E' nella natura umana spaventarsi di più di ciò che si conosce meno. Ma non sempre è sufficiente dare un nome alle cose per poterle capire e “controllare”. Spesso è necessario uno sforzo ulteriore per permettere a chi ci ascolta di arrivare a una comprensione piena di ciò che si vuole trasmettere. Ci sono situazioni in cui questo sforzo diventa indispensabile.Da oltre vent’anni nel nostro laboratorio, all’Università Statale di Milano studiamo una malattia ereditaria neurodegenerativa, la Còrea di Huntington. Anche nel mio caso, la responsabilità cui mi sento ogni giorno chiamata è aprire le porte del laboratorio e raccontare la storia di questa malattia, per accrescere la consapevolezza su cosa e perché si fa ricerca e mettere ogni informazione a disposizione del cittadino, dei familiari dei malati e di chi è a rischio di svilupparla. Una responsabilità che è ben rappresentata dall’esperienza culturale di incontro e scambio tra mondo della scienza e società raccontata in questo libro, esperienza che dimostra come un’alleanza tra ricercatori, medici e famiglie sia non solo possibile, quanto auspicabile. L’Huntington è una malattia che provoca la morte dei nostri neuroni nelle aree cerebrali che controllano il movimento e alcune funzioni cognitive. Questa degenerazione dipende dalla mutazione di un singolo gene, chi ne è portatore svilupperà la malattia (in media intorno ai 40-50 anni) ed ogni figlio di una persona malata presenta il 50 per cento di possibilità di ereditare quella stessa mutazione. La diagnosi di Malattia, quindi, porta con sé una serie di implicazioni che vanno oltre il presente e legano il destino di chi la riceve alle generazioni passate e, ciò che è più doloroso, a quelle future. Il momento della diagnosi cattura ogni pensiero e, a volte, ribalta ogni prospettiva. Dopo tanti anni di ricerca su questa malattia, ancora non riesco a comprendere l’insieme della fatica quotidiana, del coraggio e della voglia di futuro che ricadono e crescono sulle spalle di questi malati e dei loro familiari, molti dei quali – a caro prezzo – costruiscono intorno a sé una vita serena e piena. Anche se, mi spiegano, i tratti della malattia restano sempre lì. In questa altalena di vita, un grande contributo arriva dai medici che accompagnano scelte e momenti critici. La diagnosi si caratterizza certamente come uno snodo fondamentale nell’esistenza dell’individuo che finisce per coinvolgere anche il medico che la comunica. Le pagine che seguono spiegano quanto il ruolo di uno psicologo, di un genetista, dell’assistenza delle associazioni possa essere d’aiuto nel vigilare sulle ricadute che una tale diagnosi può avere nella vita di ciascun individuo. Non esiste ancora una cura per l’Huntington ma, ogni giorno, emerge l’intensità del lavoro di ricerca nei tanti laboratori e ospedali del mondo interamente dedicati a questa malattia. Non c’è altro tempo, se non quello necessario per consegnare un risultato scientificamente solido e medicalmente significativo. Ogni strada scientificamente fondata può rivelarsi quella giusta, perciò deve essere perseguita. La speranza di riuscire ad aiutare non deve mai venir meno né in chi fa ricerca, né in chi quelle cure le aspetta per sé o per chi verrà dopo di lui. Ma accanto alla speranza sono necessarie strutture di sostegno e di accompagnamento, anche economico. L’esperienza raccontata nel libro ci aiuta a comprendere quanto l’assistenza sia oggi minima e frammentata, quando non superficiale, nonostante viviamo nella parte più avanzata e fortunata del mondo. Mentre si seguono i risultati della ricerca scientifica, c’è un dovere sociale che ci vede coinvolti e che Gioia Jacopini, Marina Frontali e le altre autrici di questo volume ci invitano a ricordare: il dovere di riconoscere chi ci sta di fronte non come “portatore di una mutazione genetica”, ma come individuo che ha il diritto di comprendere, decidere e conservare dignità e speranza. Un sociologo francese, tempo fa, rimase stupito del rapporto diretto che, in laboratorio, abbiamo sviluppato con i malati e le famiglie. Non ci siamo mai domandati se fosse una cosa giusta o meno, perché ne sentiamo la responsabilità. Sono parte del lavoro che facciamo, la nostra motivazione, il nostro obiettivo. E a loro, al loro incitamento e alla loro paziente comprensione dei nostri tempi e della nostra fatica dobbiamo tutto. Procediamo insieme, affinché possa arrivare il giorno in cui al nome della malattia possa immediatamente corrispondere una valida proposta terapeutica.

Affrontare il rischio genetico e preservare la speranza. Storia e risultati di un modello di collaborazione tra ricercatori, medici e famiglie con Malattia di Huntington / Jacopini, Gioia; Frontali, Marina; Spadaro, Maria; Bentivoglio, Anna Rita; Romano, Silvia; Casciani, Carolina; Torrelli, Laura; Rosati., Francesca. - STAMPA. - (2017), pp. 1-124.

Affrontare il rischio genetico e preservare la speranza. Storia e risultati di un modello di collaborazione tra ricercatori, medici e famiglie con Malattia di Huntington

Silvia, Romano;
2017

Abstract

E' nella natura umana spaventarsi di più di ciò che si conosce meno. Ma non sempre è sufficiente dare un nome alle cose per poterle capire e “controllare”. Spesso è necessario uno sforzo ulteriore per permettere a chi ci ascolta di arrivare a una comprensione piena di ciò che si vuole trasmettere. Ci sono situazioni in cui questo sforzo diventa indispensabile.Da oltre vent’anni nel nostro laboratorio, all’Università Statale di Milano studiamo una malattia ereditaria neurodegenerativa, la Còrea di Huntington. Anche nel mio caso, la responsabilità cui mi sento ogni giorno chiamata è aprire le porte del laboratorio e raccontare la storia di questa malattia, per accrescere la consapevolezza su cosa e perché si fa ricerca e mettere ogni informazione a disposizione del cittadino, dei familiari dei malati e di chi è a rischio di svilupparla. Una responsabilità che è ben rappresentata dall’esperienza culturale di incontro e scambio tra mondo della scienza e società raccontata in questo libro, esperienza che dimostra come un’alleanza tra ricercatori, medici e famiglie sia non solo possibile, quanto auspicabile. L’Huntington è una malattia che provoca la morte dei nostri neuroni nelle aree cerebrali che controllano il movimento e alcune funzioni cognitive. Questa degenerazione dipende dalla mutazione di un singolo gene, chi ne è portatore svilupperà la malattia (in media intorno ai 40-50 anni) ed ogni figlio di una persona malata presenta il 50 per cento di possibilità di ereditare quella stessa mutazione. La diagnosi di Malattia, quindi, porta con sé una serie di implicazioni che vanno oltre il presente e legano il destino di chi la riceve alle generazioni passate e, ciò che è più doloroso, a quelle future. Il momento della diagnosi cattura ogni pensiero e, a volte, ribalta ogni prospettiva. Dopo tanti anni di ricerca su questa malattia, ancora non riesco a comprendere l’insieme della fatica quotidiana, del coraggio e della voglia di futuro che ricadono e crescono sulle spalle di questi malati e dei loro familiari, molti dei quali – a caro prezzo – costruiscono intorno a sé una vita serena e piena. Anche se, mi spiegano, i tratti della malattia restano sempre lì. In questa altalena di vita, un grande contributo arriva dai medici che accompagnano scelte e momenti critici. La diagnosi si caratterizza certamente come uno snodo fondamentale nell’esistenza dell’individuo che finisce per coinvolgere anche il medico che la comunica. Le pagine che seguono spiegano quanto il ruolo di uno psicologo, di un genetista, dell’assistenza delle associazioni possa essere d’aiuto nel vigilare sulle ricadute che una tale diagnosi può avere nella vita di ciascun individuo. Non esiste ancora una cura per l’Huntington ma, ogni giorno, emerge l’intensità del lavoro di ricerca nei tanti laboratori e ospedali del mondo interamente dedicati a questa malattia. Non c’è altro tempo, se non quello necessario per consegnare un risultato scientificamente solido e medicalmente significativo. Ogni strada scientificamente fondata può rivelarsi quella giusta, perciò deve essere perseguita. La speranza di riuscire ad aiutare non deve mai venir meno né in chi fa ricerca, né in chi quelle cure le aspetta per sé o per chi verrà dopo di lui. Ma accanto alla speranza sono necessarie strutture di sostegno e di accompagnamento, anche economico. L’esperienza raccontata nel libro ci aiuta a comprendere quanto l’assistenza sia oggi minima e frammentata, quando non superficiale, nonostante viviamo nella parte più avanzata e fortunata del mondo. Mentre si seguono i risultati della ricerca scientifica, c’è un dovere sociale che ci vede coinvolti e che Gioia Jacopini, Marina Frontali e le altre autrici di questo volume ci invitano a ricordare: il dovere di riconoscere chi ci sta di fronte non come “portatore di una mutazione genetica”, ma come individuo che ha il diritto di comprendere, decidere e conservare dignità e speranza. Un sociologo francese, tempo fa, rimase stupito del rapporto diretto che, in laboratorio, abbiamo sviluppato con i malati e le famiglie. Non ci siamo mai domandati se fosse una cosa giusta o meno, perché ne sentiamo la responsabilità. Sono parte del lavoro che facciamo, la nostra motivazione, il nostro obiettivo. E a loro, al loro incitamento e alla loro paziente comprensione dei nostri tempi e della nostra fatica dobbiamo tutto. Procediamo insieme, affinché possa arrivare il giorno in cui al nome della malattia possa immediatamente corrispondere una valida proposta terapeutica.
2017
9788891812711
malattia di huntington; corea di huntington; fattori genetici.
03 Monografia::03a Saggio, Trattato Scientifico
Affrontare il rischio genetico e preservare la speranza. Storia e risultati di un modello di collaborazione tra ricercatori, medici e famiglie con Malattia di Huntington / Jacopini, Gioia; Frontali, Marina; Spadaro, Maria; Bentivoglio, Anna Rita; Romano, Silvia; Casciani, Carolina; Torrelli, Laura; Rosati., Francesca. - STAMPA. - (2017), pp. 1-124.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11573/962892
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