Oggetto dello studio è una valutazione ex ante dell’impatto derivante dall’applicazione della riforma pensionistica introdotta con la Legge delega n. 243 del 23 agosto 2004 ed il successivo D. Lgs. 252 del 5 dicembre 2005 in materia di disciplina delle forme pensionistiche complementari, con particolare riferimento ad uno degli aspetti più dibattuti e controversi, rappresentato dal previsto trasferimento delle risorse destinate al trattamento di fine rapporto (TFR da adesso in poi) a fondi pensione. Tramite la legge delega il policy maker intende influenzare la struttura di preferenze dei lavoratori e dei datori di lavoro allo scopo di favorire i fondi pensione. Quanto ai lavoratori, la riforma agisce principalmente attraverso lo strumento delle agevolazioni fiscali per il risparmio accumulato a scopi previdenziali, prevedendo l’introduzione dell’istituto del silenzio-assenso per l’opzione circa l’allocazione del TFR ai fondi pensione. Sotto il profilo economico, il differimento previsto dal D. Lgs. 252 non soltanto rappresenta un notevole disincentivo all’adesione spontanea dei lavoratori ai fondi pensione – il meccanismo di adesione tacita ha atteso due anni per diventare operativo – ma potrebbe vanificare i tentativi di incentivare la diffusione della previdenza complementare. Inoltre il ricorso diretto ai mercati finanziari e, in particolare, l’incertezza derivante dalla volatilità dei rendimenti delle risorse accantonate nei fondi pensione potrebbero rappresentare un freno per l’adesione dei lavoratori alle nuove forme di previdenza complementare. Questo aspetto, emerso nel dibattito che ha preceduto la promulgazione della l. 243/2004, non appare risolto definitivamente dalla disposizione contenuta nell’art. 1, comma 2, lett. e), punto 10 della stessa legge, dove si afferma che “i fondi pensione possano dotarsi di linee d’investimento tali da garantire rendimenti comparabili al tasso di rivalutazione del trattamento di fine rapporto”, elemento sul quale in letteratura risulta tuttora assente un’adeguata riflessione e che costituisce la premessa dello studio. Un studio dell’ISAE (2004) comproverebbe l’esistenza di vantaggi sostanziali per i lavoratori che aderissero alle nuove forme di previdenza integrativa. Tuttavia a destare perplessità, nell’esercizio dell’ISAE, è l’assunzione di un tasso costante di rendimento del montante contributivo, pari in media al 2 per cento annuo al netto d’inflazione. Infatti, qualsiasi considerazione in merito alla convenienza o meno derivante dall’adesione a forme di previdenza complementare perde validità generale quando, nel problema decisionale considerato, si considera, accanto ai rendimenti, la loro volatilità. Nell’articolo l’applicazione di tecniche bootstrap ha consentito di determinare l’ammontare della prima annualità di pensione netta sotto l’ipotesi di un rendimento del montante contributivo pari in media al 2%, ma considerando livelli crescenti di volatilità. L’esame statistico–economico degli effetti determinati da una moderata volatilità dei tassi evidenzierebbe la presenza di un sostanziale aumento del rischio di percepire un trattamento pensionistico di importo significativamente inferiore a quello stimato dai ricercatori dell’ISAE. Gli elementi che accomunano i tre interventi legislativi in materia pensionistica che si sono succeduti negli ultimi quindici anni sono sostanzialmente due: si tratta di provvedimenti che intendono garantire la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico nel lungo termine, trascurandone gli effetti macroeconomici indiretti di lungo periodo. Di contro, la scelta dell’uno o l’altro degli strumenti teoricamente applicabili per conseguire l’equilibrio finanziario avrebbe dovuto essere effettuata anche in considerazione dei differenti impatti sulle variabili macroeconomiche. Alla luce del dibattito teorico al quale si è accennato brevemente in precedenza, non è pertanto implausibile ipotizzare che il passaggio a schemi previdenziali funded potrebbe, in virtù dell’aumento della componente sistemica di rischio a carico delle famiglie, deprimere i consumi finali, aumentare il flusso di risparmio precauzionale, rallentare la crescita economica e, in definitiva, contribuire a peggiorare lo stesso rapporto tra trattamenti pensionistici e Pil, risultato quest’ultimo non coerente con gli obiettivi della riforma introdotta con la L. 243/2004.

Previdenza complementare e incertezza. Prime valutazioni per il caso italiano / Polli, Alessandro. - In: RIVISTA ITALIANA DI ECONOMIA, DEMOGRAFIA E STATISTICA. - ISSN 0035-6832. - STAMPA. - LX, nn. 3/4:(2006), pp. 391-399.

Previdenza complementare e incertezza. Prime valutazioni per il caso italiano

POLLI, Alessandro
2006

Abstract

Oggetto dello studio è una valutazione ex ante dell’impatto derivante dall’applicazione della riforma pensionistica introdotta con la Legge delega n. 243 del 23 agosto 2004 ed il successivo D. Lgs. 252 del 5 dicembre 2005 in materia di disciplina delle forme pensionistiche complementari, con particolare riferimento ad uno degli aspetti più dibattuti e controversi, rappresentato dal previsto trasferimento delle risorse destinate al trattamento di fine rapporto (TFR da adesso in poi) a fondi pensione. Tramite la legge delega il policy maker intende influenzare la struttura di preferenze dei lavoratori e dei datori di lavoro allo scopo di favorire i fondi pensione. Quanto ai lavoratori, la riforma agisce principalmente attraverso lo strumento delle agevolazioni fiscali per il risparmio accumulato a scopi previdenziali, prevedendo l’introduzione dell’istituto del silenzio-assenso per l’opzione circa l’allocazione del TFR ai fondi pensione. Sotto il profilo economico, il differimento previsto dal D. Lgs. 252 non soltanto rappresenta un notevole disincentivo all’adesione spontanea dei lavoratori ai fondi pensione – il meccanismo di adesione tacita ha atteso due anni per diventare operativo – ma potrebbe vanificare i tentativi di incentivare la diffusione della previdenza complementare. Inoltre il ricorso diretto ai mercati finanziari e, in particolare, l’incertezza derivante dalla volatilità dei rendimenti delle risorse accantonate nei fondi pensione potrebbero rappresentare un freno per l’adesione dei lavoratori alle nuove forme di previdenza complementare. Questo aspetto, emerso nel dibattito che ha preceduto la promulgazione della l. 243/2004, non appare risolto definitivamente dalla disposizione contenuta nell’art. 1, comma 2, lett. e), punto 10 della stessa legge, dove si afferma che “i fondi pensione possano dotarsi di linee d’investimento tali da garantire rendimenti comparabili al tasso di rivalutazione del trattamento di fine rapporto”, elemento sul quale in letteratura risulta tuttora assente un’adeguata riflessione e che costituisce la premessa dello studio. Un studio dell’ISAE (2004) comproverebbe l’esistenza di vantaggi sostanziali per i lavoratori che aderissero alle nuove forme di previdenza integrativa. Tuttavia a destare perplessità, nell’esercizio dell’ISAE, è l’assunzione di un tasso costante di rendimento del montante contributivo, pari in media al 2 per cento annuo al netto d’inflazione. Infatti, qualsiasi considerazione in merito alla convenienza o meno derivante dall’adesione a forme di previdenza complementare perde validità generale quando, nel problema decisionale considerato, si considera, accanto ai rendimenti, la loro volatilità. Nell’articolo l’applicazione di tecniche bootstrap ha consentito di determinare l’ammontare della prima annualità di pensione netta sotto l’ipotesi di un rendimento del montante contributivo pari in media al 2%, ma considerando livelli crescenti di volatilità. L’esame statistico–economico degli effetti determinati da una moderata volatilità dei tassi evidenzierebbe la presenza di un sostanziale aumento del rischio di percepire un trattamento pensionistico di importo significativamente inferiore a quello stimato dai ricercatori dell’ISAE. Gli elementi che accomunano i tre interventi legislativi in materia pensionistica che si sono succeduti negli ultimi quindici anni sono sostanzialmente due: si tratta di provvedimenti che intendono garantire la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico nel lungo termine, trascurandone gli effetti macroeconomici indiretti di lungo periodo. Di contro, la scelta dell’uno o l’altro degli strumenti teoricamente applicabili per conseguire l’equilibrio finanziario avrebbe dovuto essere effettuata anche in considerazione dei differenti impatti sulle variabili macroeconomiche. Alla luce del dibattito teorico al quale si è accennato brevemente in precedenza, non è pertanto implausibile ipotizzare che il passaggio a schemi previdenziali funded potrebbe, in virtù dell’aumento della componente sistemica di rischio a carico delle famiglie, deprimere i consumi finali, aumentare il flusso di risparmio precauzionale, rallentare la crescita economica e, in definitiva, contribuire a peggiorare lo stesso rapporto tra trattamenti pensionistici e Pil, risultato quest’ultimo non coerente con gli obiettivi della riforma introdotta con la L. 243/2004.
2006
welfare state; previdenza complementare; ciclo vitale del risparmio
01 Pubblicazione su rivista::01a Articolo in rivista
Previdenza complementare e incertezza. Prime valutazioni per il caso italiano / Polli, Alessandro. - In: RIVISTA ITALIANA DI ECONOMIA, DEMOGRAFIA E STATISTICA. - ISSN 0035-6832. - STAMPA. - LX, nn. 3/4:(2006), pp. 391-399.
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