In questo articolo metteremo a tema la questione del relativismo linguistico, inerente la misura in cui il possesso nativo di una data lingua interferisca con la formazione del pensiero (individuale e sociale) e quindi le modalità della sua connessione col sistema culturale soggiacente. Movendo da interessi linguistici “classici”, focalizzati sul greco e sul latino, e arricchiti dalla recente scoperta del sanscrito e dall’ipotesi dell’unità indoeuropea, Humboldt pervenne a questo tema allorché si persuase che era necessario esplorare mondi linguistici lontani dall’orizzonte europeo per venire in chiaro del modo in cui «la differenza della struttura linguistica» influisce «sullo sviluppo spirituale del genere umano». Di qui la sua impressionante tenacia nello studiare (anche con l’aiuto dei materiali lessicali e grammaticali raccolti dai gesuiti nelle loro missioni evangelizzatrici, fin nelle più lontane plaghe del pianeta) lingue le più varie, con particolare attenzione per quelle che presentavano un’organizzazione strutturale profondamente diversa dalle ben note lingue “flessive” care ai paradigmi del nascente comparatismo. I suoi studi sul basco, sul cinese, sulla mexicanische Sprache e soprattutto la ricerca monumentale intorno alla lingua Kawi, l’antico idioma dei poeti dell’isola di Giava (che forma l’oggetto dell’opera postuma in tre volumi Ueber die Kawi-Sprache auf der Insel Java, 1836-39) avevano questa precisa motivazione, in cui interessi descrittivi si saldavano con domande teoriche e filosofiche della massima portata. Come si vedrà, il problema posto da Humboldt (solo saltuariamente ripreso nell’Ottocento, grazie in particolare allo Steinthal) ha acquisito un posto centrale nella riflessione del Novecento, sia nella tradizione europea, lungo una linea che dal citato Saussure porta a Louis Hjelmslev, a Émile Benveniste e oltre, sia in quella nordamericana che dall’antropologia di Franz Boas conduce a Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf, per venire dapprima fortemente contestata all’avvento di Chomsky e del cognitivismo, e successivamente riscoperta (grosso modo dalla fine degli anni Ottanta) grazie a una nuova imponente messe di ricerche che giunge fino ai giorni nostri, coinvolgendo problemi di neuroscienza, di apprendimento del linguaggio, di bilinguismo, questioni educative e quant’altro.
Wilhelm von Humboldt filosofo del linguaggio e il relativismo linguistico / De Luca, M; Gensini, S. - In: ODRADEK. - ISSN 2465-1060. - (2019), pp. 1-16.
Wilhelm von Humboldt filosofo del linguaggio e il relativismo linguistico
De Luca M;Gensini S
2019
Abstract
In questo articolo metteremo a tema la questione del relativismo linguistico, inerente la misura in cui il possesso nativo di una data lingua interferisca con la formazione del pensiero (individuale e sociale) e quindi le modalità della sua connessione col sistema culturale soggiacente. Movendo da interessi linguistici “classici”, focalizzati sul greco e sul latino, e arricchiti dalla recente scoperta del sanscrito e dall’ipotesi dell’unità indoeuropea, Humboldt pervenne a questo tema allorché si persuase che era necessario esplorare mondi linguistici lontani dall’orizzonte europeo per venire in chiaro del modo in cui «la differenza della struttura linguistica» influisce «sullo sviluppo spirituale del genere umano». Di qui la sua impressionante tenacia nello studiare (anche con l’aiuto dei materiali lessicali e grammaticali raccolti dai gesuiti nelle loro missioni evangelizzatrici, fin nelle più lontane plaghe del pianeta) lingue le più varie, con particolare attenzione per quelle che presentavano un’organizzazione strutturale profondamente diversa dalle ben note lingue “flessive” care ai paradigmi del nascente comparatismo. I suoi studi sul basco, sul cinese, sulla mexicanische Sprache e soprattutto la ricerca monumentale intorno alla lingua Kawi, l’antico idioma dei poeti dell’isola di Giava (che forma l’oggetto dell’opera postuma in tre volumi Ueber die Kawi-Sprache auf der Insel Java, 1836-39) avevano questa precisa motivazione, in cui interessi descrittivi si saldavano con domande teoriche e filosofiche della massima portata. Come si vedrà, il problema posto da Humboldt (solo saltuariamente ripreso nell’Ottocento, grazie in particolare allo Steinthal) ha acquisito un posto centrale nella riflessione del Novecento, sia nella tradizione europea, lungo una linea che dal citato Saussure porta a Louis Hjelmslev, a Émile Benveniste e oltre, sia in quella nordamericana che dall’antropologia di Franz Boas conduce a Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf, per venire dapprima fortemente contestata all’avvento di Chomsky e del cognitivismo, e successivamente riscoperta (grosso modo dalla fine degli anni Ottanta) grazie a una nuova imponente messe di ricerche che giunge fino ai giorni nostri, coinvolgendo problemi di neuroscienza, di apprendimento del linguaggio, di bilinguismo, questioni educative e quant’altro.File | Dimensione | Formato | |
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