Nel famoso brano More Than Words, per gli Extreme, una rock band degli anni 80 e 90, le parole I love you non sembrano essere sufficienti come dimostrazione dei sentimenti provati. Cosa vi è more than words, più delle parole, o, forse, oltre le parole? Se dal testo degli Extreme possiamo ricavare l’intuizione che siano forse i comportamenti non verbali ad essere l’oggetto di ciò che vi è oltre le parole, la nostra analisi vuole prendere una direzione diversa. Il nostro lavoro si fonda sull’ipotesi che oltre le parole vi sia, innanzitutto, la struttura, l’organizzazione sistemica, della lingua. Il fulcro, ed il punto di partenza e d’arrivo della nostra analisi, non è quindi tanto ciò che di non linguistico vi è oltre alle parole, anche se saremo costantemente obbligati a discutere ed integrare il non-linguistico nella nostra prospettiva, bensì ciò che di più propriamente linguistico vi è oltre le parole. Se la prospettiva da cui intendiamo partire è così diversa da quella degli Extreme, perché citarli nell’apertura del nostro lavoro? Perché l’idea che sta alla base di More Than Words, ovviamente non esplicita e non di interesse per gli autori del brano, ma utile come spunto di avvio e di riflessione, non è poi tanto diversa da quella che si ritrova in alcuni posizioni chiave della linguistica e della psicolinguistica del Novecento e contemporanee, e soprattutto in quelle correnti interessate alla riflessione sulla relazione tra linguaggio e pensiero. Vi è sicuramente qualcosa che va oltre le parole, qualcosa che viene inteso come più importante delle parole e che viene spesso assunto come la base stessa del loro significato: il mondo dei concetti. Gli approcci che si fondano su questa prospettiva vedono le parole come puntatori verso concetti determinati pre- o a-linguisticamente ed ignorano, più o meno volutamente, la possibilità che la lingua, e più in generale il linguaggio, abbia un ruolo nel dare forma al nostro pensiero e che, quindi, svolga una funzione cognitiva oltre a quella comunicativa generalmente accettata. All’interno del panorama degli studi cognitivi di questo e del precedente secolo, vi sono state tuttavia voci che, mantenendosi fuori dal coro generale, riportano l’attenzione sugli aspetti formativi del linguaggio sul pensiero: Boas, Sapir e Whorf sono i nomi classici della tradizione generalmente identificata come “relativismo linguistico”. Lucy e Levinson prima ed in seguito Boroditsky e Lupyan sono alcuni dei nomi che nel nostro secolo hanno puntellato e mantenuto in vita quella tradizione che, generalmente apertamente contrastata e boicottata dagli approcci universalisti e più specificatamente generativisti, vedeva il linguaggio, sulla linea della spesso non esplicitata tradizione humboldtiana, come l’organo formativo del pensiero. Abbiamo quindi delineato i due temi chiave di questo lavoro: nella nostra prospettiva, oltre le parole vi sono, da un lato, la struttura specificatamente linguistica delle lingue e, dall’altro lato, il ruolo cognitivo-formativo del linguaggio sul pensiero. Questa ricerca si innesta proprio in quella tradizione di studi, il relativismo linguistico, che ha focalizzato la sua attenzione e sforzo investigativo principalmente sul secondo dei temi che a noi interessano, e cioè il ruolo che il linguaggio può avere nel dare vita al nostro modo di pensare e di percepire il mondo. La nostra ipotesi, che sarà l’argomento centrale del presente elaborato e che verrà trattata secondo diversi punti di vista nei vari capitoli, è che focalizzare l’attenzione sulla struttura del linguaggio e su una definizione di significato linguistico e di sistema linguistico di stampo saussuriano e demauriano – temi generalmente ignorati dalla tradizione cognitivista, anche da quella più vicina alle problematiche relativiste – può aiutarci a meglio comprendere e ridisegnare, su basi teoriche più solide, la relazione tra linguaggio e pensiero. Proveremo qui a dare una prima comprensiva ed orientativa panoramica sull’ossatura della nostra proposta teorica, consapevoli che solo un’approfondita discussione degli elementi in gioco può restituire solidità all’argomento che proponiamo. La maggioranza degli approcci relativistici, e soprattutto di quelli di stampo neo-whorfiano – cioè successivi alla psicologizzazione del whorfismo operata inizialmente da Lenneberg (1953) e da Lenneberg e Brown (1954) e definitivamente sancita nell’opera chiave di Lucy, Language diversity and thought: a reformulation of the linguistic relativity hypothesis (1992) – la definizione di lingua e soprattutto di significato linguistico, così come i metodi sperimentali nell’analisi della relazione tra linguaggio e pensiero che ne sono la derivazione, non permettono di chiarire alcuni elementi teorici fondamentali che si pongono necessariamente alla base di ogni investigazione sulla relazione tra linguaggio e pensiero. In particolar modo, rimane spesso non discusso il problema di come poter distinguere tra linguaggio e pensiero, motivo fondamentale per indagare poi la relazione tra i due e quale sia l’effettivo meccanismo d’influenza del primo sul secondo. È chiaro, infatti, come l’analisi dell’influenza del linguaggio sul pensiero sia, innanzitutto e allo stesso tempo, un’analisi della relazione che vi è tra i due elementi e come, in ultimo, questa domanda si manifesti, sia teoricamente che sperimentalmente, nella possibilità stessa di una sfera del linguistico autonoma da quella del concettuale. Inserendosi in quella tradizione (minoritaria) che all’interno delle scienze cognitive non vede il linguaggio come una serie di etichette apposte a concetti preformati, il relativismo linguistico deve risolvere la questione del rapporto tra linguaggio e pensiero garantendo al primo un margine di autonomia rispetto al secondo. A nostro avviso, gli approcci neo-whorfiani, pur riconoscendo un livello di indipendenza del linguaggio, non arrivano mai a proporre una risoluzione teorica, così come pratica, della distinzione tra linguaggio e pensiero. Questa critica al relativismo di nuova generazione non implica il suo abbandono, ma al contrario la nostra analisi si pone come scopo proprio il tentativo di fornire alla tradizione relativistica una solida base teorica che garantisca la possibilità di distinguere tra linguaggio e pensiero, fornendo quindi lo sfondo argomentativo su cui poi costruire l’indagine e la metodologia empirica. È giusto tuttavia puntualizzare che le basi che tenteremo di porre ci porteranno a ripensare non solo lo sfondo teorico ma anche il meccanismo di influenza del linguaggio sul pensiero. Se, banalizzando per motivi esplicativi, i neo-whorfiani ipotizzavano due insiemi di rappresentazioni distinte, una linguistica e una concettuale, e vedevano il ruolo cognitivo delle rappresentazioni linguistiche nella loro interferenza su processi cognitivi altrimenti non-linguistici, in direzione opposta, noi arriveremo a proporre un meccanismo diverso (in linea con recenti correnti in psicologia e psicolinguistica): l’influenza del linguaggio sul pensiero non è tanto una questione di interferenza tra diversi insiemi di rappresentazioni, quanto il fatto che il linguaggio – e più precisamente l’aspetto sistemico della lingua – si delinea come uno degli ingredienti che contribuiscono a dare forma alle nostre rappresentazioni mentali, le quali derivano da diversi tipi di esperienza (come ad esempio quella percettiva, sociale, culturale, emotiva), tra cui quella linguistica. Ripartendo dalle nozioni saussuriane di significato linguistico e di sistema, così come vengono riproposte ed analizzate nella prospettiva di Tullio De Mauro, tenteremo di delineare la possibilità che vi sia effettivamente un livello del linguistico indipendente da quello concettuale e che questo risieda nella struttura della lingua come rete di pertinenze stabilizzatesi a partire dagli usi. Come vedremo, questo ci permette di pensare il livello del linguistico non come autonomo nel senso di indipendente dal resto della nostra cognizione ed esperienza del mondo, ma nel senso di specifico, particolare, proprio del livello linguistico sia di analisi che di strutturazione della nostra esperienza. Il contributo che vogliamo apportare qui, se consideriamo la nozione stessa di sistema, non è tanto di stampo teorico quanto applicativo. Difenderemo infatti l’ipotesi che la nozione saussuriana di sistema linguistico sia in linea con gli assunti teorici della semantica distribuzionale, secondo la quale – citando uno dei fondatori - “You shall know a word from the company it keeps” (Firth, 1957), e che alcuni aspetti del sistema saussuriano possano essere operazionalizzati mediante i metodi e i modelli distribuzionali. Mostreremo come la semantica distribuzionale è di matrice saussuriana sia a livello storico che a livello teorico, presentandosi ad oggi come una dei più feconde e innovative prospettive relazionali e usage-based al significato linguistico. Proprio l’analisi delle limitazioni e dei punti di forza dell’approccio distribuzionale ci permetterà di far luce su cosa intendiamo per livello specificatamente linguistico del significato (quello che nell’elaborato chiameremo “language-specific” level of linguistic meaning) e come questo si delinea come il tipo di esperienza linguistica che diventa uno degli ingredienti formativi del pensiero. Partendo da una visione multimodale delle rappresentazioni, sia a livello di indagine cognitiva che a livello di indagine linguistica, mostreremo come l’elemento lingua-specifico sia proprio l’aspetto relazionale e come questo diventi un elemento fondamentale nella costruzione del significato. Il modo in cui noi “creiamo” significato (il modo in cui we do meaning) è sempre un dialogo dinamico all’intersezione tra gli elementi concettuali, personali, a volte idiosincratici, del nostro contenuto mentale e la stabilità fluida del sistema di relazioni intra-linguistiche mantenuto in essere e sempre modificato dagli usi che la massa parlante fa della lingua. Il contenuto, così come la struttura della nostra esperienza col mondo, è sempre il prodotto dell’interrelazione tra questa molteplicità di elementi, apportante ognuna la propria specificità. Ciò che il linguaggio sembra particolarmente adatto a fornirci, proprio a partire dalla definizione stessa di significato linguistico e di come esso si viene a formare all’interno della dimensione linguistica condivisa, è proprio il livello sistemico, il sistema di relazioni che noi riusciamo ad astrarre a partire dagli usi e che diventa parte del nostro modo di interfacciarci con la realtà sia interiore che esteriore, mantenendo sempre dinamicamente costrette le applicazioni che ne possiamo fare, così come contribuendo a dare forma ai nostri contenuti mentali. Il relativismo linguistico perde quindi quell’aura di esoterismo di cui troppo spesso e ingiustamente è stato tacciato e viene riportato e ripresentato all’interno di una prospettiva che unisce i più recenti prodotti della linguistica e delle scienze cognitive in una proposta concreta sul rapporto tra linguaggio e pensiero e sulle direzioni e meccanismi d’influenza.

More than words. The structure of language as an ingredient of thought / DE LUCA, Margherita. - (2020 Feb 14).

More than words. The structure of language as an ingredient of thought

DE LUCA, MARGHERITA
14/02/2020

Abstract

Nel famoso brano More Than Words, per gli Extreme, una rock band degli anni 80 e 90, le parole I love you non sembrano essere sufficienti come dimostrazione dei sentimenti provati. Cosa vi è more than words, più delle parole, o, forse, oltre le parole? Se dal testo degli Extreme possiamo ricavare l’intuizione che siano forse i comportamenti non verbali ad essere l’oggetto di ciò che vi è oltre le parole, la nostra analisi vuole prendere una direzione diversa. Il nostro lavoro si fonda sull’ipotesi che oltre le parole vi sia, innanzitutto, la struttura, l’organizzazione sistemica, della lingua. Il fulcro, ed il punto di partenza e d’arrivo della nostra analisi, non è quindi tanto ciò che di non linguistico vi è oltre alle parole, anche se saremo costantemente obbligati a discutere ed integrare il non-linguistico nella nostra prospettiva, bensì ciò che di più propriamente linguistico vi è oltre le parole. Se la prospettiva da cui intendiamo partire è così diversa da quella degli Extreme, perché citarli nell’apertura del nostro lavoro? Perché l’idea che sta alla base di More Than Words, ovviamente non esplicita e non di interesse per gli autori del brano, ma utile come spunto di avvio e di riflessione, non è poi tanto diversa da quella che si ritrova in alcuni posizioni chiave della linguistica e della psicolinguistica del Novecento e contemporanee, e soprattutto in quelle correnti interessate alla riflessione sulla relazione tra linguaggio e pensiero. Vi è sicuramente qualcosa che va oltre le parole, qualcosa che viene inteso come più importante delle parole e che viene spesso assunto come la base stessa del loro significato: il mondo dei concetti. Gli approcci che si fondano su questa prospettiva vedono le parole come puntatori verso concetti determinati pre- o a-linguisticamente ed ignorano, più o meno volutamente, la possibilità che la lingua, e più in generale il linguaggio, abbia un ruolo nel dare forma al nostro pensiero e che, quindi, svolga una funzione cognitiva oltre a quella comunicativa generalmente accettata. All’interno del panorama degli studi cognitivi di questo e del precedente secolo, vi sono state tuttavia voci che, mantenendosi fuori dal coro generale, riportano l’attenzione sugli aspetti formativi del linguaggio sul pensiero: Boas, Sapir e Whorf sono i nomi classici della tradizione generalmente identificata come “relativismo linguistico”. Lucy e Levinson prima ed in seguito Boroditsky e Lupyan sono alcuni dei nomi che nel nostro secolo hanno puntellato e mantenuto in vita quella tradizione che, generalmente apertamente contrastata e boicottata dagli approcci universalisti e più specificatamente generativisti, vedeva il linguaggio, sulla linea della spesso non esplicitata tradizione humboldtiana, come l’organo formativo del pensiero. Abbiamo quindi delineato i due temi chiave di questo lavoro: nella nostra prospettiva, oltre le parole vi sono, da un lato, la struttura specificatamente linguistica delle lingue e, dall’altro lato, il ruolo cognitivo-formativo del linguaggio sul pensiero. Questa ricerca si innesta proprio in quella tradizione di studi, il relativismo linguistico, che ha focalizzato la sua attenzione e sforzo investigativo principalmente sul secondo dei temi che a noi interessano, e cioè il ruolo che il linguaggio può avere nel dare vita al nostro modo di pensare e di percepire il mondo. La nostra ipotesi, che sarà l’argomento centrale del presente elaborato e che verrà trattata secondo diversi punti di vista nei vari capitoli, è che focalizzare l’attenzione sulla struttura del linguaggio e su una definizione di significato linguistico e di sistema linguistico di stampo saussuriano e demauriano – temi generalmente ignorati dalla tradizione cognitivista, anche da quella più vicina alle problematiche relativiste – può aiutarci a meglio comprendere e ridisegnare, su basi teoriche più solide, la relazione tra linguaggio e pensiero. Proveremo qui a dare una prima comprensiva ed orientativa panoramica sull’ossatura della nostra proposta teorica, consapevoli che solo un’approfondita discussione degli elementi in gioco può restituire solidità all’argomento che proponiamo. La maggioranza degli approcci relativistici, e soprattutto di quelli di stampo neo-whorfiano – cioè successivi alla psicologizzazione del whorfismo operata inizialmente da Lenneberg (1953) e da Lenneberg e Brown (1954) e definitivamente sancita nell’opera chiave di Lucy, Language diversity and thought: a reformulation of the linguistic relativity hypothesis (1992) – la definizione di lingua e soprattutto di significato linguistico, così come i metodi sperimentali nell’analisi della relazione tra linguaggio e pensiero che ne sono la derivazione, non permettono di chiarire alcuni elementi teorici fondamentali che si pongono necessariamente alla base di ogni investigazione sulla relazione tra linguaggio e pensiero. In particolar modo, rimane spesso non discusso il problema di come poter distinguere tra linguaggio e pensiero, motivo fondamentale per indagare poi la relazione tra i due e quale sia l’effettivo meccanismo d’influenza del primo sul secondo. È chiaro, infatti, come l’analisi dell’influenza del linguaggio sul pensiero sia, innanzitutto e allo stesso tempo, un’analisi della relazione che vi è tra i due elementi e come, in ultimo, questa domanda si manifesti, sia teoricamente che sperimentalmente, nella possibilità stessa di una sfera del linguistico autonoma da quella del concettuale. Inserendosi in quella tradizione (minoritaria) che all’interno delle scienze cognitive non vede il linguaggio come una serie di etichette apposte a concetti preformati, il relativismo linguistico deve risolvere la questione del rapporto tra linguaggio e pensiero garantendo al primo un margine di autonomia rispetto al secondo. A nostro avviso, gli approcci neo-whorfiani, pur riconoscendo un livello di indipendenza del linguaggio, non arrivano mai a proporre una risoluzione teorica, così come pratica, della distinzione tra linguaggio e pensiero. Questa critica al relativismo di nuova generazione non implica il suo abbandono, ma al contrario la nostra analisi si pone come scopo proprio il tentativo di fornire alla tradizione relativistica una solida base teorica che garantisca la possibilità di distinguere tra linguaggio e pensiero, fornendo quindi lo sfondo argomentativo su cui poi costruire l’indagine e la metodologia empirica. È giusto tuttavia puntualizzare che le basi che tenteremo di porre ci porteranno a ripensare non solo lo sfondo teorico ma anche il meccanismo di influenza del linguaggio sul pensiero. Se, banalizzando per motivi esplicativi, i neo-whorfiani ipotizzavano due insiemi di rappresentazioni distinte, una linguistica e una concettuale, e vedevano il ruolo cognitivo delle rappresentazioni linguistiche nella loro interferenza su processi cognitivi altrimenti non-linguistici, in direzione opposta, noi arriveremo a proporre un meccanismo diverso (in linea con recenti correnti in psicologia e psicolinguistica): l’influenza del linguaggio sul pensiero non è tanto una questione di interferenza tra diversi insiemi di rappresentazioni, quanto il fatto che il linguaggio – e più precisamente l’aspetto sistemico della lingua – si delinea come uno degli ingredienti che contribuiscono a dare forma alle nostre rappresentazioni mentali, le quali derivano da diversi tipi di esperienza (come ad esempio quella percettiva, sociale, culturale, emotiva), tra cui quella linguistica. Ripartendo dalle nozioni saussuriane di significato linguistico e di sistema, così come vengono riproposte ed analizzate nella prospettiva di Tullio De Mauro, tenteremo di delineare la possibilità che vi sia effettivamente un livello del linguistico indipendente da quello concettuale e che questo risieda nella struttura della lingua come rete di pertinenze stabilizzatesi a partire dagli usi. Come vedremo, questo ci permette di pensare il livello del linguistico non come autonomo nel senso di indipendente dal resto della nostra cognizione ed esperienza del mondo, ma nel senso di specifico, particolare, proprio del livello linguistico sia di analisi che di strutturazione della nostra esperienza. Il contributo che vogliamo apportare qui, se consideriamo la nozione stessa di sistema, non è tanto di stampo teorico quanto applicativo. Difenderemo infatti l’ipotesi che la nozione saussuriana di sistema linguistico sia in linea con gli assunti teorici della semantica distribuzionale, secondo la quale – citando uno dei fondatori - “You shall know a word from the company it keeps” (Firth, 1957), e che alcuni aspetti del sistema saussuriano possano essere operazionalizzati mediante i metodi e i modelli distribuzionali. Mostreremo come la semantica distribuzionale è di matrice saussuriana sia a livello storico che a livello teorico, presentandosi ad oggi come una dei più feconde e innovative prospettive relazionali e usage-based al significato linguistico. Proprio l’analisi delle limitazioni e dei punti di forza dell’approccio distribuzionale ci permetterà di far luce su cosa intendiamo per livello specificatamente linguistico del significato (quello che nell’elaborato chiameremo “language-specific” level of linguistic meaning) e come questo si delinea come il tipo di esperienza linguistica che diventa uno degli ingredienti formativi del pensiero. Partendo da una visione multimodale delle rappresentazioni, sia a livello di indagine cognitiva che a livello di indagine linguistica, mostreremo come l’elemento lingua-specifico sia proprio l’aspetto relazionale e come questo diventi un elemento fondamentale nella costruzione del significato. Il modo in cui noi “creiamo” significato (il modo in cui we do meaning) è sempre un dialogo dinamico all’intersezione tra gli elementi concettuali, personali, a volte idiosincratici, del nostro contenuto mentale e la stabilità fluida del sistema di relazioni intra-linguistiche mantenuto in essere e sempre modificato dagli usi che la massa parlante fa della lingua. Il contenuto, così come la struttura della nostra esperienza col mondo, è sempre il prodotto dell’interrelazione tra questa molteplicità di elementi, apportante ognuna la propria specificità. Ciò che il linguaggio sembra particolarmente adatto a fornirci, proprio a partire dalla definizione stessa di significato linguistico e di come esso si viene a formare all’interno della dimensione linguistica condivisa, è proprio il livello sistemico, il sistema di relazioni che noi riusciamo ad astrarre a partire dagli usi e che diventa parte del nostro modo di interfacciarci con la realtà sia interiore che esteriore, mantenendo sempre dinamicamente costrette le applicazioni che ne possiamo fare, così come contribuendo a dare forma ai nostri contenuti mentali. Il relativismo linguistico perde quindi quell’aura di esoterismo di cui troppo spesso e ingiustamente è stato tacciato e viene riportato e ripresentato all’interno di una prospettiva che unisce i più recenti prodotti della linguistica e delle scienze cognitive in una proposta concreta sul rapporto tra linguaggio e pensiero e sulle direzioni e meccanismi d’influenza.
14-feb-2020
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Tipologia: Tesi di dottorato
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