Questa sequenza palesa l’importanza che assume l’immaginario audiovisivo nel- la costruzione delle identità nazionali, soprattutto se connesse a eventi traumatici – tra tutti i crimini perpetrati dai nazisti – che coinvolgono più o meno direttamente la struttura identitaria delle masse europee durante gli anni Trenta e Quaranta. L’impossibilità di elaborare un trauma senza l’opportunità di raccontarlo è, pro- babilmente, la questione ingombrante che emerge da questo macro-tema. Come constatava Walter Benjamin, l’irruzione di esperienze inaudibili e l’assenza della possibilità di socializzare il racconto, o di trovare interlocutori in grado di acco- glierlo, rende difficile, se non impossibile, l’elaborazione dell’esperienza stessa.1 Il discorso narrativo, infatti, fornisce un elemento ulteriore e sostanziale all’esperien- za vissuta: la trama, che, dando ordine al proprio materiale e collegando elementi apparentemente sconnessi tra loro, permette al soggetto di orientarsi entro la serie di accadimenti di cui è testimone.2 Dare una trama, mettere ordine tra gli eventi sparsi nel caos della storia, oltre a essere il compito primario dello storico in quanto tale, è anche il fulcro del lavoro di chi ambisce a rappresentare il passato sotto forma di discorso narrativo, o comunque di chi approcciandosi a del materiale di archivio ne genera un racconto attraverso un’operazione di montaggio.3 È proprio questa esigenza di raccontare ciò che non si è ancora elaborato che spicca dal lavoro di due registi piuttosto paradigmatici nella loro diversità, come Claude Lanzmann e Edgar Reitz, che, pur utilizzando forme diverse di racconto storico, si pongono entrambi in netta controtendenza con l’immaginario audiovisi- vo sulla Shoah, costruito fino a quel momento. Il primo, autore del monumentale documentario Shoah (1985), decide di non utilizzare mai documenti audiovisivi di repertorio, intervistando “semplici” testimoni senza commenti o giudizi retorici; il secondo, invece, predilige la finzione, come nel caso della colossale opera di fiction Heimat (1984-2006) che rivisita le sorti della Germania nel Novecento attraverso le vicende di una umile famiglia contadina, anche lui senza utilizzare mai materiali di archivio.
Senza immagini. La presenza della Shoah in «Heimat» di Edgar Reitz / Garofalo, Damiano. - In: STORIOGRAFIA. SUPPLEMENTO CRITICO E BIBLIOGRAFICO. - ISSN 1128-2347. - 15/2011(2012), pp. 35-42.
Senza immagini. La presenza della Shoah in «Heimat» di Edgar Reitz
Damiano Garofalo
2012
Abstract
Questa sequenza palesa l’importanza che assume l’immaginario audiovisivo nel- la costruzione delle identità nazionali, soprattutto se connesse a eventi traumatici – tra tutti i crimini perpetrati dai nazisti – che coinvolgono più o meno direttamente la struttura identitaria delle masse europee durante gli anni Trenta e Quaranta. L’impossibilità di elaborare un trauma senza l’opportunità di raccontarlo è, pro- babilmente, la questione ingombrante che emerge da questo macro-tema. Come constatava Walter Benjamin, l’irruzione di esperienze inaudibili e l’assenza della possibilità di socializzare il racconto, o di trovare interlocutori in grado di acco- glierlo, rende difficile, se non impossibile, l’elaborazione dell’esperienza stessa.1 Il discorso narrativo, infatti, fornisce un elemento ulteriore e sostanziale all’esperien- za vissuta: la trama, che, dando ordine al proprio materiale e collegando elementi apparentemente sconnessi tra loro, permette al soggetto di orientarsi entro la serie di accadimenti di cui è testimone.2 Dare una trama, mettere ordine tra gli eventi sparsi nel caos della storia, oltre a essere il compito primario dello storico in quanto tale, è anche il fulcro del lavoro di chi ambisce a rappresentare il passato sotto forma di discorso narrativo, o comunque di chi approcciandosi a del materiale di archivio ne genera un racconto attraverso un’operazione di montaggio.3 È proprio questa esigenza di raccontare ciò che non si è ancora elaborato che spicca dal lavoro di due registi piuttosto paradigmatici nella loro diversità, come Claude Lanzmann e Edgar Reitz, che, pur utilizzando forme diverse di racconto storico, si pongono entrambi in netta controtendenza con l’immaginario audiovisi- vo sulla Shoah, costruito fino a quel momento. Il primo, autore del monumentale documentario Shoah (1985), decide di non utilizzare mai documenti audiovisivi di repertorio, intervistando “semplici” testimoni senza commenti o giudizi retorici; il secondo, invece, predilige la finzione, come nel caso della colossale opera di fiction Heimat (1984-2006) che rivisita le sorti della Germania nel Novecento attraverso le vicende di una umile famiglia contadina, anche lui senza utilizzare mai materiali di archivio.File | Dimensione | Formato | |
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