Il lavoro di tesi muove dalla volontà di indagare il concetto di cittadinanza nelle sue sfumature e nella sua accezione contemporanea. Occuparsi di una tale tematica, destreggiandosi nel mare magnum delle teorie e delle materie a essa correlate, è un’impresa non semplice, correndosi il rischio di cadere nella ripetizione. Nel tentativo di concepire un contributo originale, si è pertanto deciso di leggere il discorso sulla cittadinanza e sul senso di appartenenza nell’ottica della denizenship, con un riflettore puntato in particolar modo sulle nozioni di integrazione e identità. Tale “scelta di campo” nasce dallo spiccato interesse che si nutre verso la comprensione di cosa simboleggi oggi la figura del migrante e dall’osservare le dinamiche che le ondate migratorie imprimono sulla società, al centro della cronaca e delle riflessioni di tanti studiosi del pensiero politico contemporaneo. Anello di congiunzione tra gli argomenti è l’analisi del lento processo di avvicinamento che la Turchia compie nei confronti dell’Unione europea, analizzato attraverso la lente d’ingrandimento della denizenship applicata ai lavoratori turchi emigrati in Germania (che aiuterà a comprendere se e come la concessione di alcuni diritti e il lavoro conducano a una reale integrazione dei soggetti che approdano in un contesto societario spesso molto distante dal loro per cultura e tradizioni) e all’orientalismo, di cui è ancora impregnato gran parte del pensiero occidentale. Nel panorama teorico-politico contemporaneo, si possono distinguere essenzialmente due approcci principali alla globalizzazione: uno ammette la tensione tra libertà e democrazia, portandola sino al livello delle politiche interstatali o internazionali (è ciò che prende il nome di “governo cosmopolita”); l'altro prova a dissiparla, comprimendo il ruolo del governo (è l'approccio seguito da coloro che si concentrano sulla “società civile”). Nonostante sembrino due approcci antitetici, in realtà entrambi ricercano soluzioni al di fuori della cornice statale, prestando sovente minor attenzione al modo in cui gli Stati mettono in atto il processo democratico al proprio interno. Una volta ottenuto il riconoscimento delle libertà fondamentali da parte di coloro che si mobilitano in difesa dei diritti umani, si produce uno scontro interno al liberalismo stesso: più numerose saranno le comunità o le nazioni che daranno preminenza ai diritti liberali, maggiore diverrà la probabilità di conflitto su cosa essi rappresentino e sarà estremamente complicato dimostrare che una parte sia “moralmente scorretta”, pur agendo sul suo stesso background culturale. In quest’epoca del post, si inserisce anche il dibattito contemporaneo sulla cittadinanza. Attraverso una mappatura delle diverse teorie formulate dagli studiosi dei citizenship studies, in specifico riferimento ai mutamenti concettuali prodotti dall’avvento della cosiddetta “epoca globale”, si è provato innanzitutto – mediante una ricostruzione e un’analisi degli aspetti positivi e delle criticità delle proposte avanzate per conseguire l’integrazione nelle “società d’accoglienza” – a riordinare i diversi passaggi che hanno condotto all’accezione democratico-sociale contemporanea di cittadinanza, considerata come un universo paradigmatico e valoriale, utile a sanare le fratture prodotte dalla globalizzazione nelle relazioni intersoggettive, e a (ri)costruire una nuova forma di identità, destabilizzata dalla pressione migratoria globale. Globalizzazione e cittadinanza sono poste spesso in antitesi. Nel I capitolo, si vedrà come il primo concetto pone accanto al lento declino degli Stati-nazione, la veloce intensità dei flussi migratori (facendo emergere la tematica identitaria); il secondo concetto, invece, si rifà alla polarità cittadino/straniero oppure al mito identitario del «cittadino cosmopolita». A latere di questo rapporto antitetico, si riscontra un azzeramento della distanza tra sfera privata e sfera pubblica ma, al contempo, risultano enfatizzati i tratti più radicali dell’identificazione societaria, quali religione, etnia, lingua, territorialità. Gli immigrati fungono da “specchio” della crisi del concetto di cittadinanza sinonimo di nazionalità: la pongono in discussione e ridefiniscono. Le migrazioni non sono un fenomeno nuovo, ma il definire l’epoca contemporanea «come “età delle migrazioni” è corretto non solo per l’elevata portata degli spostamenti di popolazione, ma anche e soprattutto per la rilevanza della questione in tutti i paesi, sia in quelli di partenza che in quelli di arrivo». Con la globalizzazione, le società si “contaminano” per forza di cose, dunque, per renderla davvero comprensiva, aperta, bisognerebbe sforzarsi di immaginare un modello di cittadinanza "dalla parte dei senza parte", dove, in quella distribuzione globale di gerarchie e privilegi, sia materiali che simbolici, si fuoriesca dalla condizione di immigrato, migrante o di origine migrante e si acceda a quella che Goffman chiamava "disattenzione civile" – ossia, la “cortese indifferenza reciproca”, imperante nei luoghi di transito – e Delgado, "diritto all’indifferenza", situazione, questa, in cui si smette di prestare attenzione a cosa facciano questi individui e ci si concentra su chi siano. Grazie a un consimile approccio, è possibile disegnare, insomma, un modello di cittadinanza anche “imperfetto”, ma che garantisca a ogni migrante uno ius migrandi, il diritto ad avere diritti e, soprattutto, che tuteli maggiormente i diritti umani. Seguendo le traiettorie prospettate da Ralf Dahrendorf, la cittadinanza, nella sua accezione moderna, ha operato una differenziazione tra i membri della comunità politica: verticale, creando una società stratificata; e laterale o spaziale, caratteristica della modernità, ossia escludente. Le migrazioni ne esasperano il significato, poiché l’inserimento sociale e occupazionale opera una netta distinzione tra potenziale e grado reale di integrazione, e la realtà sociale delle società di partenza, di transito e di arrivo, che vengono attraversate e condizionate, muta irreversibilmente. Esse agiscono su territorio, confini e Stato, ridisegnando e stravolgendo la geografia degli spazi politici, dei principi giuridici e del mercato del lavoro. Salta così l’impianto della teoria giuridica di inizio Novecento, basato sulla coincidenza tra popolo, nazione e territorio, su cui si esercita la sovranità statuale, presupposto per la piena realizzazione della cittadinanza, e si passa alla cittadinanza in sé quale strumento per giungere all’uguaglianza umana fondamentale. Entrambe le visioni partono dal presupposto che lo spazio giuridico territoriale renda omogenei, quindi uguali, i soggetti ricompresi all’interno della propria giurisdizione. L'ingresso nel territorio statuale viene regolato in base all'accettazione della comunità politica di riferimento: mediante la configurazione di confini sia interni che esterni, lo Stato nazionale cerca strenuamente di preservare la sua unità; se questa non esiste, prova a crearla; se esiste, ma è fragile, la rinvigorisce. Tuttavia, si ritiene che l’idea di cittadinanza post-nazionale, pur scardinando il principio di “fedeltà a un’unica nazione”, non pronostichi un vero e proprio trascendimento degli Stati, ma li immagini come categorie geografiche e sociali sempre più interconnesse e dai confini sempre più permeabili. Tutt’al più, la membership post-nazionale “deterritorializza” i diritti della persona, scontrandosi (soprattutto nelle sue forme più estreme) con la ragione stessa della cittadinanza nazionale. Secondo Danilo Zolo, «la cittadinanza viene presentata come un’idea strategica ed espansiva, capace di coprire almeno in parte il vuoto teorico che si è aperto con la crisi dei “paradigmi ricevuti” del socialismo e della liberaldemocrazia». La cittadinanza – sollecitata dalla crisi dello Stato territoriale, «contenitore» rivelatosi insufficiente a raccogliere e accogliere le varie realtà in esso presenti – ha provato a individuare forme di inclusione per gli individui, all’interno di un ordinamento politico. Zolo ritiene, dunque, che la cittadinanza metta in relazione i diritti soggettivi con l’appartenenza e l’esclusione – nel quadro del regime delle istituzioni democratiche e in contesti sempre meno unitari, se non proprio “frazionati” –, consentendo inoltre di analizzare il rapporto fra i fenomeni di globalizzazione e la salvaguardia dei diritti, assicurata dallo Stato costituzionale. Al giorno d’oggi, in un’epoca che vive – a seconda dei punti di vista – una crisi o un rinvigorimento della sovranità statale e nella quale la gestione dei fenomeni migratori non è più di esclusiva pertinenza delle decisioni dei singoli Stati nazionali, «pensare l’immigrazione significa pensare lo Stato ed è lo Stato che pensa se stesso pensando l’immigrazione». Questo era ciò che Sayad definiva “pensiero di Stato”. È, quindi, la società globale a “pensarsi” mediante e grazie alle migrazioni: assieme al “pensiero di Stato”, essa stabilisce lo spazio della conoscenza politica delle migrazioni. Se non avviene questo passaggio, il migrante continuerà a essere raffigurato come vittima, come soggetto necessitante di protezione e tutela, «escluso dal politico». Anche se le formulazioni giuridiche in merito al diritto di circolare liberamente si prestano spesso a interpretazioni discordanti, Alessandro Dal Lago sostiene che l’uguaglianza e la libertà di tutti gli esseri umani di muoversi in uno spazio comune siano principi da cui non si può prescindere. Gli fa eco Seyla Benhabib, la quale sostiene a gran voce che “nessun essere umano è illegale” e che varcare i confini, rivendicando l’accesso a una comunità politica differente dalla propria sia una delle libertà umane, non un atto criminale. Di conseguenza, ogni individuo, a prescindere dal suo stato di cittadinanza politica, deve essere trattato nel rispetto della dignità morale. Malgrado ciò «l’umanità viene divisa in maggioranze di nazionali, cittadini dotati di diritti e di garanzie formali, e in minoranze di stranieri illegittimi (non cittadini, non nazionali) cui le garanzie vengono negate di diritto e di fatto». Non riconoscendo i diritti di cittadinanza e, ancor prima, i diritti umani, risalta la disarmonia costitutiva della legittimità democratica delle società nazionali, quell’attrito presente tra le rivendicazioni dei diritti umani universali e il fare i conti con identità culturali e nazionali particolaristiche. Benhabib sottolinea che, nel diritto internazionale, si garantisce il diritto a emigrare, ma non quello di immigrare (Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo del 1948, art. 13). La Carta dei diritti fondamentali, infatti, «non dice nulla sugli obblighi degli Stati a garantire l’ingresso agli immigrati, ad accordare il diritto di asilo, e a concedere la cittadinanza ai residenti e ai denizens (residenti permanenti senza pieni diritti)». Proprio quest’ultima figura, il denizen, e la categoria a esso collegata (la denizenship) saranno oggetto del II capitolo del presente lavoro, nel quale si proverà a spiegare per quale motivo, ad avviso di chi scrive, alcune proposte avanzate in merito sono maggiormente praticabili nel fornire una risposta alle istanze sollecitate da coloro che “permeano” i confini e i territori degli (ex?) Stati-nazione. Come si vedrà sia nel II che nel III capitolo, il dibattito contemporaneo sulle migrazioni si intreccia prepotentemente con quello sulle “nuove cittadinanze” o “nuove pratiche di cittadinanza”: concetti, questi, che abbracciano sia i processi socio-culturali di mobilità, transnazionalismo e ibridazione sia il “multiculturalismo quotidiano”; che "surdeterminano" la vita dei migranti all’interno del tessuto sociale degli spazi metropolitani; e individuano i limiti storici connaturati alla, nonché l’irreversibile collasso della, concezione moderna e statocentrica di cittadinanza. Si potrebbe affermare che quella post-moderna sia l’epoca dello “sradicamento”. Pensare la società (globalizzata) attraverso le migrazioni vuol dire anche affrontare il tema dell’integrazione – altro elemento che evidenzia il “disintegrarsi della cittadinanza” –, spesso rivelatasi “un’inclusione che esclude” attraverso quelle che Sassen ha definito “localizzazioni del globale”, ossia sacche di lavoro precario, sottopagato e irregolare nelle quali gli immigrati sono soggetti sociologicamente presenti, ma politicamente alienati. La resistenza opposta dai migranti a questa nuova configurazione globale del politico incontra proprio negli Stati nazionali il suo primo interlocutore. Balibar ha sostenuto che, nel quadro delle “cittadinanze postcoloniali” nelle nazioni europee, il termine immigrazione è la nuova veste assunta da ciò che un tempo si definiva razza. Con quest’affermazione, egli si riferisce al lascito dei discorsi legittimati dal vecchio sistema di pensiero razziale, che leggono un problema nell’immigrazione, “eleggono” certi gruppi e soggetti per svolgere alcuni lavori piuttosto che altri, li descrivono come più indesiderabili o pericolosi rispetto ad altri, culturalmente distanti. Ecco, dunque, che anche la sola presenza di questi soggetti nella società viene percepita come una minaccia alla conclamata omogeneità e alle prestazioni lavorative della società stessa, se incontrollata. Quel post è, inoltre, testimonianza di una strenua critica alla cittadinanza, considerata come un “bene esclusivo o selettivo”, di appannaggio solo per alcuni, ma preclusa ad altri. Gli studi meno recenti di antropologia del diritto, raccontano di un pluralismo giuridico originato da quello sociale. Tuttavia, con l’incremento dei flussi migratori – che rendono le società sempre più eterogenee e frammentate –, si assiste alla convivenza tra una pluralità di minoranze etniche – con annesse tradizioni, culture e religioni molto distanti fra loro – e alla coesistenza di una molteplicità di codici normativi, che complica la soluzione dell’incognita riguardante l’articolazione dei diritti. Non di rado, infatti, accade che vengano adottati impianti normativi diversi per le stesse contingenze giuridiche, fino a dichiarare effettivi degli istituti che sono completamente avulsi dal nostro ordinamento. Le sfide a cui la democrazia e l’istituto della cittadinanza sono oggi sottoposte, dinanzi all’avanzata incessante delle migrazioni, sono esemplificative della crisi di quegli istituti e di quei concetti, incapaci di gestire e conciliare le richieste avanzate dai migranti, in una forma istituzionalmente idonea. Il problema è che si pensa a un soggetto in maniera collettiva (ad esempio, gli immigrati), non distinguendo tra le singole individualità, cioè da quante singole storie è composto un gruppo. La cittadinanza e l’identità possono essere accostate, sia da un punto di vista filosofico-normativo che sperimentale. Seguendo il primo approccio, la questione è se l’idea di cittadinanza riesca a forgiare un’identità collettiva, tale da favorire lo sviluppo della democrazia; attenendosi al secondo, ci si domanda in che modo e per quale motivo le società moderne, fondate sulla nozione di cittadinanza, sviluppino un’identità collettiva. Questa particolare accezione di identità, che si contrappone a quella di identificazione, risulta interessante in quanto, secondo Hall, l’impostazione e l’insieme delle tecniche performative non conducono necessariamente alla determinazione della prima, ma possono “dare il la” ai processi che definiscono la seconda, predisponendo uno spazio entro il quale il soggetto deve disporre di un margine di libertà. Mentre l’identificazione assume i connotati di una costruzione in costante evoluzione, dettata dalla necessità, l’identità culturale deriva da un pregresso storico specifico, pur non essendo totalmente predeterminata. Hall ritiene, infatti, ci sia una costante “contrattazione” dell’identità: le storie che la compongono sono impresse nei ruoli in cui ci si identifica. Le identità si articolano all’interno della differenza, non al di fuori di essa: a partire dalla relazione con l’altro, si edificano come rappresentazioni attraverso un’assenza, un distacco. I nazionalismi, non ammettendo la diversità, i particolarismi, al proprio interno, hanno tenuto fuori tutti i gruppi subalterni, realizzando una sorta di “purificazione”. Oggi, sovvertendo leggermente il “pensiero di Stato”, che disciplina i rapporti tra migranti e Stato, si potrebbe dire che la figura del profugo o del richiedente asilo sia più tollerata rispetto a quella del migrante. La gran parte della popolazione condivide la paura nei confronti di quest’ultimo, mentre il profugo sposta l’attenzione sul piano umanitario: il suo corpo è il “veicolo” di un’identità di per sé non propensa alla migrazione, ma costretto a compierla. Il profugo è sinonimo di provvisorietà, nell’immaginario socialmente accettato. Dunque, prima o poi, “tornerà a casa”. Il migrante, invece, naviga in una dimensione incerta: protende alla stabilizzazione e al ricongiungimento familiare. Ha scelto di partire. Il discorso umanitario è importante, perché depoliticizza o “spoliticizza” i movimenti migratori. Oggetto del II capitolo sarà, inoltre, il tema della rappresentanza democratica in relazione al principio di appartenenza territoriale, definitosi attraverso la categoria della cittadinanza: «con appartenenza politica intendo analizzare i principi e le pratiche volte a integrare stranieri e forestieri, immigrati e nuovi arrivati, rifugiati e richiedenti asilo, nei sistemi politici esistenti». L’immigrazione costringe le società a riformulare i principi che determinano la membership alla nazione e consentono di accedere ai diritti di cittadinanza. L’analisi delle varie proposte di denizenship, aiuterà a comprendere se e come oggi sia possibile – parafrasando una figura rivoluzionaria del passato, Sieyès – far diventare “attivi” quei soggetti “passivi”, che permeano il tessuto interconnettivo della società globale. Tra i vari autori citati, si farà spesso riferimento agli studi condotti da Seyla Benhabib, la quale – contrapponendosi a diversi esponenti del dibattito internazionale su frammentazione, crisi della cittadinanza ed eclissi della sovranità territoriale – sostiene che questa vada, in qualche modo, circoscritta (così come limitata dev’essere l'appartenenza a una comunità), ma tali delimitazioni non devono necessariamente corrispondere ai confini di uno Stato nazionale. Un’idea potrebbe essere quella di praticarla all’interno di un gruppo di Stati, come quello europeo: «the right to determine the boundaries as well as identity of this community are fundamental to democracy; therefore, the argument goes, economic and political globalization threaten to undermine citizenship». La filosofa turco-americana suddivide due correnti di pensiero, entrambe non contrarie all’immigrazione in quanto tale, ma solo ad alcune sue tipologie: «they tend to favour the incorporation of those foreigners who “are like us”, and who can become the “model citizen”». La prima corrente contempla una “frammentazione della cittadinanza”, nella quale si trovano autori come Ong, Soysal e Rosenau, ossia i sostenitori di una cittadinanza post-nazionale, in cui si realizzi una disgiunzione tra identità politica e appartenenza nazionale e «l’affermazione e la diffusione di un nuovo regime dei diritti umani [...] come l’annuncio di una nuova coscienza politica e di nuove forme di appartenenza». Tra questi, Yasemin Soysal fa riflettere su come, in molti Paesi occidentali, i diritti che un tempo erano di esclusiva pertinenza dei cittadini sono stati poi estesi agli immigrati. Questo è in netto contrasto con l’istituto della cittadinanza, tra l’altro in un momento come quello attuale, in cui gli Stati-nazione paiono nascere a nuova vita, il che si esplica nel potenziamento del controllo confinario e alle frontiere, oltre al dilagare dei movimenti politici sostenitori di ideologie nazionaliste. Soysal sostiene che le politiche degli Stati europei sull’integrazione degli immigrati siano state influenzate, non poco, dalla politica internazionale sui diritti umani. La seconda corrente è, invece, quella del “declino della cittadinanza”, all’interno della quale ci sono sia gli esponenti del classical o civic republicanism che quelli del communitarianism – Sandel, MacIntyre, Walzer –, i quali ritengono che il declino dello Stato-nazione sia stato causato dall’introduzione delle norme internazionali concernenti i diritti umani o dall’eccessiva “sponsorizzazione” del cosmopolitismo, che ha svalorizzato l’istituto e le pratiche di cittadinanza. Dunque, nonostante la globalizzazione e gli ingenti flussi migratori abbiano dilatato i confini, cittadinanza e rappresentanza democratica vanno ancora “recintate” a livello territoriale. Benhabib non si contrappone a coloro che ipotizzano una riassegnazione dei diritti di cittadinanza in un quadro transnazionale, anzi solidarizza con i simpatizzanti della “cittadinanza deterritorializzata”, i quali ritengono che le identità politiche non debbano essere determinate su basi statocentriche e i confini della società civile non debbano combaciare con quelli dello Stato-nazione. La rappresentanza democratica riguarda una specifica comunità, pertanto la legislazione democratica sarà, in una certa misura, chiusa: «Precisely because democracies enact laws that are binding on those “who authorize them”, the scope of democratic legitimacy needs to be circumscribed by the demos which has bounded itself as a people on a given territory». Tuttavia, pur prevedendo delimitazioni, non dovrebbe proibire il flusso di persone attraverso i confini, né in entrata né in uscita. Il principio della rappresentanza democratica è da sempre stato fondato su tre presupposti: l’appartenenza a uno specifico territorio; l’ammissione in una comunità democratica; il risiedere in quest’ultima. Nell’attuale contesto globale, in cui i popoli sono interconnessi, è possibile coniugare la partecipazione democratica – ossia, intendere e realizzare una rappresentanza democratica che non si rapporti più allo Stato-nazione – al di fuori dell’archetipo che prevede l’omogeneità del popolo e l’autonomia territoriale? Benhabib, pur reputando queste concezioni ormai superate, continua a insistere sul legame tra «self-governance democratica e rappresentanza territoriale», affermando che «gli imperi hanno frontiere, le democrazie confini». Ma, nella globalizzazione contemporanea, «la cittadinanza frammentata è anche una cittadinanza democratica?». Se si dà per assodato che lo Stato-nazione westfaliano non riesca più a rappresentare lo schema della rappresentanza democratica, anche i suoi capisaldi vacilleranno: l’identità collettiva nazionale e sovrana e i confini territoriali sono destabilizzati, così come si assottiglia il confine tra diritti umani e diritti di cittadinanza. Ecco che fioriscono nuovi modelli di “cittadinanza deterritorializzata”: La rappresentanza democratica può quindi discostarsi dalla stanzialità territoriale, seguendo il criterio del riconoscimento, in base al quale tutti coloro che sono tenuti a rispettare una norma devono avere anche modo di formularla: «Poiché la teoria del discorso formula una prospettiva morale universalistica, essa non può limitare la portata della conversazione morale solo a coloro che risiedono all’interno di confini nazionali riconosciuti; deve considerare la conversazione morale come potenzialmente estendibile a tutta l’umanità». Viene, così, superata l’etica del discorso habermasiana, attraverso il riconoscimento del valore razionale e morale dell’altro. Benhabib si rifà agli studi di Montesquieu, Kant e Hannah Arendt, i quali si opponevano all’idea di un “governo globale” e “illimitato”, non intravedendo in esso elementi pienamente democratici. Ecco perché immagina confini “porosi” e non aperti, una valida soluzione in un frame multiculturale e multietnico, che tuteli anche le esigenze della società di accoglienza: «As Rainer Bauböck notes, a territorial border serves to demarcate both a jurisdiction and to regulate the flow of peoples. While democratic self-governance involves the demarcation of jurisdiction, it ought not to prohibit the flow of peoples across borders in both directions». Il primo ingresso in una nuova comunità (che si presume temporaneo) non dà un diritto automatico all’appartenenza: saranno le singole comunità a stabilire il “quantitativo” di immigrazione che vorranno accettare. La concezione sociale della cultura, sovrapposta alla narrazione, è funzionale all’utilizzo che Benhabib ne fa, ritenendola ancora eccessivamente omogenea, statica e limitata: ciò che le preme, è individuare rivendicazioni universali, strumentali alla risoluzione delle sfide apportate dalla politica multiculturale e dal problema del riconoscimento e della differenza. L’agency, che presuppone una collettività e rappresenta lo spazio all’interno del quale un gruppo agisce, richiede che la differenza sia accantonata. Il soggetto va ricostruito al suo interno, partendo dall’assunto che la soggettività non preesiste a un rapporto, ma si costruisce in esso. Il punto di vista di Benhabib è interessante, perché pone con insistenza l’interrogativo su come si possano conciliare i diritti degli “altri” con la tendenza delle democrazie a chiudersi in sé. Quest’interrogativo – a cui si potrebbe provare a rispondere, sostiene Benhabib, se si comprendesse appieno il significato di cultura e della sua relazione con l’identità – e le molteplici richieste di trattamento differenziato sono sottese alla dinamica relazionale individuo/collettività e mettono in tensione il dilemma costitutivo delle democrazie liberali. Ogni epoca conosce un processo di costruzione della propria alterità. È un processo conflittuale, continuo, non calato dall’alto verso il basso. Le migrazioni internazionali hanno minato le fondamenta dello Stato-nazione, ponendo come sempre più pressante il tema dell’accoglienza dell’“altro” e di come far coesistere pacificamente le identità culturali all’interno delle comunità. La cittadinanza è un istituto che lega chi gli è sottoposto a una determinata entità statale; la nazionalità, invece, non è un istituto giuridico, ma una nozione sociologica e culturale, che può accomunare anche cittadini di Paesi diversi, concernendo il sentimento di appartenenza (il divenire parte di un noi) a una data comunità, anche se c’è chi, come Balibar, non le attribuisce più : «un valore storico, all’interno del quale è possibile costruire la libertà individuale e l’uguaglianza collettiva, ma diventa l’essenza stessa della cittadinanza e cioè la costruzione di una comunità assoluta, a cui tutti gli altri devono aderire». Lo si vedrà bene nel III e ultimo capitolo, quando, passando attraverso il racconto dei guestworker turchi in Germania – ai quali, tra i primi, fu applicata la denizenship, che però non ha garantito una piena integrazione di questi nella società di accoglienza –, si farà riferimento all’annosa questione dell’adesione della Turchia all’Ue, che ben evidenzia le contraddizioni insite nei concetti di identità, appartenenza e integrazione. E come, probabilmente, una “cittadinanza europea” non sia ancora matura per accogliere tra i suoi membri un candidato “a metà strada tra Oriente e Occidente”. La Dichiarazione sull’identità europea, sottoscritta in occasione del vertice di Copenaghen del 20 dicembre 1973, non teneva conto delle migrazioni. Oggi l'Europa e le sue frontiere sono la chiave di volta per la cittadinanza; il banco di prova su cui la democrazia può incorrere in una brusca frenata oppure riprendere il suo cammino nella direzione della concessione dei diritti. Lo Stato estende la sua nazionalità attraverso la dimensione extraterritoriale che assume con la globalizzazione. I confini ormai non seguono più la regolare morfologia territoriale (anzi, estendono ben oltre la loro influenza), disegnando uno spazio giuridico globale e irregolare. Segnano una linea netta di demarcazione tra chi si riconosce in regole e principi comuni e chi no; rendono la diversità disuguaglianza, con il doppio risvolto dell’esclusione o dell’appartenenza. La frontiera è invece una condizione che trasforma un individuo in straniero. I migranti, in questa nuova raffigurazione, sono cittadini della frontiera, riempiono gli spazi transnazionali prodotti dalle deterritorializzazioni e riterritorializzazioni della globalizzazione, veri «crogioli di un ordine politico sovranazionale». La migrazione altro non è che «poetica del transito e della transitorietà» e mina alle radici l’idea stessa di appartenenza, intesa come inclusione in un solo e unico contesto identitario, precisamente localizzato e ben protetto. Riassumendo: possono coabitare e coesistere identità culturali differenti? Se sì, in che modo, visto che la modernità sembra incapace di pensare al plurale, nonostante questa pluralità sia insita all’interno delle proprie comunità? Chi o cosa determina l’identità di un soggetto? Si è uguali perché si appartiene alla stessa nazionalità, si parla la stessa lingua o si pratica la stessa religione, ad esempio? In tal caso, si dovrebbe affermare che un inglese e uno statunitense sono uguali per via dell’idioma; o un italiano e un sudamericano, per il loro credo. Nel mondo cosmopolita, si parlano lingue diverse persino all’interno delle città e si mantengono le tradizioni legate alla cultura d’origine. Volendo estendere il discorso all’Europa: in merito al “sentire comune europeo”, raffrontandolo con quello statunitense, quando tutti gli americani si sono sentiti coinvolti dagli attentati dell’11 settembre 2001, può affermarsi lo stesso per i cittadini europei, in occasione degli attacchi terroristici di Parigi o Bruxelles? Il lavoro di tesi sin qui presentato intende pertanto operare una riflessione su queste tematiche. Con un focus sulla denizenship, una delle soluzioni pensate – quando, con l’avvento della globalizzazione, è saltato lo schema tradizionale tra cittadinanza (nei suoi elementi classici: sovranità territoriale, diritti e appartenenza) e stanzialità, e l’appartenenza si è scissa in due (culturale e politica) – per coloro che hanno “smarrito” la propria appartenenza politica e ricercano un modo per partecipare all’autogoverno della società in cui risiedono. La denizenship si pone all’intersezione tra le teorie sulla cittadinanza e lo spazio delle migrazioni, quando la dimensione politica viene “infranta” da nuove identità culturali in transito. Se, dunque, la crisi dei diritti può trovare una possibile via d’uscita attraverso l’istituto della denizenship, il ripensamento o le sfide a cui è sottoposto il concetto di identità si ripercuotono inevitabilmente, come si vedrà in chiusura, sulle dinamiche culturali.

Il laboratorio della cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti nell’epoca delle migrazioni / Cantarale, Giorgia. - (2018 Sep 18).

Il laboratorio della cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti nell’epoca delle migrazioni

CANTARALE, GIORGIA
18/09/2018

Abstract

Il lavoro di tesi muove dalla volontà di indagare il concetto di cittadinanza nelle sue sfumature e nella sua accezione contemporanea. Occuparsi di una tale tematica, destreggiandosi nel mare magnum delle teorie e delle materie a essa correlate, è un’impresa non semplice, correndosi il rischio di cadere nella ripetizione. Nel tentativo di concepire un contributo originale, si è pertanto deciso di leggere il discorso sulla cittadinanza e sul senso di appartenenza nell’ottica della denizenship, con un riflettore puntato in particolar modo sulle nozioni di integrazione e identità. Tale “scelta di campo” nasce dallo spiccato interesse che si nutre verso la comprensione di cosa simboleggi oggi la figura del migrante e dall’osservare le dinamiche che le ondate migratorie imprimono sulla società, al centro della cronaca e delle riflessioni di tanti studiosi del pensiero politico contemporaneo. Anello di congiunzione tra gli argomenti è l’analisi del lento processo di avvicinamento che la Turchia compie nei confronti dell’Unione europea, analizzato attraverso la lente d’ingrandimento della denizenship applicata ai lavoratori turchi emigrati in Germania (che aiuterà a comprendere se e come la concessione di alcuni diritti e il lavoro conducano a una reale integrazione dei soggetti che approdano in un contesto societario spesso molto distante dal loro per cultura e tradizioni) e all’orientalismo, di cui è ancora impregnato gran parte del pensiero occidentale. Nel panorama teorico-politico contemporaneo, si possono distinguere essenzialmente due approcci principali alla globalizzazione: uno ammette la tensione tra libertà e democrazia, portandola sino al livello delle politiche interstatali o internazionali (è ciò che prende il nome di “governo cosmopolita”); l'altro prova a dissiparla, comprimendo il ruolo del governo (è l'approccio seguito da coloro che si concentrano sulla “società civile”). Nonostante sembrino due approcci antitetici, in realtà entrambi ricercano soluzioni al di fuori della cornice statale, prestando sovente minor attenzione al modo in cui gli Stati mettono in atto il processo democratico al proprio interno. Una volta ottenuto il riconoscimento delle libertà fondamentali da parte di coloro che si mobilitano in difesa dei diritti umani, si produce uno scontro interno al liberalismo stesso: più numerose saranno le comunità o le nazioni che daranno preminenza ai diritti liberali, maggiore diverrà la probabilità di conflitto su cosa essi rappresentino e sarà estremamente complicato dimostrare che una parte sia “moralmente scorretta”, pur agendo sul suo stesso background culturale. In quest’epoca del post, si inserisce anche il dibattito contemporaneo sulla cittadinanza. Attraverso una mappatura delle diverse teorie formulate dagli studiosi dei citizenship studies, in specifico riferimento ai mutamenti concettuali prodotti dall’avvento della cosiddetta “epoca globale”, si è provato innanzitutto – mediante una ricostruzione e un’analisi degli aspetti positivi e delle criticità delle proposte avanzate per conseguire l’integrazione nelle “società d’accoglienza” – a riordinare i diversi passaggi che hanno condotto all’accezione democratico-sociale contemporanea di cittadinanza, considerata come un universo paradigmatico e valoriale, utile a sanare le fratture prodotte dalla globalizzazione nelle relazioni intersoggettive, e a (ri)costruire una nuova forma di identità, destabilizzata dalla pressione migratoria globale. Globalizzazione e cittadinanza sono poste spesso in antitesi. Nel I capitolo, si vedrà come il primo concetto pone accanto al lento declino degli Stati-nazione, la veloce intensità dei flussi migratori (facendo emergere la tematica identitaria); il secondo concetto, invece, si rifà alla polarità cittadino/straniero oppure al mito identitario del «cittadino cosmopolita». A latere di questo rapporto antitetico, si riscontra un azzeramento della distanza tra sfera privata e sfera pubblica ma, al contempo, risultano enfatizzati i tratti più radicali dell’identificazione societaria, quali religione, etnia, lingua, territorialità. Gli immigrati fungono da “specchio” della crisi del concetto di cittadinanza sinonimo di nazionalità: la pongono in discussione e ridefiniscono. Le migrazioni non sono un fenomeno nuovo, ma il definire l’epoca contemporanea «come “età delle migrazioni” è corretto non solo per l’elevata portata degli spostamenti di popolazione, ma anche e soprattutto per la rilevanza della questione in tutti i paesi, sia in quelli di partenza che in quelli di arrivo». Con la globalizzazione, le società si “contaminano” per forza di cose, dunque, per renderla davvero comprensiva, aperta, bisognerebbe sforzarsi di immaginare un modello di cittadinanza "dalla parte dei senza parte", dove, in quella distribuzione globale di gerarchie e privilegi, sia materiali che simbolici, si fuoriesca dalla condizione di immigrato, migrante o di origine migrante e si acceda a quella che Goffman chiamava "disattenzione civile" – ossia, la “cortese indifferenza reciproca”, imperante nei luoghi di transito – e Delgado, "diritto all’indifferenza", situazione, questa, in cui si smette di prestare attenzione a cosa facciano questi individui e ci si concentra su chi siano. Grazie a un consimile approccio, è possibile disegnare, insomma, un modello di cittadinanza anche “imperfetto”, ma che garantisca a ogni migrante uno ius migrandi, il diritto ad avere diritti e, soprattutto, che tuteli maggiormente i diritti umani. Seguendo le traiettorie prospettate da Ralf Dahrendorf, la cittadinanza, nella sua accezione moderna, ha operato una differenziazione tra i membri della comunità politica: verticale, creando una società stratificata; e laterale o spaziale, caratteristica della modernità, ossia escludente. Le migrazioni ne esasperano il significato, poiché l’inserimento sociale e occupazionale opera una netta distinzione tra potenziale e grado reale di integrazione, e la realtà sociale delle società di partenza, di transito e di arrivo, che vengono attraversate e condizionate, muta irreversibilmente. Esse agiscono su territorio, confini e Stato, ridisegnando e stravolgendo la geografia degli spazi politici, dei principi giuridici e del mercato del lavoro. Salta così l’impianto della teoria giuridica di inizio Novecento, basato sulla coincidenza tra popolo, nazione e territorio, su cui si esercita la sovranità statuale, presupposto per la piena realizzazione della cittadinanza, e si passa alla cittadinanza in sé quale strumento per giungere all’uguaglianza umana fondamentale. Entrambe le visioni partono dal presupposto che lo spazio giuridico territoriale renda omogenei, quindi uguali, i soggetti ricompresi all’interno della propria giurisdizione. L'ingresso nel territorio statuale viene regolato in base all'accettazione della comunità politica di riferimento: mediante la configurazione di confini sia interni che esterni, lo Stato nazionale cerca strenuamente di preservare la sua unità; se questa non esiste, prova a crearla; se esiste, ma è fragile, la rinvigorisce. Tuttavia, si ritiene che l’idea di cittadinanza post-nazionale, pur scardinando il principio di “fedeltà a un’unica nazione”, non pronostichi un vero e proprio trascendimento degli Stati, ma li immagini come categorie geografiche e sociali sempre più interconnesse e dai confini sempre più permeabili. Tutt’al più, la membership post-nazionale “deterritorializza” i diritti della persona, scontrandosi (soprattutto nelle sue forme più estreme) con la ragione stessa della cittadinanza nazionale. Secondo Danilo Zolo, «la cittadinanza viene presentata come un’idea strategica ed espansiva, capace di coprire almeno in parte il vuoto teorico che si è aperto con la crisi dei “paradigmi ricevuti” del socialismo e della liberaldemocrazia». La cittadinanza – sollecitata dalla crisi dello Stato territoriale, «contenitore» rivelatosi insufficiente a raccogliere e accogliere le varie realtà in esso presenti – ha provato a individuare forme di inclusione per gli individui, all’interno di un ordinamento politico. Zolo ritiene, dunque, che la cittadinanza metta in relazione i diritti soggettivi con l’appartenenza e l’esclusione – nel quadro del regime delle istituzioni democratiche e in contesti sempre meno unitari, se non proprio “frazionati” –, consentendo inoltre di analizzare il rapporto fra i fenomeni di globalizzazione e la salvaguardia dei diritti, assicurata dallo Stato costituzionale. Al giorno d’oggi, in un’epoca che vive – a seconda dei punti di vista – una crisi o un rinvigorimento della sovranità statale e nella quale la gestione dei fenomeni migratori non è più di esclusiva pertinenza delle decisioni dei singoli Stati nazionali, «pensare l’immigrazione significa pensare lo Stato ed è lo Stato che pensa se stesso pensando l’immigrazione». Questo era ciò che Sayad definiva “pensiero di Stato”. È, quindi, la società globale a “pensarsi” mediante e grazie alle migrazioni: assieme al “pensiero di Stato”, essa stabilisce lo spazio della conoscenza politica delle migrazioni. Se non avviene questo passaggio, il migrante continuerà a essere raffigurato come vittima, come soggetto necessitante di protezione e tutela, «escluso dal politico». Anche se le formulazioni giuridiche in merito al diritto di circolare liberamente si prestano spesso a interpretazioni discordanti, Alessandro Dal Lago sostiene che l’uguaglianza e la libertà di tutti gli esseri umani di muoversi in uno spazio comune siano principi da cui non si può prescindere. Gli fa eco Seyla Benhabib, la quale sostiene a gran voce che “nessun essere umano è illegale” e che varcare i confini, rivendicando l’accesso a una comunità politica differente dalla propria sia una delle libertà umane, non un atto criminale. Di conseguenza, ogni individuo, a prescindere dal suo stato di cittadinanza politica, deve essere trattato nel rispetto della dignità morale. Malgrado ciò «l’umanità viene divisa in maggioranze di nazionali, cittadini dotati di diritti e di garanzie formali, e in minoranze di stranieri illegittimi (non cittadini, non nazionali) cui le garanzie vengono negate di diritto e di fatto». Non riconoscendo i diritti di cittadinanza e, ancor prima, i diritti umani, risalta la disarmonia costitutiva della legittimità democratica delle società nazionali, quell’attrito presente tra le rivendicazioni dei diritti umani universali e il fare i conti con identità culturali e nazionali particolaristiche. Benhabib sottolinea che, nel diritto internazionale, si garantisce il diritto a emigrare, ma non quello di immigrare (Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo del 1948, art. 13). La Carta dei diritti fondamentali, infatti, «non dice nulla sugli obblighi degli Stati a garantire l’ingresso agli immigrati, ad accordare il diritto di asilo, e a concedere la cittadinanza ai residenti e ai denizens (residenti permanenti senza pieni diritti)». Proprio quest’ultima figura, il denizen, e la categoria a esso collegata (la denizenship) saranno oggetto del II capitolo del presente lavoro, nel quale si proverà a spiegare per quale motivo, ad avviso di chi scrive, alcune proposte avanzate in merito sono maggiormente praticabili nel fornire una risposta alle istanze sollecitate da coloro che “permeano” i confini e i territori degli (ex?) Stati-nazione. Come si vedrà sia nel II che nel III capitolo, il dibattito contemporaneo sulle migrazioni si intreccia prepotentemente con quello sulle “nuove cittadinanze” o “nuove pratiche di cittadinanza”: concetti, questi, che abbracciano sia i processi socio-culturali di mobilità, transnazionalismo e ibridazione sia il “multiculturalismo quotidiano”; che "surdeterminano" la vita dei migranti all’interno del tessuto sociale degli spazi metropolitani; e individuano i limiti storici connaturati alla, nonché l’irreversibile collasso della, concezione moderna e statocentrica di cittadinanza. Si potrebbe affermare che quella post-moderna sia l’epoca dello “sradicamento”. Pensare la società (globalizzata) attraverso le migrazioni vuol dire anche affrontare il tema dell’integrazione – altro elemento che evidenzia il “disintegrarsi della cittadinanza” –, spesso rivelatasi “un’inclusione che esclude” attraverso quelle che Sassen ha definito “localizzazioni del globale”, ossia sacche di lavoro precario, sottopagato e irregolare nelle quali gli immigrati sono soggetti sociologicamente presenti, ma politicamente alienati. La resistenza opposta dai migranti a questa nuova configurazione globale del politico incontra proprio negli Stati nazionali il suo primo interlocutore. Balibar ha sostenuto che, nel quadro delle “cittadinanze postcoloniali” nelle nazioni europee, il termine immigrazione è la nuova veste assunta da ciò che un tempo si definiva razza. Con quest’affermazione, egli si riferisce al lascito dei discorsi legittimati dal vecchio sistema di pensiero razziale, che leggono un problema nell’immigrazione, “eleggono” certi gruppi e soggetti per svolgere alcuni lavori piuttosto che altri, li descrivono come più indesiderabili o pericolosi rispetto ad altri, culturalmente distanti. Ecco, dunque, che anche la sola presenza di questi soggetti nella società viene percepita come una minaccia alla conclamata omogeneità e alle prestazioni lavorative della società stessa, se incontrollata. Quel post è, inoltre, testimonianza di una strenua critica alla cittadinanza, considerata come un “bene esclusivo o selettivo”, di appannaggio solo per alcuni, ma preclusa ad altri. Gli studi meno recenti di antropologia del diritto, raccontano di un pluralismo giuridico originato da quello sociale. Tuttavia, con l’incremento dei flussi migratori – che rendono le società sempre più eterogenee e frammentate –, si assiste alla convivenza tra una pluralità di minoranze etniche – con annesse tradizioni, culture e religioni molto distanti fra loro – e alla coesistenza di una molteplicità di codici normativi, che complica la soluzione dell’incognita riguardante l’articolazione dei diritti. Non di rado, infatti, accade che vengano adottati impianti normativi diversi per le stesse contingenze giuridiche, fino a dichiarare effettivi degli istituti che sono completamente avulsi dal nostro ordinamento. Le sfide a cui la democrazia e l’istituto della cittadinanza sono oggi sottoposte, dinanzi all’avanzata incessante delle migrazioni, sono esemplificative della crisi di quegli istituti e di quei concetti, incapaci di gestire e conciliare le richieste avanzate dai migranti, in una forma istituzionalmente idonea. Il problema è che si pensa a un soggetto in maniera collettiva (ad esempio, gli immigrati), non distinguendo tra le singole individualità, cioè da quante singole storie è composto un gruppo. La cittadinanza e l’identità possono essere accostate, sia da un punto di vista filosofico-normativo che sperimentale. Seguendo il primo approccio, la questione è se l’idea di cittadinanza riesca a forgiare un’identità collettiva, tale da favorire lo sviluppo della democrazia; attenendosi al secondo, ci si domanda in che modo e per quale motivo le società moderne, fondate sulla nozione di cittadinanza, sviluppino un’identità collettiva. Questa particolare accezione di identità, che si contrappone a quella di identificazione, risulta interessante in quanto, secondo Hall, l’impostazione e l’insieme delle tecniche performative non conducono necessariamente alla determinazione della prima, ma possono “dare il la” ai processi che definiscono la seconda, predisponendo uno spazio entro il quale il soggetto deve disporre di un margine di libertà. Mentre l’identificazione assume i connotati di una costruzione in costante evoluzione, dettata dalla necessità, l’identità culturale deriva da un pregresso storico specifico, pur non essendo totalmente predeterminata. Hall ritiene, infatti, ci sia una costante “contrattazione” dell’identità: le storie che la compongono sono impresse nei ruoli in cui ci si identifica. Le identità si articolano all’interno della differenza, non al di fuori di essa: a partire dalla relazione con l’altro, si edificano come rappresentazioni attraverso un’assenza, un distacco. I nazionalismi, non ammettendo la diversità, i particolarismi, al proprio interno, hanno tenuto fuori tutti i gruppi subalterni, realizzando una sorta di “purificazione”. Oggi, sovvertendo leggermente il “pensiero di Stato”, che disciplina i rapporti tra migranti e Stato, si potrebbe dire che la figura del profugo o del richiedente asilo sia più tollerata rispetto a quella del migrante. La gran parte della popolazione condivide la paura nei confronti di quest’ultimo, mentre il profugo sposta l’attenzione sul piano umanitario: il suo corpo è il “veicolo” di un’identità di per sé non propensa alla migrazione, ma costretto a compierla. Il profugo è sinonimo di provvisorietà, nell’immaginario socialmente accettato. Dunque, prima o poi, “tornerà a casa”. Il migrante, invece, naviga in una dimensione incerta: protende alla stabilizzazione e al ricongiungimento familiare. Ha scelto di partire. Il discorso umanitario è importante, perché depoliticizza o “spoliticizza” i movimenti migratori. Oggetto del II capitolo sarà, inoltre, il tema della rappresentanza democratica in relazione al principio di appartenenza territoriale, definitosi attraverso la categoria della cittadinanza: «con appartenenza politica intendo analizzare i principi e le pratiche volte a integrare stranieri e forestieri, immigrati e nuovi arrivati, rifugiati e richiedenti asilo, nei sistemi politici esistenti». L’immigrazione costringe le società a riformulare i principi che determinano la membership alla nazione e consentono di accedere ai diritti di cittadinanza. L’analisi delle varie proposte di denizenship, aiuterà a comprendere se e come oggi sia possibile – parafrasando una figura rivoluzionaria del passato, Sieyès – far diventare “attivi” quei soggetti “passivi”, che permeano il tessuto interconnettivo della società globale. Tra i vari autori citati, si farà spesso riferimento agli studi condotti da Seyla Benhabib, la quale – contrapponendosi a diversi esponenti del dibattito internazionale su frammentazione, crisi della cittadinanza ed eclissi della sovranità territoriale – sostiene che questa vada, in qualche modo, circoscritta (così come limitata dev’essere l'appartenenza a una comunità), ma tali delimitazioni non devono necessariamente corrispondere ai confini di uno Stato nazionale. Un’idea potrebbe essere quella di praticarla all’interno di un gruppo di Stati, come quello europeo: «the right to determine the boundaries as well as identity of this community are fundamental to democracy; therefore, the argument goes, economic and political globalization threaten to undermine citizenship». La filosofa turco-americana suddivide due correnti di pensiero, entrambe non contrarie all’immigrazione in quanto tale, ma solo ad alcune sue tipologie: «they tend to favour the incorporation of those foreigners who “are like us”, and who can become the “model citizen”». La prima corrente contempla una “frammentazione della cittadinanza”, nella quale si trovano autori come Ong, Soysal e Rosenau, ossia i sostenitori di una cittadinanza post-nazionale, in cui si realizzi una disgiunzione tra identità politica e appartenenza nazionale e «l’affermazione e la diffusione di un nuovo regime dei diritti umani [...] come l’annuncio di una nuova coscienza politica e di nuove forme di appartenenza». Tra questi, Yasemin Soysal fa riflettere su come, in molti Paesi occidentali, i diritti che un tempo erano di esclusiva pertinenza dei cittadini sono stati poi estesi agli immigrati. Questo è in netto contrasto con l’istituto della cittadinanza, tra l’altro in un momento come quello attuale, in cui gli Stati-nazione paiono nascere a nuova vita, il che si esplica nel potenziamento del controllo confinario e alle frontiere, oltre al dilagare dei movimenti politici sostenitori di ideologie nazionaliste. Soysal sostiene che le politiche degli Stati europei sull’integrazione degli immigrati siano state influenzate, non poco, dalla politica internazionale sui diritti umani. La seconda corrente è, invece, quella del “declino della cittadinanza”, all’interno della quale ci sono sia gli esponenti del classical o civic republicanism che quelli del communitarianism – Sandel, MacIntyre, Walzer –, i quali ritengono che il declino dello Stato-nazione sia stato causato dall’introduzione delle norme internazionali concernenti i diritti umani o dall’eccessiva “sponsorizzazione” del cosmopolitismo, che ha svalorizzato l’istituto e le pratiche di cittadinanza. Dunque, nonostante la globalizzazione e gli ingenti flussi migratori abbiano dilatato i confini, cittadinanza e rappresentanza democratica vanno ancora “recintate” a livello territoriale. Benhabib non si contrappone a coloro che ipotizzano una riassegnazione dei diritti di cittadinanza in un quadro transnazionale, anzi solidarizza con i simpatizzanti della “cittadinanza deterritorializzata”, i quali ritengono che le identità politiche non debbano essere determinate su basi statocentriche e i confini della società civile non debbano combaciare con quelli dello Stato-nazione. La rappresentanza democratica riguarda una specifica comunità, pertanto la legislazione democratica sarà, in una certa misura, chiusa: «Precisely because democracies enact laws that are binding on those “who authorize them”, the scope of democratic legitimacy needs to be circumscribed by the demos which has bounded itself as a people on a given territory». Tuttavia, pur prevedendo delimitazioni, non dovrebbe proibire il flusso di persone attraverso i confini, né in entrata né in uscita. Il principio della rappresentanza democratica è da sempre stato fondato su tre presupposti: l’appartenenza a uno specifico territorio; l’ammissione in una comunità democratica; il risiedere in quest’ultima. Nell’attuale contesto globale, in cui i popoli sono interconnessi, è possibile coniugare la partecipazione democratica – ossia, intendere e realizzare una rappresentanza democratica che non si rapporti più allo Stato-nazione – al di fuori dell’archetipo che prevede l’omogeneità del popolo e l’autonomia territoriale? Benhabib, pur reputando queste concezioni ormai superate, continua a insistere sul legame tra «self-governance democratica e rappresentanza territoriale», affermando che «gli imperi hanno frontiere, le democrazie confini». Ma, nella globalizzazione contemporanea, «la cittadinanza frammentata è anche una cittadinanza democratica?». Se si dà per assodato che lo Stato-nazione westfaliano non riesca più a rappresentare lo schema della rappresentanza democratica, anche i suoi capisaldi vacilleranno: l’identità collettiva nazionale e sovrana e i confini territoriali sono destabilizzati, così come si assottiglia il confine tra diritti umani e diritti di cittadinanza. Ecco che fioriscono nuovi modelli di “cittadinanza deterritorializzata”: La rappresentanza democratica può quindi discostarsi dalla stanzialità territoriale, seguendo il criterio del riconoscimento, in base al quale tutti coloro che sono tenuti a rispettare una norma devono avere anche modo di formularla: «Poiché la teoria del discorso formula una prospettiva morale universalistica, essa non può limitare la portata della conversazione morale solo a coloro che risiedono all’interno di confini nazionali riconosciuti; deve considerare la conversazione morale come potenzialmente estendibile a tutta l’umanità». Viene, così, superata l’etica del discorso habermasiana, attraverso il riconoscimento del valore razionale e morale dell’altro. Benhabib si rifà agli studi di Montesquieu, Kant e Hannah Arendt, i quali si opponevano all’idea di un “governo globale” e “illimitato”, non intravedendo in esso elementi pienamente democratici. Ecco perché immagina confini “porosi” e non aperti, una valida soluzione in un frame multiculturale e multietnico, che tuteli anche le esigenze della società di accoglienza: «As Rainer Bauböck notes, a territorial border serves to demarcate both a jurisdiction and to regulate the flow of peoples. While democratic self-governance involves the demarcation of jurisdiction, it ought not to prohibit the flow of peoples across borders in both directions». Il primo ingresso in una nuova comunità (che si presume temporaneo) non dà un diritto automatico all’appartenenza: saranno le singole comunità a stabilire il “quantitativo” di immigrazione che vorranno accettare. La concezione sociale della cultura, sovrapposta alla narrazione, è funzionale all’utilizzo che Benhabib ne fa, ritenendola ancora eccessivamente omogenea, statica e limitata: ciò che le preme, è individuare rivendicazioni universali, strumentali alla risoluzione delle sfide apportate dalla politica multiculturale e dal problema del riconoscimento e della differenza. L’agency, che presuppone una collettività e rappresenta lo spazio all’interno del quale un gruppo agisce, richiede che la differenza sia accantonata. Il soggetto va ricostruito al suo interno, partendo dall’assunto che la soggettività non preesiste a un rapporto, ma si costruisce in esso. Il punto di vista di Benhabib è interessante, perché pone con insistenza l’interrogativo su come si possano conciliare i diritti degli “altri” con la tendenza delle democrazie a chiudersi in sé. Quest’interrogativo – a cui si potrebbe provare a rispondere, sostiene Benhabib, se si comprendesse appieno il significato di cultura e della sua relazione con l’identità – e le molteplici richieste di trattamento differenziato sono sottese alla dinamica relazionale individuo/collettività e mettono in tensione il dilemma costitutivo delle democrazie liberali. Ogni epoca conosce un processo di costruzione della propria alterità. È un processo conflittuale, continuo, non calato dall’alto verso il basso. Le migrazioni internazionali hanno minato le fondamenta dello Stato-nazione, ponendo come sempre più pressante il tema dell’accoglienza dell’“altro” e di come far coesistere pacificamente le identità culturali all’interno delle comunità. La cittadinanza è un istituto che lega chi gli è sottoposto a una determinata entità statale; la nazionalità, invece, non è un istituto giuridico, ma una nozione sociologica e culturale, che può accomunare anche cittadini di Paesi diversi, concernendo il sentimento di appartenenza (il divenire parte di un noi) a una data comunità, anche se c’è chi, come Balibar, non le attribuisce più : «un valore storico, all’interno del quale è possibile costruire la libertà individuale e l’uguaglianza collettiva, ma diventa l’essenza stessa della cittadinanza e cioè la costruzione di una comunità assoluta, a cui tutti gli altri devono aderire». Lo si vedrà bene nel III e ultimo capitolo, quando, passando attraverso il racconto dei guestworker turchi in Germania – ai quali, tra i primi, fu applicata la denizenship, che però non ha garantito una piena integrazione di questi nella società di accoglienza –, si farà riferimento all’annosa questione dell’adesione della Turchia all’Ue, che ben evidenzia le contraddizioni insite nei concetti di identità, appartenenza e integrazione. E come, probabilmente, una “cittadinanza europea” non sia ancora matura per accogliere tra i suoi membri un candidato “a metà strada tra Oriente e Occidente”. La Dichiarazione sull’identità europea, sottoscritta in occasione del vertice di Copenaghen del 20 dicembre 1973, non teneva conto delle migrazioni. Oggi l'Europa e le sue frontiere sono la chiave di volta per la cittadinanza; il banco di prova su cui la democrazia può incorrere in una brusca frenata oppure riprendere il suo cammino nella direzione della concessione dei diritti. Lo Stato estende la sua nazionalità attraverso la dimensione extraterritoriale che assume con la globalizzazione. I confini ormai non seguono più la regolare morfologia territoriale (anzi, estendono ben oltre la loro influenza), disegnando uno spazio giuridico globale e irregolare. Segnano una linea netta di demarcazione tra chi si riconosce in regole e principi comuni e chi no; rendono la diversità disuguaglianza, con il doppio risvolto dell’esclusione o dell’appartenenza. La frontiera è invece una condizione che trasforma un individuo in straniero. I migranti, in questa nuova raffigurazione, sono cittadini della frontiera, riempiono gli spazi transnazionali prodotti dalle deterritorializzazioni e riterritorializzazioni della globalizzazione, veri «crogioli di un ordine politico sovranazionale». La migrazione altro non è che «poetica del transito e della transitorietà» e mina alle radici l’idea stessa di appartenenza, intesa come inclusione in un solo e unico contesto identitario, precisamente localizzato e ben protetto. Riassumendo: possono coabitare e coesistere identità culturali differenti? Se sì, in che modo, visto che la modernità sembra incapace di pensare al plurale, nonostante questa pluralità sia insita all’interno delle proprie comunità? Chi o cosa determina l’identità di un soggetto? Si è uguali perché si appartiene alla stessa nazionalità, si parla la stessa lingua o si pratica la stessa religione, ad esempio? In tal caso, si dovrebbe affermare che un inglese e uno statunitense sono uguali per via dell’idioma; o un italiano e un sudamericano, per il loro credo. Nel mondo cosmopolita, si parlano lingue diverse persino all’interno delle città e si mantengono le tradizioni legate alla cultura d’origine. Volendo estendere il discorso all’Europa: in merito al “sentire comune europeo”, raffrontandolo con quello statunitense, quando tutti gli americani si sono sentiti coinvolti dagli attentati dell’11 settembre 2001, può affermarsi lo stesso per i cittadini europei, in occasione degli attacchi terroristici di Parigi o Bruxelles? Il lavoro di tesi sin qui presentato intende pertanto operare una riflessione su queste tematiche. Con un focus sulla denizenship, una delle soluzioni pensate – quando, con l’avvento della globalizzazione, è saltato lo schema tradizionale tra cittadinanza (nei suoi elementi classici: sovranità territoriale, diritti e appartenenza) e stanzialità, e l’appartenenza si è scissa in due (culturale e politica) – per coloro che hanno “smarrito” la propria appartenenza politica e ricercano un modo per partecipare all’autogoverno della società in cui risiedono. La denizenship si pone all’intersezione tra le teorie sulla cittadinanza e lo spazio delle migrazioni, quando la dimensione politica viene “infranta” da nuove identità culturali in transito. Se, dunque, la crisi dei diritti può trovare una possibile via d’uscita attraverso l’istituto della denizenship, il ripensamento o le sfide a cui è sottoposto il concetto di identità si ripercuotono inevitabilmente, come si vedrà in chiusura, sulle dinamiche culturali.
18-set-2018
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