La ricerca sviluppata nella tesi è finalizzata a valutare gli eventuali limiti alla discrezionalità del legislatore nell’adozione del sistema elettorale desumibili dall’art. 48 Cost. nella parte in cui prevede l’eguaglianza del voto. In particolare l’indagine riguarda gli effetti che tale precetto costituzionale può avere in tema di scelta del sistema elettorale in senso stretto, inteso quindi quale sistema di trasformazione dei voti in seggi. Dal punto di vista metodologico la prima questione che viene affrontata è quella di ricostruire, in chiave storico-dottrinale, il concetto della rappresentanza politica al fine di ricercare il collegamento tra la natura rappresentativa dell’Assemblea legislativa e le regole elettorali. Questa operazione, che parte dagli studi classici sulla rappresentanza politica, risulta utile per provare a tracciare un distinguo tra la concezione classica, di matrice liberale, della rappresentanza come mera preposizione alla carica del singolo parlamentare e la concezione della rappresentanza politica come rapporto, perdurante il corso della legislatura, tra rappresentati e rappresentanti. Il passaggio dalla fase liberale e l’idea dell’elezione come scelta dei migliori, alla fase democratica-costituzionale, infatti, permette di poter intravedere nella rappresentanza politica un istituto più complesso che contempli un rapporto reale tra elettori ed eletti. Per poter parlare di rapporto rappresentativo devono essere innanzitutto individuati quelli che sono i soggetti della rappresentanza politica e quale è il loro ruolo nella rappresentanza. Lo studio della rappresentanza democratica conduce a ritenere che i soggetti che hanno un ruolo nell’istituto indagato sono il rappresentante e l’elettore. Se così è, allora si deve dare un’interpretazione all’art. 67 Cost., laddove, prevedendo che il singolo parlamentare rappresenta la Nazione, sembra trascurare il ruolo dell’elettore. È proprio un’interpretazione letterale dell’art. 67 della nostra Carta costituzionale che ha permesso, ad una parte della dottrina, di sostenere che i rappresentanti devono agire in nome di un interesse generale che travalichi gli interessi degli elettori. Nell’elaborato si cerca di argomentare, a contrario, come l’art. 67 non abbia una portata tale da incidere sugli interessi che il rappresentante deve perseguire. Si giunge a tale conclusione poiché l’istituto parlamentare, più che luogo nel quale i rappresentati interpretano l’interesse generale, è da considerarsi il luogo di sintesi delle domande e delle pulsioni sociali, quindi il luogo in cui vi è la composizione di variegati interessi che si ritrovano all’interno della società che vengono graduati attraverso la discussione e il dibattito parlamentare. Se questo è il ruolo del Parlamento allora la funzione del rappresentante non può limitarsi ad essere quella di interpretare un’ipotetica volontà generale ma deve essere quella di interagire con il contesto sociale, in particolar modo con gli elettori che hanno determinato il ruolo di rappresentante in capo ad uno specifico soggetto. Nello stesso tempo, il ruolo dell’elettore non può essere circoscritto alla mera scelta del parlamentare, ma deve essere anche quello di un soggetto che può influenzare la decisione politica in un rapporto dinamico con il rappresentante (PITKIN 1967). In questo modo è la concezione generale della democrazia che muta, in particolare rispetto al periodo liberale, e viene a qualificarsi non come statico governo sul popolo ma come un complesso processo politico nel quale il popolo è parte attiva anche oltre la mera approvazione elettorale (URBINATI 2006). Se la rappresentanza politica può essere così ricostruita dal punto di vista teorico, per avere un’applicazione concreta di questa dinamica tra i rappresentati e i rappresentanti, il ruolo del sistema elettorale deve essere quello di garantire che tale rapporto tra i due soggetti della rappresentanza possa effettivamente attuarsi. Lo studio del sistema elettorale deve tenere in considerazione questo modello di rappresentanza politica, che sarà il fil rouge per valutare quali sono i sistemi elettorali in grado di produrre un Parlamento che rispetti i canoni della rappresentanza democratica. Solo dopo aver svolto una ricostruzione del moderno concetto di rappresentanza politica, vi è la possibilità di collegare la stessa all’eguaglianza del voto, sancita dall’art. 48 della Costituzione nel più generale principio di eguaglianza tra i consociati. Per permettere un’adeguata analisi si è deciso di suddividere lo studio sostanzialmente in due momenti distinti, che caratterizzano il complicato rapporto sistema elettorale-rappresentanza-eguaglianza del voto, ovverosia il collegio elettorale e la formula elettorale. Nella prima parte si analizzano le conseguenze che il principio di eguaglianza ha sulla libertà del legislatore di determinare i confini dei collegi elettorali. Tale studio si è reso necessario poiché si è cercato di mettere in luce che il collegio elettorale è il luogo “naturale” di formazione del rapporto rappresentativo, poiché spazio territoriale dove i partiti politici presentano i propri candidati e dove si instaura quel circuito rappresentativo, fra rappresentanti e rappresentati, di cui si faceva riferimento durante la trattazione teorica del concetto della rappresentanza politica. Questo presupposto nasce dalla circostanza che se la rappresentanza è un rapporto politico tra soggetti (rappresentante e rappresentato), tale rapporto non può che non essere individuato all’interno del luogo dove formalmente e sostanzialmente gli elettori scelgono i propri rappresentanti. Si cerca quindi di argomentare che il luogo in cui si instaura e si alimenta il rapporto rappresentativo tra eletti ed elettori è proprio il collegio elettorale. Nell’elaborato si individuano, inoltre, le conseguenze che il principio d’eguaglianza del voto ha in merito alla suddivisione del territorio nazionale. Attraverso un approfondimento della giurisprudenza e della dottrina di alcuni ordinamenti stranieri, in particolare degli Stati Uniti e del Regno Unito, una delle prime conseguenze messe in luce è quella per cui i collegi elettorali devono essere strutturati in modo tale da garantire l’eguaglianza tra gli elettori situatati in collegi diversi, affinché tutti gli elettori siano posti nella condizione di poter egualmente partecipare alla formazione dell’Assemblea rappresentativa. Nel lavoro di tesi si prova ad argomentare che per garantire tale eguaglianza i collegi elettorali, quando eleggono un solo rappresentante, devono essere individuati e delimitati su basi essenzialmente demografiche affinché la consistenza della popolazione (o degli elettori) all’interno dei collegi sia quanto più omogenea (si veda p. es. la sentenza della Supreme Court degli Stati Uniti U.S. 725 (1983)). Diversamente, quanto il sistema elettorale adottato è un sistema plurinominale non è necessario che i collegi siano demograficamente identici. In questi casi è però indispensabile, come indicato dallo stesso Testo costituzionale all’art. 56, che pur nella diversità della composizione demografica la distribuzione dei seggi avvenga in modo proporzionale alla suddetta consistenza demografica, affinché, anche in questo caso, non vi sia una irragionevole distinzione tra elettori posti in collegi elettori diversi. In secondo luogo, si cerca di analizzare l’effetto che l’applicazione della formula elettorale può avere, legittimamente o meno, sulla distribuzione territoriale della rappresentanza. A tal proposito si cerca di mettere in luce che i c.d. sistemi elettorali multilivello – sistemi nei quali i voti vengono trasformati in seggi ad un livello territoriale diverso rispetto al collegio elettorale – sono legislazioni elettorali che non permettono la realizzazione del principio d’eguaglianza così considerato. In questi sistemi, infatti, alla conclusione dell’iter elettorale vi è la possibilità che l’allocazione dei seggi avvenga in misura diversa rispetto al numero di seggi che il collegio elettorale avrebbe diritto in base alla consistenza demografica. Attraverso un’analisi empirica si cerca di documentare che in questi sistemi elettorali l’eguaglianza tra gli elettori posti in collegi elettorali diversi rischia di non essere garantita, poiché all’assegnazione finale dei seggi, vi saranno elettori che saranno sovra o sotto rappresentati rispetto ad altri elettori di altri collegi elettorali. Il secondo collegamento tra legislazione elettorale e eguaglianza del voto che si cerca di sviluppare nell’elaborato è inerente al concreto sistema di trasformazione dei voti in seggi. Sul tema, si cerca di dimostrare che la dottrina dominante – sia prima che dopo le sentenze della Corte costituzionale in tema di premio di maggioranza – volta ad interpretare l’eguaglianza del voto come mera eguaglianza in entrata (quindi esclusione di voto plurimo e voto multiplo), sia la dottrina minoritaria, che invece ha incluso il principio di eguaglianza del voto “in uscita” tra i principi costituzionali, sono accomunate da una costruzione teorica dell’eguaglianza fondata sul principio proporzionale. In questo senso, infatti, la dottrina, indipendentemente dal considerare il principio d’eguaglianza del voto “in uscita” un precetto costituzionale, ha tendenzialmente sostenuto che l’eguaglianza del voto in questa accezione comporti l’adozione di un sistema elettorale proporzionale. Anche la giurisprudenza costituzionale sembrerebbe essere dello stesso avviso. Nelle due sentenze riguardanti il premio di maggioranza per l’elezione delle Assemblee rappresentative nazionali, la Corte sembra avere considerato l’eguaglianza del voto “in uscita” quale sinonimo di proporzionalità nazionale. La Corte, infatti, ha ritenuto illegittimo il premio di maggioranza senza una soglia poiché posto all’interno di un sistema proporzionale nel quale il voto “in uscita” non può essere eccessivamente distorto. La Corte sembra aver posto alla base delle proprie argomentazioni la quantità della distorsione del voto prodotta dal sistema elettorale. A confermare tale lettura della giurisprudenza soccorre la stessa Corte Costituzionale che nella sentenza n. 1 del 2014 ha richiamato il Tribunale federale tedesco, che da anni ritiene che il principio d’eguaglianza in senso sostanziale sia un principio che limita il legislatore solo qualora decida di adottare il sistema elettorale proporzionale. Se tali premesse sono vere, però, il rischio è quello che il principio d’eguaglianza “in uscita” sia un principio alquanto sfumato che limita la discrezionalità del legislatore solo qualora lo stesso decida di adottare il sistema elettorale proporzionale, non essendo, quindi, un precetto costituzionale che limita in via generale la discrezionalità del legislatore. Allo stesso modo, anche la dottrina, ancor prima delle sentenze della Corte, ragionando sulla distorsione del voto prodotta dai sistemi elettorali, ha cercato di motivare la legittimità costituzionale proprio del premio di maggioranza comparando tra loro sistemi elettorali di diversa natura (vuoi proporzionali, maggioritari o misti), concludendo che se un grado di disproporzionalità che si produce a livello nazionale in un dato sistema elettorale è da considerarsi costituzionalmente legittimo, di conseguenza deve esserlo anche negli altri. Una medesima impostazione teorica del problema viene portata avanti anche da chi, pur contrario al sistema elettorale con premio di maggioranza, utilizza il parametro della disproporzionalità per giungere a sollevare dubbi di legittimità costituzionale nel classico sistema uninominale first past the post, accusato di falsare la rappresentanza poiché in grado di assegnare ad una forza politica più seggi di quanti ne avrebbe ottenuti con un riparto proporzionale. Queste indagini, indipendentemente dalle conclusioni alle quali giungono, sembrano prendere le mosse esclusivamente dal grado di disproporzionalità nazionale prodotto da un certo sistema elettorale, accentuando oltremodo la quantità della distorsione del voto, senza prendere in considerazione le differenze strutturali del sistema elettorale di partenza. Sembrerebbe che la questione, anche relativa all’eguaglianza del voto, possa risolversi valutando quanto possa essere ragionevolmente disproporzionale un sistema elettorale. Per quel che riguarda una risposta a questo interrogativo, perlomeno in tema di sistema elettorale con premio di maggioranza, è stata fornita dalla Corte costituzionale che ha rigettato la questione di legittimità riguardante il premio di maggioranza con soglia al 40% previsto dalla legge n. 52 del 2015, ritenuto non irragionevolmente distorsivo della rappresentatività e dell’eguaglianza del voto. Come ha sottolineato attenta dottrina, però, muoversi esclusivamente indagando la ragionevolezza della distorsione del voto potrebbe però risultare infruttuoso, poiché valutare unicamente in base al metro della ragionevolezza rischia di non produrre un dato certo, che sia in grado di stabilire fin dove una soluzione possa spingersi per rimanere nell’ambito della legittimità costituzionale. Per permette di dare un significato pieno al precetto costituzionale dell’eguaglianza del voto, che non sia cedevole e non si “atteggi” diversamente sulla base del sistema elettorale prescelto dal legislatore, nell’elaborato si prova ad argomentare una diversa interpretazione del principio di uguaglianza “in uscita”, a partire proprio dalla valorizzazione delle diversità strutturali che stanno alla base dei vari sistemi elettorali. La prima questione che viene affrontata è relativa alla determinazione del contenuto del principio d’eguaglianza “in uscita” o comunque di un principio costituzionale che non sia meramente il divieto di voto plurimo o multiplo. Come autorevole dottrina ha sostenuto, il principio di eguaglianza implicherebbe che il sistema elettorale adottato dal legislatore deve trattare tutti i voti aritmeticamente con le stesse modalità. Per valutare la portata normativa del principio contenuto all’art. 48 della Costituzione, e per riflettere sulla base di un iter argomentativo diverso, si cerca di verificare, sempre partendo da una concezione di rappresentanza politica che implichi un rapporto tra eletti ed elettori, se è possibile sostenere che l’eguaglianza del voto anche “in uscita” può essere valutata esclusivamente all’interno della ripartizione territoriale nella quale si forma il rapporto rappresentativo. Si prova quindi ad argomentare che la portata del principio d’eguaglianza dovrebbe essere valutata all’interno di queste ripartizioni territoriali, sicché il voto di un elettore dovrebbe poter essere uguale, anche come valenza effettiva, esclusivamente rispetto al voto degli elettori del suo stesso medesimo collegio elettorale. Nell’elaborato si cerca quindi di dimostrare che l’eguaglianza del voto “in uscita” non è tanto un’eguaglianza della valenza di ogni singolo voto di tutti gli elettori astrattamente considerati ma è l’eguaglianza dei suffragi tra soggetti che si trovano nella medesima situazione giuridica soggettiva, che è, in questo caso, quella di essere inseriti in un determinato collegio elettorale. Da queste premesse, si cerca di sostenere che volendo comparare la distorsione del voto che viene prodotta complessivamente (rectius nazionalmente) da un sistema elettorale, intesa come difformità tra voti nazionalmente ottenuti da una forza politica e seggi parlamentari complessivi conseguiti dalla stessa, lo si potrebbe fare solo laddove il sistema elettorale prevedesse espressamente l’elezione in un collegio unico nazionale. Provando a ragionare a partire dal collegio elettorale, viceversa, si cerca di dimostrare che sia proprio all’interno di quella articolazione territoriale che deve essere valutata l’eventuale distorsione del voto e l’eguaglianza tra gli elettori. Analizzando in questo modo i sistemi elettorali si cerca inoltre di superare lo storico dualismo tra sistemi maggioritari e sistemi proporzionali per riflettere, più che sulla formula elettorale, sul luogo nel quale si “forma” la rappresentanza politica. Dallo studio della rappresentanza all’interno di un determinato ambito territoriale, e non a livello nazionale, i risultati ai quali si cerca di giungere circa la distorsione del voto sono tali da far ritenere che, ad esempio, il sistema elettorale maggioritario, pur comportando eventualmente una grande distorsione del voto a livello nazionale, non implichi di per sé il venir meno della rappresentanza politica dei cittadini né comporti una limitazione dell’eguaglianza tra gli elettori situati in un determinato collegio elettorale. In questo modo, si prova a verificare se è sostenibile la tesi per la quale i voti degli elettori devono essere eguali non solo nel momento in cui vengono espressi ma anche nel momento in cui vengono “contati” per essere trasformati in seggi, senza che da tale principio si debba necessariamente concludere, come riteneva Lavagna, una costituzionalizzazione del sistema elettorale proporzionale. Successivamente si provano a mettere in relazione i risultati della trattazione teorica con la concretezza dei sistemi elettorali, al fine di provare a concludere che il principale sistema elettorale che non garantisce un’eguaglianza del voto (così come precedentemente ricostruita) è il sistema elettorale con premio di maggioranza (di qualsiasi natura) indipendentemente dalla quantità del premio assegnato alle forze politiche. Viceversa, si cerca di argomentare che sia sistemi maggioritari uninominali sia i sistemi elettorali proporzionali (ancorché eventualmente molto razionalizzati per la presenza di collegi elettorali che eleggono un numero esiguo di rappresentanti) sono pienamente compatibili con il principio di eguaglianza. A tal proposito, viene posto in evidenza che in un sistema proporzionale l’eguaglianza del voto starebbe ad esprimere che all’interno della circoscrizione plurinominale debba esserci un quoziente elettore, uguale per tutte le forze politiche, raggiunto il quale vi è l’attribuzione di un seggio. Viceversa, l’eguaglianza del voto così interpretata, non permetterebbe di riconoscere la legittimità costituzionale di quei sistemi con premio di maggioranza nei quali il voto dell’elettore può produrre una quantità di eletti superiore a quello degli altri elettori, tramite l’utilizzo di quozienti elettorali diversi tra il partito vincitore della competizione elettorale e le forze politiche “perdenti”. In sostanza si cerca di mettere in luce che la limitazione principale per il legislatore che discende dall’eguaglianza del voto ex art. 48 Cost., oltre quella di poter ricorrere al sistema elettorale maggioritario di lista, è l’adozione dei sistemi elettorali con premio di maggioranza che, indipendentemente dalla quantità del premio di maggioranza assegnato, non “pesano” egualmente i voti degli elettori all’interno del collegio elettorale, sia quando esso è il “luogo” nel quale i voti vengono trasformati in seggi, sia quando questa trasformazione avviene e livello nazionale. L’ultima questione che viene trattata riguarda l’esistenza di principi o obiettivi costituzionali che possono essere bilanciati con il principio costituzionale dell’eguaglianza del voto al fine di limitarne, ancorché relativamente, la portata. A tal proposito si cerca di porre l’accento sul bilanciamento offerto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014 e nella sentenza n. 35 del 2017 tra eguaglianza del voto e stabilità del Governo all’interno di una forma di governo parlamentare. Partendo proprio dalla ragionevolezza nell’equilibrio tra stabilità e rappresentanza (unita, quest’ultima, alla rappresentatività e all’eguaglianza del voto), la Corte costituzionale sembra aver fondato le proprie decisioni basandosi sul grado di “compressione” ragionevole della rappresentatività e dell’eguaglianza. Dagli studi inerenti la rappresentanza, la legislazione elettorale e l’eguaglianza del voto si prova a proporre un diverso approccio per affrontare la questione, a partire dal mettere in dubbio l’individuazione della stabilità del Governo come obiettivo costituzionalmente apprezzabile e, pertanto, non bilanciabile con i principi costituzionali della rappresentanza politica delle Assemblee legislative e dell’uguaglianza del voto. Percorrere questa strada argomentativa non significa sostenere però che la stabilità dell’Esecutivo debba essere stigmatizzata e vista in un necessario dualismo con la rappresentanza politica, come se la stabilità possa essere raggiunta solamente attraverso una deminutio della rappresentanza all’interno dell’Assemblea parlamentare. La stabilità può essere infatti favorita, oltre che da una razionalizzazione delle regole che stanno alla base della forma di governo parlamentare, tramite l’adozione di quei sistemi elettorali (si pensi al classico sistema elettorale maggioritario) che pur non minando il campo dalla rappresentanza politica e dell’eguaglianza hanno lo scopo di influenzare i processi politici in modo da aumentare le probabilità che vengano a formarsi maggioranze parlamentari stabili. Questo starebbe a comprovare che esistono sistemi elettorali in grado di favorire la stabilità governativa pur restando sistemi elettorali con i quali gli elettori sono in grado di eleggere un Parlamento pienamente rappresentativo. Anche questi sistemi non sono però in grado di produrre ex-lege, come con il premio di maggioranza nell’esperienza italiana, un Governo “monocolore”. Vi sono infatti casi in cui l’elevata frammentazione sociale produce un’elevata frammentazione parlamentare anche nei sistemi elettorali molto razionalizzati. L’esistenza di sistemi elettorali che pur favorendo la stabilità non incidono sulla rappresentanza politica, starebbe a dimostrare che la dicotomia tra rappresentanza e stabilità, che la Corte costituzionale (così come parte della dottrina) sembra riconoscere, è solo presunta. Da ultimo l’analisi dell’equilibrio tra stabilità e rappresentanza è inerente alla forma di governo. L’approfondimento si rende necessario nel momento in cui la Corte costituzionale ha sostenuto in due sentenze, una riguardante il sistema elettorale per l’elezione dei Consigli comunali e l’altra i Consigli regionali, che lo stesso meccanismo (il premio di maggioranza senza soglia), dichiarato illegittimo in una forma di governo parlamentare, possa essere ritenuto costituzionalmente ammissibile nella forma di governo adottata da comuni e regioni, poiché, a detta della Corte, si tratta di forme di governo che necessitano di una maggiore stabilità dell’Esecutivo, tale da poter comprimere la rappresentanza dell’Assemblea anche oltre a quanto consentito dalla Costituzione nella forma parlamentare di governo. In questo caso, l’interrogativo di fondo è quello di stabilire se una data forma di governo sia in grado di legittimare delle regole elettorali che sarebbero da considerarsi illegittime laddove vi siano delle diverse regole costituzionali che dominano il rapporto tra Assemblea rappresentativa e organo Esecutivo.
Eguaglianza del voto e sistemi elettorali. Profili costituzionali / Casanova, Daniele. - (2019 Feb 11).
Eguaglianza del voto e sistemi elettorali. Profili costituzionali
CASANOVA, DANIELE
11/02/2019
Abstract
La ricerca sviluppata nella tesi è finalizzata a valutare gli eventuali limiti alla discrezionalità del legislatore nell’adozione del sistema elettorale desumibili dall’art. 48 Cost. nella parte in cui prevede l’eguaglianza del voto. In particolare l’indagine riguarda gli effetti che tale precetto costituzionale può avere in tema di scelta del sistema elettorale in senso stretto, inteso quindi quale sistema di trasformazione dei voti in seggi. Dal punto di vista metodologico la prima questione che viene affrontata è quella di ricostruire, in chiave storico-dottrinale, il concetto della rappresentanza politica al fine di ricercare il collegamento tra la natura rappresentativa dell’Assemblea legislativa e le regole elettorali. Questa operazione, che parte dagli studi classici sulla rappresentanza politica, risulta utile per provare a tracciare un distinguo tra la concezione classica, di matrice liberale, della rappresentanza come mera preposizione alla carica del singolo parlamentare e la concezione della rappresentanza politica come rapporto, perdurante il corso della legislatura, tra rappresentati e rappresentanti. Il passaggio dalla fase liberale e l’idea dell’elezione come scelta dei migliori, alla fase democratica-costituzionale, infatti, permette di poter intravedere nella rappresentanza politica un istituto più complesso che contempli un rapporto reale tra elettori ed eletti. Per poter parlare di rapporto rappresentativo devono essere innanzitutto individuati quelli che sono i soggetti della rappresentanza politica e quale è il loro ruolo nella rappresentanza. Lo studio della rappresentanza democratica conduce a ritenere che i soggetti che hanno un ruolo nell’istituto indagato sono il rappresentante e l’elettore. Se così è, allora si deve dare un’interpretazione all’art. 67 Cost., laddove, prevedendo che il singolo parlamentare rappresenta la Nazione, sembra trascurare il ruolo dell’elettore. È proprio un’interpretazione letterale dell’art. 67 della nostra Carta costituzionale che ha permesso, ad una parte della dottrina, di sostenere che i rappresentanti devono agire in nome di un interesse generale che travalichi gli interessi degli elettori. Nell’elaborato si cerca di argomentare, a contrario, come l’art. 67 non abbia una portata tale da incidere sugli interessi che il rappresentante deve perseguire. Si giunge a tale conclusione poiché l’istituto parlamentare, più che luogo nel quale i rappresentati interpretano l’interesse generale, è da considerarsi il luogo di sintesi delle domande e delle pulsioni sociali, quindi il luogo in cui vi è la composizione di variegati interessi che si ritrovano all’interno della società che vengono graduati attraverso la discussione e il dibattito parlamentare. Se questo è il ruolo del Parlamento allora la funzione del rappresentante non può limitarsi ad essere quella di interpretare un’ipotetica volontà generale ma deve essere quella di interagire con il contesto sociale, in particolar modo con gli elettori che hanno determinato il ruolo di rappresentante in capo ad uno specifico soggetto. Nello stesso tempo, il ruolo dell’elettore non può essere circoscritto alla mera scelta del parlamentare, ma deve essere anche quello di un soggetto che può influenzare la decisione politica in un rapporto dinamico con il rappresentante (PITKIN 1967). In questo modo è la concezione generale della democrazia che muta, in particolare rispetto al periodo liberale, e viene a qualificarsi non come statico governo sul popolo ma come un complesso processo politico nel quale il popolo è parte attiva anche oltre la mera approvazione elettorale (URBINATI 2006). Se la rappresentanza politica può essere così ricostruita dal punto di vista teorico, per avere un’applicazione concreta di questa dinamica tra i rappresentati e i rappresentanti, il ruolo del sistema elettorale deve essere quello di garantire che tale rapporto tra i due soggetti della rappresentanza possa effettivamente attuarsi. Lo studio del sistema elettorale deve tenere in considerazione questo modello di rappresentanza politica, che sarà il fil rouge per valutare quali sono i sistemi elettorali in grado di produrre un Parlamento che rispetti i canoni della rappresentanza democratica. Solo dopo aver svolto una ricostruzione del moderno concetto di rappresentanza politica, vi è la possibilità di collegare la stessa all’eguaglianza del voto, sancita dall’art. 48 della Costituzione nel più generale principio di eguaglianza tra i consociati. Per permettere un’adeguata analisi si è deciso di suddividere lo studio sostanzialmente in due momenti distinti, che caratterizzano il complicato rapporto sistema elettorale-rappresentanza-eguaglianza del voto, ovverosia il collegio elettorale e la formula elettorale. Nella prima parte si analizzano le conseguenze che il principio di eguaglianza ha sulla libertà del legislatore di determinare i confini dei collegi elettorali. Tale studio si è reso necessario poiché si è cercato di mettere in luce che il collegio elettorale è il luogo “naturale” di formazione del rapporto rappresentativo, poiché spazio territoriale dove i partiti politici presentano i propri candidati e dove si instaura quel circuito rappresentativo, fra rappresentanti e rappresentati, di cui si faceva riferimento durante la trattazione teorica del concetto della rappresentanza politica. Questo presupposto nasce dalla circostanza che se la rappresentanza è un rapporto politico tra soggetti (rappresentante e rappresentato), tale rapporto non può che non essere individuato all’interno del luogo dove formalmente e sostanzialmente gli elettori scelgono i propri rappresentanti. Si cerca quindi di argomentare che il luogo in cui si instaura e si alimenta il rapporto rappresentativo tra eletti ed elettori è proprio il collegio elettorale. Nell’elaborato si individuano, inoltre, le conseguenze che il principio d’eguaglianza del voto ha in merito alla suddivisione del territorio nazionale. Attraverso un approfondimento della giurisprudenza e della dottrina di alcuni ordinamenti stranieri, in particolare degli Stati Uniti e del Regno Unito, una delle prime conseguenze messe in luce è quella per cui i collegi elettorali devono essere strutturati in modo tale da garantire l’eguaglianza tra gli elettori situatati in collegi diversi, affinché tutti gli elettori siano posti nella condizione di poter egualmente partecipare alla formazione dell’Assemblea rappresentativa. Nel lavoro di tesi si prova ad argomentare che per garantire tale eguaglianza i collegi elettorali, quando eleggono un solo rappresentante, devono essere individuati e delimitati su basi essenzialmente demografiche affinché la consistenza della popolazione (o degli elettori) all’interno dei collegi sia quanto più omogenea (si veda p. es. la sentenza della Supreme Court degli Stati Uniti U.S. 725 (1983)). Diversamente, quanto il sistema elettorale adottato è un sistema plurinominale non è necessario che i collegi siano demograficamente identici. In questi casi è però indispensabile, come indicato dallo stesso Testo costituzionale all’art. 56, che pur nella diversità della composizione demografica la distribuzione dei seggi avvenga in modo proporzionale alla suddetta consistenza demografica, affinché, anche in questo caso, non vi sia una irragionevole distinzione tra elettori posti in collegi elettori diversi. In secondo luogo, si cerca di analizzare l’effetto che l’applicazione della formula elettorale può avere, legittimamente o meno, sulla distribuzione territoriale della rappresentanza. A tal proposito si cerca di mettere in luce che i c.d. sistemi elettorali multilivello – sistemi nei quali i voti vengono trasformati in seggi ad un livello territoriale diverso rispetto al collegio elettorale – sono legislazioni elettorali che non permettono la realizzazione del principio d’eguaglianza così considerato. In questi sistemi, infatti, alla conclusione dell’iter elettorale vi è la possibilità che l’allocazione dei seggi avvenga in misura diversa rispetto al numero di seggi che il collegio elettorale avrebbe diritto in base alla consistenza demografica. Attraverso un’analisi empirica si cerca di documentare che in questi sistemi elettorali l’eguaglianza tra gli elettori posti in collegi elettorali diversi rischia di non essere garantita, poiché all’assegnazione finale dei seggi, vi saranno elettori che saranno sovra o sotto rappresentati rispetto ad altri elettori di altri collegi elettorali. Il secondo collegamento tra legislazione elettorale e eguaglianza del voto che si cerca di sviluppare nell’elaborato è inerente al concreto sistema di trasformazione dei voti in seggi. Sul tema, si cerca di dimostrare che la dottrina dominante – sia prima che dopo le sentenze della Corte costituzionale in tema di premio di maggioranza – volta ad interpretare l’eguaglianza del voto come mera eguaglianza in entrata (quindi esclusione di voto plurimo e voto multiplo), sia la dottrina minoritaria, che invece ha incluso il principio di eguaglianza del voto “in uscita” tra i principi costituzionali, sono accomunate da una costruzione teorica dell’eguaglianza fondata sul principio proporzionale. In questo senso, infatti, la dottrina, indipendentemente dal considerare il principio d’eguaglianza del voto “in uscita” un precetto costituzionale, ha tendenzialmente sostenuto che l’eguaglianza del voto in questa accezione comporti l’adozione di un sistema elettorale proporzionale. Anche la giurisprudenza costituzionale sembrerebbe essere dello stesso avviso. Nelle due sentenze riguardanti il premio di maggioranza per l’elezione delle Assemblee rappresentative nazionali, la Corte sembra avere considerato l’eguaglianza del voto “in uscita” quale sinonimo di proporzionalità nazionale. La Corte, infatti, ha ritenuto illegittimo il premio di maggioranza senza una soglia poiché posto all’interno di un sistema proporzionale nel quale il voto “in uscita” non può essere eccessivamente distorto. La Corte sembra aver posto alla base delle proprie argomentazioni la quantità della distorsione del voto prodotta dal sistema elettorale. A confermare tale lettura della giurisprudenza soccorre la stessa Corte Costituzionale che nella sentenza n. 1 del 2014 ha richiamato il Tribunale federale tedesco, che da anni ritiene che il principio d’eguaglianza in senso sostanziale sia un principio che limita il legislatore solo qualora decida di adottare il sistema elettorale proporzionale. Se tali premesse sono vere, però, il rischio è quello che il principio d’eguaglianza “in uscita” sia un principio alquanto sfumato che limita la discrezionalità del legislatore solo qualora lo stesso decida di adottare il sistema elettorale proporzionale, non essendo, quindi, un precetto costituzionale che limita in via generale la discrezionalità del legislatore. Allo stesso modo, anche la dottrina, ancor prima delle sentenze della Corte, ragionando sulla distorsione del voto prodotta dai sistemi elettorali, ha cercato di motivare la legittimità costituzionale proprio del premio di maggioranza comparando tra loro sistemi elettorali di diversa natura (vuoi proporzionali, maggioritari o misti), concludendo che se un grado di disproporzionalità che si produce a livello nazionale in un dato sistema elettorale è da considerarsi costituzionalmente legittimo, di conseguenza deve esserlo anche negli altri. Una medesima impostazione teorica del problema viene portata avanti anche da chi, pur contrario al sistema elettorale con premio di maggioranza, utilizza il parametro della disproporzionalità per giungere a sollevare dubbi di legittimità costituzionale nel classico sistema uninominale first past the post, accusato di falsare la rappresentanza poiché in grado di assegnare ad una forza politica più seggi di quanti ne avrebbe ottenuti con un riparto proporzionale. Queste indagini, indipendentemente dalle conclusioni alle quali giungono, sembrano prendere le mosse esclusivamente dal grado di disproporzionalità nazionale prodotto da un certo sistema elettorale, accentuando oltremodo la quantità della distorsione del voto, senza prendere in considerazione le differenze strutturali del sistema elettorale di partenza. Sembrerebbe che la questione, anche relativa all’eguaglianza del voto, possa risolversi valutando quanto possa essere ragionevolmente disproporzionale un sistema elettorale. Per quel che riguarda una risposta a questo interrogativo, perlomeno in tema di sistema elettorale con premio di maggioranza, è stata fornita dalla Corte costituzionale che ha rigettato la questione di legittimità riguardante il premio di maggioranza con soglia al 40% previsto dalla legge n. 52 del 2015, ritenuto non irragionevolmente distorsivo della rappresentatività e dell’eguaglianza del voto. Come ha sottolineato attenta dottrina, però, muoversi esclusivamente indagando la ragionevolezza della distorsione del voto potrebbe però risultare infruttuoso, poiché valutare unicamente in base al metro della ragionevolezza rischia di non produrre un dato certo, che sia in grado di stabilire fin dove una soluzione possa spingersi per rimanere nell’ambito della legittimità costituzionale. Per permette di dare un significato pieno al precetto costituzionale dell’eguaglianza del voto, che non sia cedevole e non si “atteggi” diversamente sulla base del sistema elettorale prescelto dal legislatore, nell’elaborato si prova ad argomentare una diversa interpretazione del principio di uguaglianza “in uscita”, a partire proprio dalla valorizzazione delle diversità strutturali che stanno alla base dei vari sistemi elettorali. La prima questione che viene affrontata è relativa alla determinazione del contenuto del principio d’eguaglianza “in uscita” o comunque di un principio costituzionale che non sia meramente il divieto di voto plurimo o multiplo. Come autorevole dottrina ha sostenuto, il principio di eguaglianza implicherebbe che il sistema elettorale adottato dal legislatore deve trattare tutti i voti aritmeticamente con le stesse modalità. Per valutare la portata normativa del principio contenuto all’art. 48 della Costituzione, e per riflettere sulla base di un iter argomentativo diverso, si cerca di verificare, sempre partendo da una concezione di rappresentanza politica che implichi un rapporto tra eletti ed elettori, se è possibile sostenere che l’eguaglianza del voto anche “in uscita” può essere valutata esclusivamente all’interno della ripartizione territoriale nella quale si forma il rapporto rappresentativo. Si prova quindi ad argomentare che la portata del principio d’eguaglianza dovrebbe essere valutata all’interno di queste ripartizioni territoriali, sicché il voto di un elettore dovrebbe poter essere uguale, anche come valenza effettiva, esclusivamente rispetto al voto degli elettori del suo stesso medesimo collegio elettorale. Nell’elaborato si cerca quindi di dimostrare che l’eguaglianza del voto “in uscita” non è tanto un’eguaglianza della valenza di ogni singolo voto di tutti gli elettori astrattamente considerati ma è l’eguaglianza dei suffragi tra soggetti che si trovano nella medesima situazione giuridica soggettiva, che è, in questo caso, quella di essere inseriti in un determinato collegio elettorale. Da queste premesse, si cerca di sostenere che volendo comparare la distorsione del voto che viene prodotta complessivamente (rectius nazionalmente) da un sistema elettorale, intesa come difformità tra voti nazionalmente ottenuti da una forza politica e seggi parlamentari complessivi conseguiti dalla stessa, lo si potrebbe fare solo laddove il sistema elettorale prevedesse espressamente l’elezione in un collegio unico nazionale. Provando a ragionare a partire dal collegio elettorale, viceversa, si cerca di dimostrare che sia proprio all’interno di quella articolazione territoriale che deve essere valutata l’eventuale distorsione del voto e l’eguaglianza tra gli elettori. Analizzando in questo modo i sistemi elettorali si cerca inoltre di superare lo storico dualismo tra sistemi maggioritari e sistemi proporzionali per riflettere, più che sulla formula elettorale, sul luogo nel quale si “forma” la rappresentanza politica. Dallo studio della rappresentanza all’interno di un determinato ambito territoriale, e non a livello nazionale, i risultati ai quali si cerca di giungere circa la distorsione del voto sono tali da far ritenere che, ad esempio, il sistema elettorale maggioritario, pur comportando eventualmente una grande distorsione del voto a livello nazionale, non implichi di per sé il venir meno della rappresentanza politica dei cittadini né comporti una limitazione dell’eguaglianza tra gli elettori situati in un determinato collegio elettorale. In questo modo, si prova a verificare se è sostenibile la tesi per la quale i voti degli elettori devono essere eguali non solo nel momento in cui vengono espressi ma anche nel momento in cui vengono “contati” per essere trasformati in seggi, senza che da tale principio si debba necessariamente concludere, come riteneva Lavagna, una costituzionalizzazione del sistema elettorale proporzionale. Successivamente si provano a mettere in relazione i risultati della trattazione teorica con la concretezza dei sistemi elettorali, al fine di provare a concludere che il principale sistema elettorale che non garantisce un’eguaglianza del voto (così come precedentemente ricostruita) è il sistema elettorale con premio di maggioranza (di qualsiasi natura) indipendentemente dalla quantità del premio assegnato alle forze politiche. Viceversa, si cerca di argomentare che sia sistemi maggioritari uninominali sia i sistemi elettorali proporzionali (ancorché eventualmente molto razionalizzati per la presenza di collegi elettorali che eleggono un numero esiguo di rappresentanti) sono pienamente compatibili con il principio di eguaglianza. A tal proposito, viene posto in evidenza che in un sistema proporzionale l’eguaglianza del voto starebbe ad esprimere che all’interno della circoscrizione plurinominale debba esserci un quoziente elettore, uguale per tutte le forze politiche, raggiunto il quale vi è l’attribuzione di un seggio. Viceversa, l’eguaglianza del voto così interpretata, non permetterebbe di riconoscere la legittimità costituzionale di quei sistemi con premio di maggioranza nei quali il voto dell’elettore può produrre una quantità di eletti superiore a quello degli altri elettori, tramite l’utilizzo di quozienti elettorali diversi tra il partito vincitore della competizione elettorale e le forze politiche “perdenti”. In sostanza si cerca di mettere in luce che la limitazione principale per il legislatore che discende dall’eguaglianza del voto ex art. 48 Cost., oltre quella di poter ricorrere al sistema elettorale maggioritario di lista, è l’adozione dei sistemi elettorali con premio di maggioranza che, indipendentemente dalla quantità del premio di maggioranza assegnato, non “pesano” egualmente i voti degli elettori all’interno del collegio elettorale, sia quando esso è il “luogo” nel quale i voti vengono trasformati in seggi, sia quando questa trasformazione avviene e livello nazionale. L’ultima questione che viene trattata riguarda l’esistenza di principi o obiettivi costituzionali che possono essere bilanciati con il principio costituzionale dell’eguaglianza del voto al fine di limitarne, ancorché relativamente, la portata. A tal proposito si cerca di porre l’accento sul bilanciamento offerto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014 e nella sentenza n. 35 del 2017 tra eguaglianza del voto e stabilità del Governo all’interno di una forma di governo parlamentare. Partendo proprio dalla ragionevolezza nell’equilibrio tra stabilità e rappresentanza (unita, quest’ultima, alla rappresentatività e all’eguaglianza del voto), la Corte costituzionale sembra aver fondato le proprie decisioni basandosi sul grado di “compressione” ragionevole della rappresentatività e dell’eguaglianza. Dagli studi inerenti la rappresentanza, la legislazione elettorale e l’eguaglianza del voto si prova a proporre un diverso approccio per affrontare la questione, a partire dal mettere in dubbio l’individuazione della stabilità del Governo come obiettivo costituzionalmente apprezzabile e, pertanto, non bilanciabile con i principi costituzionali della rappresentanza politica delle Assemblee legislative e dell’uguaglianza del voto. Percorrere questa strada argomentativa non significa sostenere però che la stabilità dell’Esecutivo debba essere stigmatizzata e vista in un necessario dualismo con la rappresentanza politica, come se la stabilità possa essere raggiunta solamente attraverso una deminutio della rappresentanza all’interno dell’Assemblea parlamentare. La stabilità può essere infatti favorita, oltre che da una razionalizzazione delle regole che stanno alla base della forma di governo parlamentare, tramite l’adozione di quei sistemi elettorali (si pensi al classico sistema elettorale maggioritario) che pur non minando il campo dalla rappresentanza politica e dell’eguaglianza hanno lo scopo di influenzare i processi politici in modo da aumentare le probabilità che vengano a formarsi maggioranze parlamentari stabili. Questo starebbe a comprovare che esistono sistemi elettorali in grado di favorire la stabilità governativa pur restando sistemi elettorali con i quali gli elettori sono in grado di eleggere un Parlamento pienamente rappresentativo. Anche questi sistemi non sono però in grado di produrre ex-lege, come con il premio di maggioranza nell’esperienza italiana, un Governo “monocolore”. Vi sono infatti casi in cui l’elevata frammentazione sociale produce un’elevata frammentazione parlamentare anche nei sistemi elettorali molto razionalizzati. L’esistenza di sistemi elettorali che pur favorendo la stabilità non incidono sulla rappresentanza politica, starebbe a dimostrare che la dicotomia tra rappresentanza e stabilità, che la Corte costituzionale (così come parte della dottrina) sembra riconoscere, è solo presunta. Da ultimo l’analisi dell’equilibrio tra stabilità e rappresentanza è inerente alla forma di governo. L’approfondimento si rende necessario nel momento in cui la Corte costituzionale ha sostenuto in due sentenze, una riguardante il sistema elettorale per l’elezione dei Consigli comunali e l’altra i Consigli regionali, che lo stesso meccanismo (il premio di maggioranza senza soglia), dichiarato illegittimo in una forma di governo parlamentare, possa essere ritenuto costituzionalmente ammissibile nella forma di governo adottata da comuni e regioni, poiché, a detta della Corte, si tratta di forme di governo che necessitano di una maggiore stabilità dell’Esecutivo, tale da poter comprimere la rappresentanza dell’Assemblea anche oltre a quanto consentito dalla Costituzione nella forma parlamentare di governo. In questo caso, l’interrogativo di fondo è quello di stabilire se una data forma di governo sia in grado di legittimare delle regole elettorali che sarebbero da considerarsi illegittime laddove vi siano delle diverse regole costituzionali che dominano il rapporto tra Assemblea rappresentativa e organo Esecutivo.File | Dimensione | Formato | |
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