La tesi principale di questo lavoro è che i videogame possano essere compresi pienamente solo affrontando il tema delle conseguenze sociali del loro utilizzo. Per cercare di argomentare questo assunto farò ricorso a una vasta gamma di punti di vista, accomunati dalla convinzione che i videogiochi non siano un semplice passatempo, né una bizzarria tecnologica destinata a essere superata da nuove e più accattivanti forme di divertissement tecnologico. Quando utilizziamo il termine videogiochi intendiamo un insieme (vasto più di quanto questo lavoro sarà in grado di descrivere) di oggetti e pratiche nati in precisi contesti sociali, aventi ad oggetto una qualche forma di interazione sociale e in grado – solo in ultima analisi – di incidere sull’assetto della società, quanto meno a livello simbolico. Ogni qual volta la nostra comprensione del fenomeno isola uno solo degli elementi che compongono il videogame (la tecnologia, le forme dell’interazione, i contenuti della rappresentazione, le regole del gioco ecc.) commette un errore che ha almeno due ordini di conseguenze: la rinuncia a descrivere e analizzare un fenomeno complesso; l’impossibilità di dialogare con gli altri osservatori che, pur utilizzando gli stessi termini, fanno riferimento a uno dei differenti elementi lasciati fuori dall’analisi del loro interlocutore. Il dibattito pubblico sui videogiochi, insieme alla riflessione teorica, sono entrambi vittime di questo errore di prospettiva. Per sgombrare il campo da questi equivoci, nel primo capitolo, mi confronto con alcune definizioni di videogioco, evidenziando una delle tante dicotomie (più o meno esplicite) che contribuisce alla cacofonia imperante nei discorsi sui videogiochi: quella tra videogame in quanto gioco e in quanto medium. Malgrado la mia sensibilità disciplinare mi avvicini all’idea che i maggiori elementi di significatività del linguaggio videoludico abbiano a che vedere con le forme della rappresentazione mediale, penso che non sia assolutamente necessario risolvere drasticamente la dicotomia, quanto piuttosto essere coscienti della sua esistenza per usarla metodologicamente al fine di organizzare la nostra osservazione dei fenomeni. Mosso dagli stessi intenti, sempre nel primo capitolo, cerco di approfondire le differenze e le similitudini tra videogioco e simulazione, lette attraverso la lente delle operazioni di modellizzazione della realtà e delle strategie di selezione degli elementi significativi finalizzate alla sua messa in scena. Infine, attraverso il confronto con diversi autori che, negli anni, hanno utilizzato questo schema concettuale, propongo un’ulteriore distinzione tra videogioco in quanto oggetto e in quanto processo. Nel secondo capitolo entro pienamente nella questione degli effetti, cercando di mettere in luce se la pratica videoludica possa giocare un ruolo nei processi di socializzazione. In prima battuta, mi confronto con alcune definizioni di socializzazione, soprattutto per quanto riguarda la differenza tra socializzazione ed educazione, per concentrare l’attenzione sul versante informale di quell’insieme di pratiche che contribuiscono a una qualche forma di composizione (per quanto temporanea) tra gli orientamenti del singolo e quelli della società (o almeno di quell’astrazione che il singolo percepisce come altri). La doppia chiave di lettura del videogioco, proposta nel primo capitolo, viene applicata in questo percorso di analisi degli effetti di socializzazione recuperando alcune osservazioni compiute dagli studiosi del gioco e da quelli dei media. All’interno di un dibattito ampio e articolato ho cercato di orientarmi valorizzando quei contributi che risolvessero in termini positivi l’interrogativo circa gli effetti socializzanti del gioco e dei mezzi di comunicazione. Come sorta di corollario alla questione della socializzazione, affronto poi il tema dell’identità. Prima di addentrarmi nell’analisi di alcune specifiche acquisizioni teorico-sperimentali relative ai processi di identity building, che hanno al loro interno anche il riferimento alla pratica videoludica, cerco di mettere in luce quanto l’interesse contemporaneo nei confronti dei percorsi identitari dei soggetti, soprattutto per quanto riguarda il peso delle piattaforme digitali, sia in realtà inquadrabile in un processo di lungo periodo, ampiamente tematizzato dalla sociologia, relativo alla perdita di centralità dei legami di tipo comunitario e dei riferimenti spazio-temporali come con- testo naturale di esistenza. Una riflessione sulla sperimentazione identitaria, sulla necessità di inventarsi – anche faticosamente – un’identità nel momento in cui la semplice adesione a un ruolo prestabilito non funziona più (essendo venuti più o meno contemporaneamente a man- care sia i ruoli sia la loro desiderabilità sociale). Molto prima dell’invenzione del videogame, anche se, in maniera non dissimile da quanto avviene all’interno di altre piattaforme per la mediazione dell’interazione sociale, le pratiche di gioco, soprattutto per quanto riguarda l’on- line gaming, entrano di diritto a far parte del set di esperienze che forniscono ai soggetti materiale simbolico da utilizzare all’interno dei tentativi di linearizzazione dei loro percorsi esistenziali. Il terzo capitolo non cambia il punto di osservazione sul fenomeno videoludico, ma affronta esplicitamente uno dei casi in cui gli ipotizzati effetti sociali dei videogiochi possano essere negativi. La questione della violenza nei videogame è il caso idealtipico delle contraddizioni a cui ho accennato brevemente in apertura, e che accompagneranno il lettore per tutto il corso del lavoro. La più significativa è quella relativa agli approcci scientifici che studiano il ruolo dei videogiochi violenti. La distanza, davvero difficile da colmare, tra studi di impostazione psicologica e socio-culturologica è una delle cause per cui, a distanza di più vent’anni dai primi contributi scientifici sulla questione, il dibattito è ancora oggi caratterizzato da contrapposizioni irriducibili. Per cercare di affrontare in termini soddisfacenti la questione, malgrado la mia formazione sia decisamente sociologica, ho cercato di confrontarmi con l’approccio psicologico, mettendo in evidenza le contraddizioni che animano quel dibattito dall’interno, senza cadere (al- meno spero) nella tentazione di costruirmi il classico interlocutore fantoccio. La verifica empirica di alcuni meccanismi di innesco e moltiplicazione di pattern cognitivi aggressivi e violenti è fuori discussione e sbaglia chi, mosso dall’intento di difendere i videogame dagli attacchi più radicali, metta in discussione i risultati di anni di ricerca empirica seria ed affidabile. Ma sbaglia altrettanto chi dovesse da quei meccanismi accertati far discendere automaticamente un cambiamento nel comportamento dei soggetti, isolando questi ultimi dal loro contesto sociale. E questo non per un omaggio alla sociologia, ma perché i soggetti (all’interno dei quali avvengono alcuni fenomeni di ordine psichico) si trovato a vivere immersi in ambienti sociali che possono funzionare come straordinari fattori di moltiplicazione o demoltiplicazione del ruolo dei videogame violenti. La stessa attenzione alla demistificazione degli assunti più estremi deve essere condotta anche quando gli effetti sociali dei videogiochi sono raccontati come estremamente positivi. È questo il caso del rapporto tra videogiochi e apprendimento rispetto al quale, come cercherò di argomentare, è necessario rendersi conto che non basta pre- mere il tasto start per determinare l’aumento di conoscenze e competenze dei soggetti. Nel quarto capitolo, dunque, il confronto con una ricchissima tradizione di studi sul potenziale cognitivo-educativo dell’attività ludica aiuta ad inquadrare alcuni temi del dibattito, insieme alla valorizzazione degli studi sull’utilizzo dei media per l’apprendimento. Malgrado queste straordinarie premesse, però, la foto- grafia della discussione scientifica sull’uso dei videogame per l’apprendimento restituisce un’immagine decisamente confusa. È possibile confrontarsi con studi documentati e robusti dal punto di vista metodologico che arrivano a conclusioni praticamente opposte. E questo in un contesto complessivo in cui la mutevolezza dei disegni sperimentali e dell’operativizzazione delle variabili è tale da rendere difficilissima la comparabilità e l’individuazione degli elementi che rendono soddisfacente o deludente il singolo esperimento di utilizzo del videogioco per l’apprendimento. E mentre la comunità scientifica non ha ancora deciso tra la valorizzazione dei videogame commerciali in ottica di apprendimento (per sfruttare alcune potenzialità che coinvolgerebbero l’assetto cognitivo-esperenziale dei soggetti), l’utilizzo di videogiochi creati apposita- mente per veicolare contenuti specifici o l’insegnamento dei rudimenti del game design per aumentare la consapevolezza critica dei ragazzi nei confronti delle scelte di progettazione di un videogame, il mercato è già ampiamente orientato a valorizzare i serious games come opportunità commerciale e la gamification come strategia complessiva per affrontare le sfide del cambiamento organizzativo e non. Queste evidenti contraddizioni possono essere parzialmente risolte facendo riferimento, ancora una volta, all’analisi delle condizioni reali in cui i soggetti utilizzano i videogame. Da questa scelta di metodo consegue la necessità di analizzare le caratteristiche socio-demografiche dei soggetti in apprendimento, nella convinzione che il videogioco non funziona come fattore di eliminazione delle digital inequalities. Proprio per questo è quanto mai urgente ampliare il nostro punto di osservazione per ricomprendere il contesto sociale che ospita (e orienta profonda- mente) i processi di apprendimento. Il quinto capitolo è dedicato a uno degli effetti sociali del videogame meno visibile, eppure non meno significativo per aumentare la comprensione del fenomeno videoludico. Il protagonismo dei videogame sulla scena sociale è accompagnato da una crescente riflessione sull’identità e sul ruolo degli studiosi che si occupano di videogiochi. Molte delle contraddizioni e delle difficoltà interpretative emerse rispetto ai temi della violenza e dell’apprendimento derivano anche dalla estrema variabilità delle appartenenze disciplinari degli studiosi che si occupano dei fenomeni. La stessa doppia natura del videogame (medium o gioco) diventa il punto di partenza per la contrapposizione tra narratologi (che studiano il videogioco come forma di narrazione e rappresentazione) e ludologi (che lo studiano come attività ludica). Nell’impossibilità di organizzare coerentemente un dibattito teorico che ha già assunto proporzioni notevoli, ho scelto di porre attenzione su alcuni momenti significativi della storia dei game studies, nella convinzione che un fenomeno così complesso come i videogame meriti una comunità scientifica di studiosi che rifletta criticamente su se stessa. In questi termini, la polifonia di voci che compone il dibattito deve essere salutata positivamente. Considerare lo studio dei videogame come un’anomalia rispetto al naturale corso delle discipline scientifiche è, invece, un errore di prospettiva che, viste le proporzioni del fenomeno, non possiamo più permetterci.

Videogiochi. Effetti (sociali) speciali / Mulargia, Simone. - STAMPA. - (2016).

Videogiochi. Effetti (sociali) speciali

MULARGIA, Simone
2016

Abstract

La tesi principale di questo lavoro è che i videogame possano essere compresi pienamente solo affrontando il tema delle conseguenze sociali del loro utilizzo. Per cercare di argomentare questo assunto farò ricorso a una vasta gamma di punti di vista, accomunati dalla convinzione che i videogiochi non siano un semplice passatempo, né una bizzarria tecnologica destinata a essere superata da nuove e più accattivanti forme di divertissement tecnologico. Quando utilizziamo il termine videogiochi intendiamo un insieme (vasto più di quanto questo lavoro sarà in grado di descrivere) di oggetti e pratiche nati in precisi contesti sociali, aventi ad oggetto una qualche forma di interazione sociale e in grado – solo in ultima analisi – di incidere sull’assetto della società, quanto meno a livello simbolico. Ogni qual volta la nostra comprensione del fenomeno isola uno solo degli elementi che compongono il videogame (la tecnologia, le forme dell’interazione, i contenuti della rappresentazione, le regole del gioco ecc.) commette un errore che ha almeno due ordini di conseguenze: la rinuncia a descrivere e analizzare un fenomeno complesso; l’impossibilità di dialogare con gli altri osservatori che, pur utilizzando gli stessi termini, fanno riferimento a uno dei differenti elementi lasciati fuori dall’analisi del loro interlocutore. Il dibattito pubblico sui videogiochi, insieme alla riflessione teorica, sono entrambi vittime di questo errore di prospettiva. Per sgombrare il campo da questi equivoci, nel primo capitolo, mi confronto con alcune definizioni di videogioco, evidenziando una delle tante dicotomie (più o meno esplicite) che contribuisce alla cacofonia imperante nei discorsi sui videogiochi: quella tra videogame in quanto gioco e in quanto medium. Malgrado la mia sensibilità disciplinare mi avvicini all’idea che i maggiori elementi di significatività del linguaggio videoludico abbiano a che vedere con le forme della rappresentazione mediale, penso che non sia assolutamente necessario risolvere drasticamente la dicotomia, quanto piuttosto essere coscienti della sua esistenza per usarla metodologicamente al fine di organizzare la nostra osservazione dei fenomeni. Mosso dagli stessi intenti, sempre nel primo capitolo, cerco di approfondire le differenze e le similitudini tra videogioco e simulazione, lette attraverso la lente delle operazioni di modellizzazione della realtà e delle strategie di selezione degli elementi significativi finalizzate alla sua messa in scena. Infine, attraverso il confronto con diversi autori che, negli anni, hanno utilizzato questo schema concettuale, propongo un’ulteriore distinzione tra videogioco in quanto oggetto e in quanto processo. Nel secondo capitolo entro pienamente nella questione degli effetti, cercando di mettere in luce se la pratica videoludica possa giocare un ruolo nei processi di socializzazione. In prima battuta, mi confronto con alcune definizioni di socializzazione, soprattutto per quanto riguarda la differenza tra socializzazione ed educazione, per concentrare l’attenzione sul versante informale di quell’insieme di pratiche che contribuiscono a una qualche forma di composizione (per quanto temporanea) tra gli orientamenti del singolo e quelli della società (o almeno di quell’astrazione che il singolo percepisce come altri). La doppia chiave di lettura del videogioco, proposta nel primo capitolo, viene applicata in questo percorso di analisi degli effetti di socializzazione recuperando alcune osservazioni compiute dagli studiosi del gioco e da quelli dei media. All’interno di un dibattito ampio e articolato ho cercato di orientarmi valorizzando quei contributi che risolvessero in termini positivi l’interrogativo circa gli effetti socializzanti del gioco e dei mezzi di comunicazione. Come sorta di corollario alla questione della socializzazione, affronto poi il tema dell’identità. Prima di addentrarmi nell’analisi di alcune specifiche acquisizioni teorico-sperimentali relative ai processi di identity building, che hanno al loro interno anche il riferimento alla pratica videoludica, cerco di mettere in luce quanto l’interesse contemporaneo nei confronti dei percorsi identitari dei soggetti, soprattutto per quanto riguarda il peso delle piattaforme digitali, sia in realtà inquadrabile in un processo di lungo periodo, ampiamente tematizzato dalla sociologia, relativo alla perdita di centralità dei legami di tipo comunitario e dei riferimenti spazio-temporali come con- testo naturale di esistenza. Una riflessione sulla sperimentazione identitaria, sulla necessità di inventarsi – anche faticosamente – un’identità nel momento in cui la semplice adesione a un ruolo prestabilito non funziona più (essendo venuti più o meno contemporaneamente a man- care sia i ruoli sia la loro desiderabilità sociale). Molto prima dell’invenzione del videogame, anche se, in maniera non dissimile da quanto avviene all’interno di altre piattaforme per la mediazione dell’interazione sociale, le pratiche di gioco, soprattutto per quanto riguarda l’on- line gaming, entrano di diritto a far parte del set di esperienze che forniscono ai soggetti materiale simbolico da utilizzare all’interno dei tentativi di linearizzazione dei loro percorsi esistenziali. Il terzo capitolo non cambia il punto di osservazione sul fenomeno videoludico, ma affronta esplicitamente uno dei casi in cui gli ipotizzati effetti sociali dei videogiochi possano essere negativi. La questione della violenza nei videogame è il caso idealtipico delle contraddizioni a cui ho accennato brevemente in apertura, e che accompagneranno il lettore per tutto il corso del lavoro. La più significativa è quella relativa agli approcci scientifici che studiano il ruolo dei videogiochi violenti. La distanza, davvero difficile da colmare, tra studi di impostazione psicologica e socio-culturologica è una delle cause per cui, a distanza di più vent’anni dai primi contributi scientifici sulla questione, il dibattito è ancora oggi caratterizzato da contrapposizioni irriducibili. Per cercare di affrontare in termini soddisfacenti la questione, malgrado la mia formazione sia decisamente sociologica, ho cercato di confrontarmi con l’approccio psicologico, mettendo in evidenza le contraddizioni che animano quel dibattito dall’interno, senza cadere (al- meno spero) nella tentazione di costruirmi il classico interlocutore fantoccio. La verifica empirica di alcuni meccanismi di innesco e moltiplicazione di pattern cognitivi aggressivi e violenti è fuori discussione e sbaglia chi, mosso dall’intento di difendere i videogame dagli attacchi più radicali, metta in discussione i risultati di anni di ricerca empirica seria ed affidabile. Ma sbaglia altrettanto chi dovesse da quei meccanismi accertati far discendere automaticamente un cambiamento nel comportamento dei soggetti, isolando questi ultimi dal loro contesto sociale. E questo non per un omaggio alla sociologia, ma perché i soggetti (all’interno dei quali avvengono alcuni fenomeni di ordine psichico) si trovato a vivere immersi in ambienti sociali che possono funzionare come straordinari fattori di moltiplicazione o demoltiplicazione del ruolo dei videogame violenti. La stessa attenzione alla demistificazione degli assunti più estremi deve essere condotta anche quando gli effetti sociali dei videogiochi sono raccontati come estremamente positivi. È questo il caso del rapporto tra videogiochi e apprendimento rispetto al quale, come cercherò di argomentare, è necessario rendersi conto che non basta pre- mere il tasto start per determinare l’aumento di conoscenze e competenze dei soggetti. Nel quarto capitolo, dunque, il confronto con una ricchissima tradizione di studi sul potenziale cognitivo-educativo dell’attività ludica aiuta ad inquadrare alcuni temi del dibattito, insieme alla valorizzazione degli studi sull’utilizzo dei media per l’apprendimento. Malgrado queste straordinarie premesse, però, la foto- grafia della discussione scientifica sull’uso dei videogame per l’apprendimento restituisce un’immagine decisamente confusa. È possibile confrontarsi con studi documentati e robusti dal punto di vista metodologico che arrivano a conclusioni praticamente opposte. E questo in un contesto complessivo in cui la mutevolezza dei disegni sperimentali e dell’operativizzazione delle variabili è tale da rendere difficilissima la comparabilità e l’individuazione degli elementi che rendono soddisfacente o deludente il singolo esperimento di utilizzo del videogioco per l’apprendimento. E mentre la comunità scientifica non ha ancora deciso tra la valorizzazione dei videogame commerciali in ottica di apprendimento (per sfruttare alcune potenzialità che coinvolgerebbero l’assetto cognitivo-esperenziale dei soggetti), l’utilizzo di videogiochi creati apposita- mente per veicolare contenuti specifici o l’insegnamento dei rudimenti del game design per aumentare la consapevolezza critica dei ragazzi nei confronti delle scelte di progettazione di un videogame, il mercato è già ampiamente orientato a valorizzare i serious games come opportunità commerciale e la gamification come strategia complessiva per affrontare le sfide del cambiamento organizzativo e non. Queste evidenti contraddizioni possono essere parzialmente risolte facendo riferimento, ancora una volta, all’analisi delle condizioni reali in cui i soggetti utilizzano i videogame. Da questa scelta di metodo consegue la necessità di analizzare le caratteristiche socio-demografiche dei soggetti in apprendimento, nella convinzione che il videogioco non funziona come fattore di eliminazione delle digital inequalities. Proprio per questo è quanto mai urgente ampliare il nostro punto di osservazione per ricomprendere il contesto sociale che ospita (e orienta profonda- mente) i processi di apprendimento. Il quinto capitolo è dedicato a uno degli effetti sociali del videogame meno visibile, eppure non meno significativo per aumentare la comprensione del fenomeno videoludico. Il protagonismo dei videogame sulla scena sociale è accompagnato da una crescente riflessione sull’identità e sul ruolo degli studiosi che si occupano di videogiochi. Molte delle contraddizioni e delle difficoltà interpretative emerse rispetto ai temi della violenza e dell’apprendimento derivano anche dalla estrema variabilità delle appartenenze disciplinari degli studiosi che si occupano dei fenomeni. La stessa doppia natura del videogame (medium o gioco) diventa il punto di partenza per la contrapposizione tra narratologi (che studiano il videogioco come forma di narrazione e rappresentazione) e ludologi (che lo studiano come attività ludica). Nell’impossibilità di organizzare coerentemente un dibattito teorico che ha già assunto proporzioni notevoli, ho scelto di porre attenzione su alcuni momenti significativi della storia dei game studies, nella convinzione che un fenomeno così complesso come i videogame meriti una comunità scientifica di studiosi che rifletta criticamente su se stessa. In questi termini, la polifonia di voci che compone il dibattito deve essere salutata positivamente. Considerare lo studio dei videogame come un’anomalia rispetto al naturale corso delle discipline scientifiche è, invece, un errore di prospettiva che, viste le proporzioni del fenomeno, non possiamo più permetterci.
2016
9788881074020
comunicazione; videogiochi; effetti dei media; apprendimento e tecnologia; serious games; identità
03 Monografia::03a Saggio, Trattato Scientifico
Videogiochi. Effetti (sociali) speciali / Mulargia, Simone. - STAMPA. - (2016).
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