare l‘ordine del senso costituito sulla chiarezza delle distinzioni e dei rapporti di valore. Ma prima o poi ogni sistema di valutazione si imbatte nella sua ineludibile aporia: o assolve alle sue funzioni rimuovendo di aver rimosso ciò che sfugge alla sua misura, o si delegittima e implode di fronte alla incoercibile dismisura del senza valore. È il paradosso di ogni velleità di accountability, che rende visibile nella misura in cui rende invisibile, proprio perché fonda il valore della trasparenza sull’intrasparenza dei valori. Ecco allora che ciò che per il sistema di valutazione è senza valore assume per noi l’inestimabile valore, se non altro, di mostrare quanto sfugge ai suoi radar e di denunciare l’abisso originario di opacità e di hybris su cui esso costitutivamente si fonda. D’altra parte, si sa, lo statuto dell’equilibrio economico generale caro al pensiero neoclassico si fonda sull’incontro tra la funzione di domanda sottesa dall’utilità marginale decrescente che interseca l’offerta, con rendimenti di scala crescenti quando la capacità produttiva è sottoutilizzata. In altra parole, ciò significa che la prima mela è più utile della seconda, che questa a sua volta è più utile della terza, e così via. Ma questa prospettiva di misurazione del valore mostra tutti i suoi limiti nel momento in cui, invece della mela, la posta in gioco è la conoscenza nel contesto della ricerca accademica. La conoscenza, infatti, è qualcosa che più se ne ha, meno ci si sente sazi e sfamati. Anzi, a dirla tutta, la conoscenza è proprio qualcosa che affama. Una suggestiva immagine proposta dallo scrittore George Steiner riconduce l’assiomatica del conoscere alla nostra ancestrale natura di implacabili inseguitori e cacciatori: in quanto soggetti di conoscenza ci sentiamo obbligati ad aprire, una dopo l’altra, tutte le “porte nel castello di Barbablù”, perché ognuna conduce alla successiva “con una logica di intensificazione che coincide con la stessa coscienza che la mente ha di essere” (Steiner 1971 [2011: 118]). La fame di conoscenza fa di noi dei “cacciatori della realtà”, dovunque ci conduca tale fame. Per questo rivendichiamo il diritto di coltivare quella “parte maledetta” del sapere – come l’avrebbe definita Georges Bataille – che nutrendoci ci mantiene costantemente affamati, ma che eccede la misura dell’utile come coefficiente del valore, e che rimanda piuttosto al vocabolario del desiderio e alla sfera gratuita della libertà dall’imperativo produttivistico. Introducendo il suo progetto di una filosofia dell’umano oltre i limiti dell’economia politica, anche Bataille rivendicava il carattere senza valore della sua ricerca rispetto ai requisiti del rigore scientifico e ai crismi del sapere codificato, votandosi con e nella sua scrittura a quella medesima esplosione di effervescenza improduttiva di cui aspirava a carpire il segreto e che riteneva alla base di ogni forma ed espressione di vita sul pianeta: E se fosse questa la cosa migliore, – si chiedeva – [cioè] non soddisfare alcuna aspettativa e offrire proprio quel che tutti rifiutano, quel che ignorano volontariamente, per mancanza di forza: questo movimento di brusca sorpresa, che sconvolge e toglie allo spirito il riposo; una specie di ardito rovesciamento, la sostituzione di una dinamica, in accordo con il mondo, alla stagnazione delle idee isolate, ai problemi testardi di una angoscia che non ha voluto vedere. Ma come, senza voltare le spalle alle aspettative altrui, avrei potuto avere questa estrema libertà di pensiero che parifica le nozioni alla libertà del movimento del mondo? Sarebbe vano trascurare le regole del rigore, che procede lentamente e con metodo; ma come risolvere l’enigma, come misurarci con l’universo, se ci limitiamo al sonno delle conoscenze convenzionali? (1967 [1992: 27]). Le domande poste da Bataille sul valore di un sapere senza valore in rapporto alle regole del rigore scientifico restano ancora attuali, inevase e in un certo senso intrinsecamente inevadibili. A maggior ragione, ci sembrano particolarmente stringenti e significative oggi che alle istituzioni del sapere si somministrano massicce dosi di sonnifero epistemico onde cancellare proprio queste domande senza tuttavia riuscire davvero a eliminarle, e coltivare così l’illusione di poter padroneggiare la “libertà del movimento del mondo” attraverso il controllo preventivo e la sterilizzazione della più “estrema libertà di pensiero”. Quelle formulate da Bataille sono le stesse domande che, malgrado la colonizzazione diffusa da parte della cultura della valutazione, oggi continua a farsi ogni studioso che avverte estendersi intorno a sé lo sconfortante vuoto del “sonno delle conoscenze convenzionali”, il ristagno mortifero di passioni tristi e servili, gli effetti “tossici” di un sapere amministrato e sottoposto a misurazioni standardizzate di valore (Pinto, Borrelli, Pievatolo, Bertoni 2020; Smyth 2017). E, soprattutto, per quanto ci riguarda, sono proprio queste le domande decisive e fondamentali da cui ha preso forma il desiderio liberatorio di concepire un libro come questo, lo stesso tipo di desiderio che condividiamo con ciascuno degli autori che siamo onorati abbiano accettato di partecipare a questa stimolante avventura intellettuale. Dietro le frequenti recriminazioni che oggi si levano da più parti contro la presunta overeducation e lo skill mismatching del nostro sistema formativo si ode distintintamente la voce dell’eterno sospetto e pregiudizio borghese contro l’eccesso di sapere, o meglio contro un sapere percepito come eccesso improduttivo e come spreco di risorse in rapporto a quelli che sarebbero i reali o presunti fabbisogni lavorativi nel paese. Un’idea che non si potrebbe esprimere meglio di come l’ha esemplificata Silvio Berlusconi quando era premier: “Perché dovremmo pagare uno scienziato quando facciamo le migliori scarpe del mondo?”. Va detto che nel nostro paese l’istruzione superiore può sembrare eccessiva solo a chi non vede (o finge di non vedere) che è piuttosto il livello di professionalità richiesto nel nostro mercato del lavoro a non essere in realtà particolarmente qualificato. Ma in generale c’è una questione di fondo che riguarda complessivamente il valore del sapere in quanto tale e il senso della libertà di pensiero e di autorealizzazione in un sistema democratico, e che coinvolge non da oggi tutto il mondo sviluppato. Basta volgere lo sguardo al dibattito che si è sviluppato negli anni Settanta sulla crisi della democrazia per rendersi conto di come fosse proprio l’espansione educativa dei cittadini, e non la sua insufficienza, ad essere messa sul banco degli imputati della crisi dei paesi occidentali in quegli anni: Il risultato di questa espansione può essere la sovrapproduzione di persone con istruzione universitaria in rapporto ai lavori disponibili adatti a loro [...] L’espansione dell’istruzione universitaria può creare frustrazione e disagio psicologico presso i laureati che non riescono ad assicurarsi il tipo di lavoro cui credono che il titolo di studio conseguito dia loro diritto, il che può anche creare frustrazione e disagi materiali per i non laureati che non riescono ad accedere a quei lavori che prima erano loro disponibili [e che invece cominciano sempre più spesso ad essere offerti ai laureati]” (Crozier, Huntington e Watanuki 1975 [1977: 183]). Riaffiora in questo genere di riflessioni la mai risolta tensione tra cultura spirituale e coltivazione materiale, vocazione e professione, cura di sé e lavoro comandato, valori ideali e valore commerciale. Considerata in una prospettiva di allocazione ottimale del capitale umano, la formazione culturale infatti continua a essere vista come una indebita dilapidazione di risorse materiali e immateriali: troppo sapere, e troppo diffuso fra i cittadini, non solo risulta senza valore in un sistema economico efficiente, ma potrebbe addirittura essere dannoso perché potenziale fonte di critica e resistenza sociale. Ecco perché anche il lavoro che svolgono gli intellettuali deve essere ridefinito, depotenziato e istituzionalmente normalizzato mediante dispositivi come, appunto, la valutazione. Con il risultato di essere trasformato e risemantizzato da studio a ricerca, come ha suggestivamente spiegato Giorgio Agamben (2017): a differenza del termine «ricerca», che rimanda a un girare in circolo senza ancora aver trovato il proprio oggetto (circare), lo studio, che significa etimologicamente il grado estremo di un desiderio (studium), ha sempre già trovato il suo oggetto. Nelle scienze umane, la ricerca è solo una fase temporanea dello studio, che cessa una volta identificato il suo oggetto. Lo studio è, invece, una condizione permanente. Si può, anzi, definire studio il punto in cui un desiderio di conoscenza raggiunge la sua massima intensità e diventa una forma di vita: la vita dello studente – meglio, dello studioso. Per questo – al contrario di quanto implicito nella terminologia accademica, in cui lo studente è un grado più basso rispetto al ricercatore – lo studio è un paradigma conoscitivo gerarchicamente superiore alla ricerca, nel senso che questa non può raggiungere il suo scopo se non è animata da un desiderio e, una volta raggiuntolo, non può che convivere studiosamente con esso, trasformarsi in studio. Verosimilmente a nessuno sarebbe mai potuto venire in mente di concepire un libro senza valore, prima dell’istituzione dei dispositivi della valutazione della qualità e del valore della ricerca. Sarebbe stata un’iniziativa superflua e per certi versi incomprensibile, non foss’altro perché scrivere un libro è sempre stata in un certo senso un’attività all’insegna della dépense, che richiede un surplus di “studio”, cioè appunto di investimento desiderante e libidinale, di gran lunga eccedente l’orizzonte del valore economico e del rendimento utilitaristico. Oggi che a ogni “prodotto della ricerca” (se “prodotto” è participio passato del verbo all’infinito, allora tutto quanto dopo la pubblicazione è già compiuto, alle spalle) si ritiene di dover assegnare un valore nel listino del sapere, proporre ai lettori un libro e un sapere dichiaratamente senza valore (in base ai criteri della valutazione) ci sembra un atto di particolare valore, un gesto controcorrente, di sfida, di provocazione e di scandalo, che mira a provocare un “inciampo” (nell’accezione etimologica che ha la parola scandalo) nel senso di realtà e nel discorso accademico dominante, onde provare a mantenere ostinatamente aperta una vertigine di possibilità, uno spiraglio verso un essere altrimenti del sapere e del valore. Per questo immaginiamo Senza valore non come un prodotto, ma come un processo: con la pubblicazione non finisce ma inizia il vero lavoro del libro, un lavoro non votato alla valutazione di un già compiuto ma alla costruzione di un possibile. È un libro, il nostro, che scaturisce innanzitutto da un istintivo moto di insofferenza verso ogni genere di polizia del pensiero, e poi dalla consapevolezza che non bisognerebbe mai lasciare che il senso della realtà s’imponga sul mondo in modo così integrale e senza riserve da schiacciare ogni residuo senso della possibilità, perché - richiamando ancora Robert Musil in L’uomo senza qualità - il possibile “non comprende solo i sogni delle persone nervose, ma anche le non ancora deste intenzioni di Dio” (p. 12). Il possibile di oggi può diventare il reale di domani, a patto naturalmente che non lo si uccida nella culla in quanto senza valore. L’idea di un valore a venire implica l’umiltà, etica prima ancora che scientifica, di riservare uno spazio di agibilità a “qualcuno per il quale una cosa reale non vale di più di una immaginaria. È lui che dà finalmente senso e determinazione alle nuove possibilità, e le suscita” (p. 13). Difendere la possibilità di un sapere senza valore significa tutelare il sapere del possibile, il pluralismo dei valori e dei saperi dal soffocante esame di realtà cui i vincitori del momento puntano a sottomettere un sistema intrinsecamente dinamico, aperto e fallibile come non può che essere la conoscenza. 4. Del “misurarsi la palla”, ovvero il valore del valore Scopo dichiarato di ogni sistema di valutazione è accertare e assegnare un valore a qualcosa. Il significato di ogni oggetto dipende dal suo valore differenziale all’interno di una classificazione. “Ci sono persone che, per difendere il proprio valore, cioè il proprio essere, pur senza essere consapevoli di mettere in atto una strategia, sono obbligate a difendere l’universo da cui dipende la riproduzione della loro esistenza” (Bourdieu 2016 [2019: 138]). E dunque qual è il significato profondo delle classificazioni e dei ranking se non il tentativo di universalizzare un particolare modo di essere e di imporre un principio di attribuzione del valore sulla base del quale certi soggetti riescono a fregiarsi del riconoscimento di migliori ed eccellenti? Qual è, in sostanza, il valore del valore? Come si fa a stabilirlo e perché oggi nell’accademia si ritiene impossibile farne a meno, atteso che la ricerca ha potuto svilupparsi per secoli e raggiungere risultati soddisfacenti anche in assenza di agenzie di valutazione della qualità? “La volontà di potenza è essenzialmente creatrice e la potenza non può mai essere commisurata alla rappresentazione: non è mai rappresentabile, interpretabile o valutabile, in quanto ‘è ciò che’ interpreta, ‘ciò che’ valuta, ‘ciò che vuole’” (Deleuze 1962 [2002: 126]. Riflettendo sul concetto nietzschiano di volontà potenza, Gilles Deleuze ci fornisce indicazioni preziose sul senso del valutare e sul valore dei valori. Volontà di potenza – chiarisce Deleuze - non significa che la volontà abbia come scopo la potenza. La potenza non è qualcosa che si può volere come si desidera un oggetto di cui si è privi, ma è semmai qualcosa che inerisce all’essere che vuole, in quanto vuole, determinandone l’elemento generativo e la differenza specifica. Chi vuole, insomma, non ha bisogno di volere la potenza come chi esiste non ha bisogno di voler esistere. Se, invece, si vuole la potenza è perché se ne desidera la rappresentazione agli occhi degli altri, si vuole essere riconosciuti come detentori di potenza. Ecco perché volere la potenza è in fondo un’aspirazione da schiavi. D’altra parte, se la potenza viene pensata come oggetto di rappresentazione, essa dipenderà dall’essere dotati o meno di un valore per cui una cosa viene comunemente apprezzata. Di conseguenza, chi vuole farsi riconoscere sulla base di tale valore è indotto necessariamente al conformismo servile, e diventa così incapace di stabilire egli stesso dei valori diversi da quelli comuni. Al contrario, un’autentica volontà di potenza crea nuovi valori e non si limita a cercare di farsi accreditare e riconoscere quelli consolidati. Ed è proprio perché ha uno stile tutto suo e crea nuovi valori che non gli interessa entrare in competizione con nessun altro, essendo la competizione ciò che si sviluppa per l’acquisizione di valori comuni già affermati. La riflessione di Deleuze ci aiuta a sciogliere l’ambiguità intrinseca alla valutazione: da una parte, essa è il modo in cui ogni singola volontà di potenza esprime e genera valori intenzionando il mondo, dall’altra è la verifica del possesso di un insieme di requisiti considerati valori in virtù del modo in cui il mondo è stato intenzionato dagli altri. Da una parte, cioè, è l’atto di creare valori, dall’altra l’attribuzione di valori comunemente riconosciuti. È la medesima ambivalenza che ritroviamo nella semantica greca del “valore”. In greco l’aggettivo áxios significa “equivalente, del valore di, degno di” e, in quanto connesso etimologicamente al verbo ago “condurre, spingere”, indica propriamente ciò che tira, ciò che pesa, o meglio “ciò che tira col suo peso o controbilancia”. I valori, in altre parole, sono ciò per cui si “pro-pende” in modo precategoriale, ed in questo senso esprimono la cifra inconfondibile, letteralmente il centro di “gravità”, di ciascuna volontà di potenza. Volere è “pendere” verso qualcosa in particolare piuttosto che verso qualcos’altro. Per tornare a Deleuze, dunque, la volontà di potenza non vuole qualcosa di rappresentato estrinsecamente come la potenza, ma è attirata dal centro di gravità dei suoi valori, dei suoi pesi. La potenza rappresentata è infatti “una idea da schiavi e da impotenti, giudicata in base a valori comuni del tutto stabiliti” (1962 [2002: 126]. Corradicale di áxios è anche il termine axíoma, che designa come in italiano un “principio di verità evidente”, ma a partire da un significato originario di “valore, qualità”. Ciò che registriamo nel significato di “assioma” è la coessenzialità, come in un anello di Moebius, tra valore fondante e ordine costituito, tra attività legislatrice e legge. Un assioma non necessita di essere dimostrato, essendo il fondamento sulla cui base facciamo dimostrazioni. Ma, come ricorda Wittgenstein, un assioma rappresenta una certezza indubbia solo perché e fintantoché non la mettiamo in dubbio. E tuttavia sarebbe sempre possibile sottoporla a dubbio. “Se il vero è ciò che è fondato, allora il fondamento non è né vero né falso” (Wittgenstein 1969 [1999: § 205]). E ancora: “a fondamento della credenza fondata sta la credenza infondata” (Wittgenstein 1969 [1999: § 253]). L’assioma ci mostra come qualcosa di infondato (una qualità percepita, di per sé senza valore se non per chi la percepisce) si traduce senza soluzioni di continuità in un sistema di verità autoevidente dotato di valore normativo per tutti gli altri. Per una curiosa inversione semantica, il valore si trasforma da reazione che controbilancia, a vero e proprio motore primo, dispositivo inaugurale di agency: il verbo axióo “valutare” nella forma media vuol dire “stimarsi degno di, meritare”, e quindi “volere, desiderare”, ed è così che il valore finisce per rubare la scena al volere, anzi per mettere in scena il volere, per tornare a fare dell’agentività e della volontà di potenza un oggetto di rappresentazione e di misurazione. Vi è in gioco in questa assiomatica una teoria del Soggetto e del Desiderio, o meglio del Soggetto come Desiderio. Lo sottolinea lo stesso Deleuze insieme con Guattari, quando ci mettono in guardia sul fatto che l’inconscio non è un “teatro” dove si mette in scena un soggetto come fatto compiuto, ma una “fabbrica” che costruisce il soggetto come atto che non cessa mai di compiersi. “Non c’è soggetto fisso che per la repressione” - affermano (Deleuze, Guattari 1972 [1975: 29]). Allora, evidentemente la potenza creatrice del desiderio non è mai rappresentazione, bensì “macchina” imprevedibile di produzione del reale, e di conseguenza la soggettività non si può declinare che in termini di evento, singolarità, formatività. Non si può, cioè, vincolare il volere al valore, di modo che se si merita qualcosa allora lo si vuole, e se lo si vuole è perché lo si merita. Questo binomio valore-volere funziona infatti come una strategia di governo e di contenimento del volere, un modo per neutralizzare l’imprevedibilità del volere annullandolo come principio attivo e destituendolo ad effetto derivato, appunto a rappresentazione. Come se non si potesse volere qualcosa senza meritarlo, o d’altra parte meritarlo eppure non volerlo. Queste due opzioni sarebbero altrettanti comportamenti devianti nell’economia della valutazione, cioè dell’atto di stabilire valori e istituire la condizione di possibilità dello scambio simbolico delle equivalenze: se chi vuole senza averne titolo non è che un ingenuo, un truffatore o un folle schizofrenico, chi non vuole ciò che ha meritato di ottenere può rappresentare addirittura un principio di eversione del sistema. Il primo non può volere, il secondo deve volere. Entrambi sono in modo diverso degli im-postori, cioè dei soggetti che si mettono fuori dal proprio posto, e per entrambi si tratta di ricondurli al proprio posto, all’ordine costituito del valore-volere. In ogni caso, occorre sempre ridimensionare il soggetto del desiderio per poter circoscrivere i desideri dei soggetti e, così, marginalizzarli a fantasmi idiosincratici. Bisogna cioè indurlo a “misurarsi la palla”, come si dice in napoletano quando si vuole invitare a non sciogliere il rapporto normativo fondante tra il volere e il valore. Se si può volere solo ciò che si vale e si merita, ciò significa che il desiderio è commisurato a un valore anteriore che lo esprime e da cui deriva, come se fosse l’effetto di una struttura significante che lo pre-comprende e, pre-comprendendolo, lo cattura e lo limita. Eppure, la volontà di potenza, per poter essere tale, dovrebbe essere un atto primo, un’effrazione del corso dei significati e delle cose, la singolarità che dà inizio a ogni concatenamento di comportamenti, cioè che causa senza essere causato, che spiega senza poter essere spiegato, e che in nessun modo può pretendere di essere garantita in virtù di ciò che spetterebbe a chi vuole. In fondo, non sarebbe veramente un volere se ciò che vogliamo ci spetta, il nostro desiderio non sarebbe davvero ciò che vogliamo ma semplicemente quanto ci è dovuto sulla base del sistema dei valori correnti. Certo, il volere ha a che fare intrinsecamente con i valori, con “qualcosa che ci tira da qualche parte con il suo peso” e che ci fa appunto “propendere” per una condotta piuttosto che per un’altra, dandoci un obiettivo che “valga la pena” di essere voluto e perseguito. Se non avessimo valori tutto per noi sarebbe equivalente e indifferente, e quindi non ci sarebbe neanche materia per esercitare la nostra volontà. E, tuttavia, quello che fa la valutazione è proprio sospendere il nostro personale propendere, per appenderlo a qualcosa di predeterminato, a una sua rappresentazione stilizzata, in modo che di ciascuno sia autorizzato solo il volere di cui si possa verificare e certificare il corrispondente valore. Ma, come ha spiegato Luc Boltanski (2009 [2014: 59]), una società che persegua questo modello “meritocratico” (Boarelli 2019, Littler 2017) di assegnare ad ogni volere quote di potenza calcolate sul metro del corrispettivo valore, è in ultima istanza irrealizzabile, oltre che decisamente indesiderabile: Una delle ragioni [per cui lo è] attiene al carattere instabile e non immediatamente osservabile delle capacità personali che la verifica ha il compito di rivelare. Dal momento che non è possibile reiterare indefinitamente quelle verifiche, si tende inevitabilmente a radicare le potenze oggetto di esame negli strati più profondi della persona degli attori, vale a dire nel loro sostrato biologico. Le società che si vogliono meritocratiche sono a forte rischio di razzismo [...], o quantomeno tendono a un naturalismo biologizzante. Una seconda ragione attiene al fatto che è impossibile ideare formati di verifica in grado di strutturare ciascuna verifica condotta localmente in modo tale da delimitare in modo rigoroso il punto di vista dal quale è opportuno valutare i candidati e contemporaneamente neutralizzare totalmente gli effetti del contesto. Ne consegue che per condurre verifiche davvero ‘giuste’ in senso meritocratico bisognerebbe predisporre un formato di verifica ad hoc per ciascuna singola prova alla quale una certa persona venisse sottoposta in ogni specifica situazione data: è evidente che il risultato sarebbe di rendere le verifiche del tutto incommensurabili tra loro, e quindi incapaci di legittimare delle gerarchie sociali. La loro utilità si ridurrebbe a nulla. Eppure, malgrado l’inutilità di queste verifiche valutative (che paiono tanto più intollerabilmente autoritarie quanto più, appunto, ottusamente vane e velleitarie), quello che continuamente ci ripete il discorso della valutazione è che bisogna addomesticare il volere soggettivo sulla base di un correlato oggettivo sul piano del valore. Ossia che bisogna regolarizzare la dismisura del volere, dargli un limite attraverso una misura. Sta di fatto che quando il valore si converte in volere, ormai non è più in gioco il desiderio ma entra in scena il dovere, e allora diventa davvero tutta un’altra storia. Nel valore-volere tutto il desiderio è già dato e calcolato, e il soggetto risulta effettivamente nient’altro che un fatto compiuto. Il suo valore ipoteca il suo volere impedendogli di fare la differenza, anzi di essere una differenza. Lo condanna a ripetere ciò che è, rendendo velleitario e quindi sopprimendo in lui ogni impulso creativo e generativo. Con la sua pretesa di ricondurre gli im-postori al loro posto, la valutazione riterritorializza ciò che la potenza desiderante del soggetto minaccia costantemente di deterritorializzare. Per quanto impraticabile, la valutazione è lì per riaffermare ostinatamente un principio di ricomposizione ed equivalenza tra valore e volere, tra ciò che si è soggettivamente e ciò che si è ammessi a volere nella realtà oggettiva, tra meriti personali e consacrazioni istituzionali. Ma, considerando la sua intrinseca irrealizzabilità, si comprende bene come in fondo la sua vera missione non sia “tanto il tentativo di misurare il valore, bensì il tentativo di affermare i valori” (Coin 2015: 117), certi valori in particolare, se non altro quello per cui bisogna sempre ricordarsi in ogni caso di misurarsi la palla. E, si sa, misurarsela è un po’ evirarsi... 5. I testi “Senza valore”: un caleidoscopio rappresentativo. Per poter realizzare classificazioni e classifiche la valutazione ha bisogno di ridurre (in termini epistemologici) a misura comune, ma in questo modo finisce per alterare le condotte dei ricercatori, la loro costruzione di relazioni tra mezzi e fini, fino a condizionare la natura stessa dei prodotti (ah, prodotto, participio passato di un verbo all’infinito: quindi tutto è già successo) della ricerca stessa. Un meccanismo che si allontana radicalmente dal processo, che è invece materia viva, tecnica (téchne- τέχνη), pensiero del come-si-fa, centrale nelle culture più feconde nella storia del pensiero, delle civiltà e dei processi di civilizzazione. Con la presente curatela (opera di cura e di curiosità) abbiamo voluto valorizzare soprattutto questa dimensione in fieri del sapere, il come-si-pensa durante la ricerca e non solo dopo, in fase di accertamento e validazione. Lo abbiamo fatto prestando attenzione a come il lavoro si trasforma, spesso, dalla costruzione di un disegno della ricerca alla stesura di un testo, fino al momento del referaggio, in un gioco di empatia (prima, durante e dopo) tra valutato e valutatore. Insomma, i testi che qui vi proponiamo vogliono essere anche un esercizio terapeutico che ribalti la compiacenza servile in indipendenza di pensiero, e sfidi i modi in cui la valutazione limita, sovverte, talvolta boicotta, scritti che spesso hanno molto da dire e da dare alla Comunità. E alle Società. Partecipando a Senza valore, ciascuno degli autori è stato animato da un desiderio di cambiamento, ma anche di divertimento in un progetto comune. Ognuno di noi si è impegnato ad amplificare il confronto e il dibattito attraverso momenti di presentazione, seminari, convegni, nello spirito di una processualità inerente a quel sapere come materia viva che qui abbiamo inteso promuovere. Abbiamo deciso di organizzare i contributi in quattro sezioni tematiche, che rispecchiano quattro diverse declinazioni dei temi del valore e della valutazione. La prima sezione raccoglie i contributi che descrivono gli scenari teorici, epistemologici e socio-culturali in cui si iscrive e trova legittimazione il discorso sulla valutazione. Daniele Goldoni, nel suo saggio intitolato Originalità ci presenta una dissertazione filosofica su un concetto che è sempre più assurto a parametro centrale nella valutazione della ricerca scientifica. Partendo da Kant, la sua argomentazione mette in risalto la tensione tra un’originalità come valore riconosciuto in un determinato contesto sociale in base a un giudizio di “gusto” – dunque in relazione a parametri stabiliti socialmente ad esempio dalle comunità accademiche e dalla letteratura vigente – e un’originalità assoluta, che «non è oggetto di valutazione, ma è il criterio di ogni valutazione» (ultra, p. xxx). Con un argomento che ricorda quello deleuziano sulla volontà di potenza, l'autore ci illustra come la promozione di un’originalità di gusto, ovvero un'originalità non fondativa ma fondata, rischi di ridurre il concetto a mero "criterio formale" per l'autoriconoscimento di comunità accademiche in definitiva tutt'altro che aperte all'inedito. Questo tipo di prassi si rivela piuttosto un potenziale cavallo di troia per introdurre, attraverso la retorica della creatività, logiche imprenditoriali negli ambiti tanto dell’Università quanto delle politiche culturali. Ideale continuazione della linea di Goldoni è l'indagine di Daniele Garritano (Trust the Process. La costruzione del testo scientifico fra ideologie della scrittura e pratiche di decifrazione) sugli impliciti comunicativi attraverso i quali le comunità accademiche si riconoscono e nell’ambito dei quali si “costruiscono” tanto la conoscenza scientifica quanto i criteri di valutazione della stessa. Partendo dall’inestricabile intreccio tra economia e saperi, il saggio propone, con Foucault, Bourdieu e de Certeau, di esplorare gli orizzonti epistemici, gli immaginari e le pratiche di produzione di senso all'interno delle comunità scientifiche per dissotterrare quell’insieme di valori eterogenei e mutevoli che sottendono e condizionano implicitamente ordini epistemologici all’apparenza neutrali e oggettivi. Non si tratta solo di leggere i rituali istituzionalizzati che rappresentano l’ideologia della valutazione, ma di rivolgersi alle pratiche che quotidianamente producono e riproducono il paradigma della valutazione nelle modalità della scrittura e della lettura, nel sistema di aspettative, credenze e regole nel quale quelle assumono il loro orizzonte di senso, nei «modi quotidiani di scrivere e di leggere il testo scientifico, cioè in un senso comune che orienta la produzione e la circolazione dei saperi» (ultra, p. xxx). Senza per questo disconoscere le possibilità di antagonismi e rotture che proprio la natura costruita e processuale di quelle pratiche lascia aperte. In queste crepe nuovi discorsi - discorsi apparentemente senza valore poiché "altri" rispetto a quelli comunemente intesi - possono emergere, così come questo volume auspica. A questo riguardo l’appello di un rappresentante delle “scienze dure” come il fisico teorico Mario Nicodemi, Sostenere il valore dell’innovazione nella ricerca scientifica, è particolarmente significativo con. In un’argomentazione che suona qui come una risposta indiretta alle questioni sollevate dai due precedenti saggi, Nicodemi invita a pensare l’innovazione non solo come ricerca di nuovi contenuti, ma di nuove pratiche e modalità di ricerca votate all’interdisciplinarità e alla trasversalità, al fine, appunto, di lasciar aperto lo spazio di conflitti produttivi e direzioni audaci nella ricerca scientifica. Un appello che invita anche gli enti finanziatori a un impegno che sia fondato non su mode intellettuali ma su più rigorose e coraggiose aperture epistemologiche. Questo invito richiama il tema del fondamento teorico-culturale dell'economia, affrontato da Andrea Fumagalli in Dalla terra, alle risorse natuali, alla natura: l’esauribilità dell’energia e in La violenza della finanza e il disagio di vivere: conflitto o nichilismo?. Nel primo egli utilizza il concetto di bio-economia di Georgescu-Roegen per mettere in discussione la teoria marginalistica di stampo marshalliano e la modalità statica e astratta con cui l’economia sia classica che neoclassica si è riferita alle “risorse naturali”. Un sistema economico che presuppone la “non deperibilità” delle risorse produce disastri ambientali, ma anche perversioni epistemologiche che possono essere equiparate (sebbene in piccolo) ai paradossi dell’applicazione di una logica imprenditoriale al sapere. Le ricadute di queste perversioni sono, come Fumagalli mostra nel suo secondo contributo in chiusura di questo volume, in definitiva psicologiche ed esistenziali. Il disagio di vivere dell’uomo contemporaneo afflitto dal precariato (oggi nel linguaggio prevalente la chiamiamo flessibilità) è essenzialmente legato a meccanismi di valorizzazione basati su presupposti spacciati per neutrali (di cui sarebbero gli algoritmi della finanza a fare da garanti) ma in realtà espressione di una precisa gerarchia finanziaria. In un paradigma bioeconomico che intreccia sempre più sfera finanziaria, sfera tecnologica e sfera cognitivo-affettiva, tali meccanismi risultano prima imposti agli individui e poi da essi interiorizzati in un tipico processo di identificazione con l’aguzzino proprio del "realismo capitalista" (Fisher, 2009), che presenta molti aspetti in comune con i meccanismi della valutazione della ricerca. La cultura del dato, delle statistiche, delle classificazioni è il contesto in cui la valutazione, insieme a una certa forma di sorveglianza (Zuboff, 2019), diventa habitus. Si tratta di un paradigma sempre più imperante, emblematicamente rappresentato dal bollettino quotidiano dei dati sul coronavirus emesso dalla Protezione Civile nei mesi dell’emergenza. E proprio i cambiamenti che la condizione di distanziamento sociale dovuta all'emergenza Covid hanno prodotto nella costruzione delle relazioni umane, lavorative, didattiche, insieme alla centralità assunta dalle tecnologie della comunicazione e dell'elaborazione dati in questo processo, sono al centro della seconda sezione di questo lavoro. Riflessioni che troveranno poi nella quarta sezione una sponda attraverso l'approfondimento delle tecnologie algoritmiche e della più generale configurazione tecno-culturale che alimenta il contesto della valutazione. Gli autori della seconda sezione analizzano le problematiche che affliggono il mondo del lavoro, dell'istruzione e della ricerca, insieme ai processi di soggettivazione che li accompagnano. Problematiche senza dubbio accentuate, se non radicalizzate, dall'emergenza che ci troviamo a vivere durante la stesura di queste pagine, ma da cui l'emergenza stessa può aiutare a intravedere vie d'uscita. Enzo Rullani, in Scuola in transizione: reinventare l’apprendimento per gestire la complessita’ emergente, propone una serie di campi di innovazione per la scuola alla luce di una crisi, quella generata dal Covid, che, mentre ha messo in risalto l’inadeguatezza del sistema scolastico attuale, ha anche «sollecitato l’impiego di creatività individuale e di mezzi di relazione nuovi» (ultra, p. xxx). Il clash che l’attuale crisi ha messo in evidenza è quello tra un sistema educativo ancora fortemente impregnato da una cultura fordista – basata su percorsi d’apprendimento di tipo istruttivo, gerarchico e statico – e un sistema socio-economico di tipo post-fordista flessibile e dinamico. In questo conflitto emerge l’affanno del sistema scolastico (e di quello della ricerca) e l’inadeguatezza dei suoi dispositivi, ingolfati nel tentativo di mediazione tra i due mondi. Senza un profondo cambiamento della visione e dei modelli d’apprendimento, infatti, la modernizzazione della scuola è condannata al fallimento di una mera trasformazione manageriale, che vedrebbe proprio nella valutazione il suo strumento attuativo. Un approccio “creativo” all’apprendimento, invece, come quello proposto da Rullani, sarebbe in grado di farsi carico dei “salti” e dei percorsi rischiosi, inizialmente in perdita, che sono la premessa per aprire nuove vie e cambi di paradigma nel lungo periodo. Sempre partendo dalle trasformazioni attualizzate dall’emergenza Covid, Giovanni Costa («Teniamoci in contatto, a distanza». Tempi e spazi del lavoro organizzato nell’epoca del Covid-19) si interroga sul senso della relazione spazio/tempo nelle aziende, nelle istituzioni e nella scuola. Nel contesto del confinamento e del lavoro da casa, mediato dalle tecnologie della comunicazione, i concetti di distanza, prossimità e interdipendenza necessitano di essere ripensati rispetto alla teoria classica dell’organizzazione. Lo spazio di lavoro e la sua organizzazione, infatti, non hanno solo a che fare con l’efficienza ma anche con la strutturazione di relazioni e di modi di percepire la realtà; hanno, cioè, «un elevato ruolo simbolico» (ultra, p. xxx). E la mediazione delle ICT, rendendo meno cruciale la contiguità fisica nella strutturazione delle relazioni tanto lavorative quanto didattiche e affettive, interviene in maniera decisiva nella ridefinizione delle categorie spazio-temporali, così come delle pratiche sociali. «Quello che sembra venir meno è il ruolo della concentrazione spazio- temporale delle decisioni (o delle esperienze) collettive» (ultra, p. xxx). Non si inganni il lettore: la prospettiva dell’autore, che noi condividiamo, non è “apocalittica”. La Rete non è una solo minaccia ma può essere una risorsa, ma «per essere valorizzata richiede che se ne conosca in profondità la grammatica e la sintassi e che diventi essa stessa oggetto di insegnamento» (ultra, p. xxx). In questo quadro i dispositivi economico-politici applicati alla determinazione del valore tanto nel mercato quanto nel mondo dell’istruzione e della ricerca, richiedono anch’essi un ripensamento: strumenti come il prezzo, il ranking, gli indicatori bibliometrici e di impat factor, devono essere riposizionati dando più peso ad altre proposizioni di valore quali il valore dello spazio, della sicurezza, della sostenibilità, delle relazioni, se si vuole «arrestare il processo di banalizzazione quantitativa di tutte le interazioni sociali» (ultra, p. xxx). Riflessioni condivise anche da Carlo Grassi (xxxxx) il quale, rifacendosi al concetto bataillano di “silenzio definitivo”, vede nel distanziamento e nelle relazioni a distanza tecnologicamente mediate non tanto dispositivi di controllo sociale e limitazione della libertà quanto la radicalizzazione di tendenze antropologiche ancestrali verso la solitudine e la spaziatura come condizione necessaria a ogni comunicazione. Nello spirito dell’interdisciplinarità Senza Valore raccoglie contributi che spaziano dalla sociologia alla riflessione filosofica, dagli studi organizzativi all’estetica e all’art management. Proprio l’ibridazione tra questi differenti approcci anima la terza sezione di questo volume. Alberto Abruzzese ripropone un saggio del 2014 dal titolo Insegnare comunicazione, in cui mette in guardia da facili strumentalizzazioni della comunicazione nell’ambito del marketing dei beni culturali. Al di là delle retoriche sull’importanza dei beni storici, artistici e ambientali, Abruzzese sottolinea come la tendenza a «dividere i contenuti dagli strumenti» (ultra, p. xxx) sia il sintomo di un difetto di pensiero mediologico che affligge il pensiero umanistico e le classi dirigenti da esso formate. È dunque l’intera genealogia dell’umanesimo come strumento di dominio, dalle sue radici greco- romane fino alla mondializzazione capitalista, passando per il cristianesimo e l’illuminismo, a dover essere decostruita per poter far emergere il vuoto di senso in cui la modernità si sta rivelando. Un vuoto di cui l’arte è portavoce, ma che invece proprio la comunicazione dell’arte oggi tenta di mascherare, censurandolo attraverso rappresentazioni rassicuranti ed edificanti. Luca Zan (Non ci sono scorciatoie. Il difficile rapporto tra management e arte), riportando la sua decennale esperienza nel campo della gestione delle organizzazioni culturali, denuncia la proliferazione di impostazioni epistemologicamente ingenue nell'ambito delle narrazioni mainstream del management, troppo inclini a rapide scorciatoie di stampo razionalista e poco inclini alla contaminazione, lenta e sfidante, con i saperi umanistici. Un vizio riflesso e accentuato dall'impostazione approssimativa dei corsi di studio universitari e dalla confusione organizzativa che affligge il 3+2 in Italia. Contro il quale occorre operare sistematica sperimentazione e attitudine alla trasversalità. Infine Luigi Maria Sicca, Domenico Napolitano e Davide Borrelli (Per una antropologia delle organizzazioni: direzione d'orchestra e identità di genere) si interrogano sull’identità di genere e sulle relazioni di potere e cambiamento, in un parallelismo tra mondo delle organizzazioni e mondo artistico-musicale. Il vizio metafisico che il binarismo di genere riproduce nell’ambito dello sviluppo organizzativo, esemplificato dalla figura archetipica (e metafora ormai abusata) del direttore d’orchestra, alimenta forme di non inclusione che hanno molto in comune con l’atteggiamento eteronormativo della valutazione. Per contro pratiche artistiche come l’improvvisazione e la conduction aiutano a dischiudere un paradigma dell’accoglienza valido oltre i limiti di quelle stesse pratiche, anzi latente in tutte le dinamiche socio-antropologiche delle realtà organizzative – considerate come soggettività centrali nei processi di produzione del valore e dei valori. Tale paradigma, esemplificato dalla figura maieutica del “conduttore”, non è votato ad attualizzare forme e valori pre-determinati, ma a far emergere questi dalle relazioni immanenti tra gli attori coinvolti. Si tratta, cioè, di mettere le relazioni prima delle identità, di far derivare le categorie dai processi vivi e desideranti di costruzione delle singolarità, in maniera non normativa e non deterministica, per «far venire alla luce e lasciar essere il non ancora dato» (ultra, p. xxx). L’invito è, in definitiva, quello di promuovere l’accoglienza dell’alterità come ethos dello sviluppo organizzativo che riguarda tanto le aziende quanto le università e le istituzioni culturali. La quarta e ultima sezione, come annunciato, è dedicata all'approfondimento della modalità algoritmica di rapporto al sapere che influisce in maniera determinante sulle pratiche della valutazione, attraverso metriche automatizzate che riflettono, al di là della mera tecnicalità, una vera e propria cultura del calcolo. L'Articolo accademico generato automaticamente di Maria Luisa Stazio è al contempo un esperimento e una provocazione: laddove i parametri della valutazione tendono a ridurre il sapere a dimensione quantitativa, un articolo scritto da un algoritmo programmato per rispondere pedissequamente a quei parametri potrebbe paradossalmente essere promosso a pieni voti nonostante sia privo di validità scientifica quanto alla sua veridicità e relazione col reale. Angelo Baccelloni, Gerarda Fattoruso, Maria Grazia Olivieri, Massimo Squillante (Consumer decision-making process: un approccio multicriteriale) offrono una panoramica tecnica sul decision-making algoritmico e riportano dati empirici sulla sua efficacia nell’ambito della persuasione dei consumatori. Nonostante il taglio diverso rispetto agli altri contributi qui raccolti, l’articolo contribuisce a mettere in luce gli elementi di senso iscritti nelle tecnologie e nei processi che presiedono tanto le azioni quanto le governance del mercato. Facendo trasparire l’analogia tra quei processi e quelli vigenti nell’ambito della valutazione accademica, questo sguardo tecnico rivela, a chi sa ben guardare, che l’assimilazione sempre maggiore dell’università al mercato è condotta su un terreno socio-tecnico, in cui l’ideologia è iscritta, in definitiva, nella qualità delle operazioni algoritmiche stesse. 6. Conclusioni Con questo capitolo introduttivo abbiamo inteso raccogliere una riflessione ad amplio spettro sulle condizioni che caratterizzano il contesto della ricerca accademica di questi anni, e in particolare sulla questione archetipica del valore, della valutazione e dei suoi effetti di veridizione. Mai come oggi sperimentiamo la stridente contraddizione tra l’aspettativa di certezza rivolta alla tecnologia e alla scienza e il principio di fallibilità e di “scetticismo organizzato” che governa la ricerca (Merton 1942). Ce lo testimonia la pandemia in corso anticipata da un lungo ciclo di illusioni e fantasie onnipotenti, rispetto alle quali l’indicazione a livello globale è la meno tecnologica possibile: lavare le mani, starnutire con discrezione, non toccarsi. Da più parti si continua ad esigere risposte certe e chiare; mentre la comunità scientifica ripete con tenacia e alla noia che loro, i medici, di soluzioni proprio non ne hanno. E alla richiesta di rassicurazioni, ribadiscono che la medicina non è una scienza esatta. Come non lo è l’Economia (Oikonomia, Οικονομία) che stabilisce di tempo in tempo le regole (nomos - νόμος) della casa (oikos - οἶκος). E questo libro rende evidente, con senso del limite e rinuncia a facili (e talvolta necessarie) rassicurazioni, che né l’una né l’altra sono scienze esatte. Già, rassicurare e valutare (altri hanno ampliamente delineato il binomio “valutare e punire”, Pinto, 2012): perché è questo uno scopo sommerso, invisibile eppure fondamentale delle regole che si danno tutte le nostre istituzioni e quindi anche quelle accademiche. Ce ne parlava Alfred Bion (1962a; 1962b) già alla metà del secolo scorso, quando in seno al Tavistock Institute di Londra evidenziava che se è vero che esistono delle funzioni dichiarate (efficacia, efficienza, economicità) cui le istituzioni, quindi anche le Università, assolvono; è anche vero che altre restano invisibili (Perini, 2007; Sicca, 2016): quelle per gestire ansie primitive, fantasmi, con cui ognuno ha a che fare nelle proprie attività. Le regole che ci siamo dati nel mondo accademico sono come dei “contenitori” entro cui spendiamo la maggior parte del tempo della nostra vita adulta e che svolgono un contenimento di marca infantile. Una funzione materna quella del contenere, rassicurare e valutare, dunque, nella versione di una mamma buona che nutre e conferisce lavoro, dignità, ruolo, stipendio, riconoscimento sociale; ma anche una mamma che sa ingannare e avvelenare quando ci illude che siamo i più belli. Senza tempo. Spetta a noi, come studiosi e docenti, farci carico di un lavoro di consapevolezza per attraversare la stagione che ci è capitata in sorte, leggendo il linguaggio, i codici, le regole prevalenti, problematizzandole senza derive estremiste. Guardando appena poco indietro e rammentando La banalità del male (Arendt, 1963 [1974]) possiamo constatare, in fondo, che per tutto quanto concerne controllo, valutazione, ambizione ben misurabile, con precisione e al millimetro, grazie all’onnipotenza del calcolo e per tutto quanto deriva dalle premesse epistemologiche illustrate in questo nostro capitolo introduttivo ... abbiamo già dato. Infine, una considerazione amara e inevitabilmente autocritica guardando questa volta avanti a noi: sempre più permeante è considerare vincenti quei profili accademici (premiati dall’ideologia della valutazione, se portata all’estremo) che svolgono con crescente specializzazione e competenza attività imprenditoriali e manageriali, specie quelle di fund raising e di coordinamento di lavori di squadra e sempre meno attività di studio. Sempre di più e sempre più i giovani e giovanissimi, per attraversare e vincere le tappe del proprio percorso di carriera, si impegnano sin dalle prime fasi nel lavoro di ricerca dei finanziamenti alla ricerca, piuttosto che nel fare ricerca: il che, converranno i nostri lettori, non è esattamente la stessa cosa, anche guardando (nuovamente con sguardo al passato) alla storia dell’economia della conoscenza e, in particolare, al contributo di Bourdieu (1979 [2001]) laddove introduce la teoria della pratica e della logica dei campi, e della differenziazione. Con l’esito prevedibile, nel lungo periodo, di formare generazioni di somari o, comunque, di ricercatori che non hanno mai fatto pesanti investimenti di tempo in ricerca o di studiosi che non hanno mai studiato, fino ad approdare a una paradossale distinzione tra ricerca e studio. Nulla di male in sé (forse, almeno immaginando si possa guardare al nuovo con occhi nuovi) a meno che non lo si consideri sintomo di una affermazione delle burocrazie (nell’accezione patologica, come inversione del rapporto mezzi-fini) sulle democrazie (come luogo imperfetto di espressione della soggettività, quindi mezzi in funzione di obiettivi segnati in ragione di priorità inesorabilmente valoriali). Pensiamo, in tal senso, a quei modelli di governance universitaria, che incedono con crescente insistenza, che vedono negli incentivi monetari l’architrave premiante dell’intero impianto accademico: così è già in molte Università di grande prestigio internazionale (specie negli Stati Uniti) in cui tendono a restare pochi i permanent professor, mentre la maggior parte dei membri delle faculty sono strutturalmente impegnati nella partita della mobilità dei mercati del lavoro, accademico e non. Con una parallela competizione per la partecipazione ai panel dedicati all’attribuzione dei fondi di ricerca, condizione necessaria per accedere alla vita dei Dipartimenti, in un circuito chiuso, insomma, che ricorda il serpente che si mangia la coda; o il dilemma dell’uovo e della gallina. Agli ammiratori (senza dilemma) di questo approccio che oggi è pensiero prevalente, a coloro che in esso vedono una opportunità di crescita e di sviluppo, noi rispondiamo con lo sgomento di Ulrich che dice di uno stato di natura che ciascuno vive (ognuno a modo proprio, con maggiore o minore consapevolezza) al cospetto di ogni contemporaneità. Ponendo quindi, alcune domande, tanto semplici e banali quanto senza risposta certa, univoca, scientifica. Domande radicate nella storia della filosofia e sempre verdi: chi definisce il merito alla base del “governo dei migliori”? A chi sono affidati i processi di selezione? Questi ultimi sono davvero in grado di smarcarsi da quella “lotteria naturale” cara a Rawls (1971), ovvero a condizioni non pianificabili (anche per i più ingenui in grado di profetizzarne ottimisticamente l’eliminazione o il superamento) come etnia e varianti, classe sociale e varianti, genere e varianti.., e altro ancora?
2020
Senza Valore
Algoritmi;Valore;Consumer decision-making process; Metodi Multicriteriali
02 Pubblicazione su volume::02a Capitolo o Articolo
Consumer Decision-Making Process: Un Approccio Multicriteriale / Baccelloni, Angelo; Fattoruso, Gerarda; Grazia Olivieri, Maria; Squillante, Massimo. - (2020).
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11573/1493655
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