Essentia, presente sulla penna di Quintiliano, Seneca e forse Cicerone come traduzione possibile dell’ousia aristotelico, trasferito dalla filosofia pagana alla teologia cristiana con Agostino per indicare l’assolutamente semplice e immutabile natura divina, nel XIII seccolo, dopo un lungo periodo di vaghezza e molteplicità di significati e sulla base anche di nuovi apporti greci e arabi, acquisisce il senso formale-metafisico nonché noetico-logico di risposta alla domanda «che cos’è?» e di «ciò che è significato dalla definizione». Forse il termine essentia ha potuto fissarsi nel lessico della metafisica delle università medievali con questo significato, che gli è rimasto come significato principale, anche in quanto nel corso del 1100 alcuni pensatori seguaci di Gilberto di Poitiers lo avevano già riconquistato al discorso filosofico in un senso in parte simile. Questo articolo indaga una particolare accezione del termine essentia che ricorre in alcuni testi dottrinalmente vicini a Giberto di Poitiers e databili – in modo purtroppo non preciso – nella seconda metà del XII secolo: i trattati Invisibilia Dei e Summa Zwettlensis (attribuita a Pietro da Vienna). Essentia in tale accezione indica una proprietà o determinazione formale non accidentale (proprietas, forma, subsistentia) di una singolare sostanza concreta (res subiecta: l’id quod est boeziano o il subsistens gilbertino). Le essentiae di una res costituiscono, ognuna separatamente e tutte nel loro insieme, il suo «essere» (esse, o id quo est) in quanto sono ciò che fa sì ad un tempo che la cosa sia e che sia esattamente quello che è. Esse producono cioè nella cosa non delle condizioni accidentali, accessorie e transeunti bensì uno stato tale che, se anche una sola essentia venisse a mancare o mutasse, quella cosa diventerebbe «essenzialmente» un’altra e dunque non «esisterebbe» più come tale. L’essentia è così distinta, secondo quest’accezione, tanto dalla res subiecta di cui è forma (sostanziale) partecipata quanto dall’esistenza della stessa res, di cui è una causa.
Essentiae. Forme sostanziali ed "esistenza" nella filosofia porretana (XII secolo) / Valente, Luisa. - STAMPA. - (2011), pp. 255-266.
Essentiae. Forme sostanziali ed "esistenza" nella filosofia porretana (XII secolo)
VALENTE, Luisa
2011
Abstract
Essentia, presente sulla penna di Quintiliano, Seneca e forse Cicerone come traduzione possibile dell’ousia aristotelico, trasferito dalla filosofia pagana alla teologia cristiana con Agostino per indicare l’assolutamente semplice e immutabile natura divina, nel XIII seccolo, dopo un lungo periodo di vaghezza e molteplicità di significati e sulla base anche di nuovi apporti greci e arabi, acquisisce il senso formale-metafisico nonché noetico-logico di risposta alla domanda «che cos’è?» e di «ciò che è significato dalla definizione». Forse il termine essentia ha potuto fissarsi nel lessico della metafisica delle università medievali con questo significato, che gli è rimasto come significato principale, anche in quanto nel corso del 1100 alcuni pensatori seguaci di Gilberto di Poitiers lo avevano già riconquistato al discorso filosofico in un senso in parte simile. Questo articolo indaga una particolare accezione del termine essentia che ricorre in alcuni testi dottrinalmente vicini a Giberto di Poitiers e databili – in modo purtroppo non preciso – nella seconda metà del XII secolo: i trattati Invisibilia Dei e Summa Zwettlensis (attribuita a Pietro da Vienna). Essentia in tale accezione indica una proprietà o determinazione formale non accidentale (proprietas, forma, subsistentia) di una singolare sostanza concreta (res subiecta: l’id quod est boeziano o il subsistens gilbertino). Le essentiae di una res costituiscono, ognuna separatamente e tutte nel loro insieme, il suo «essere» (esse, o id quo est) in quanto sono ciò che fa sì ad un tempo che la cosa sia e che sia esattamente quello che è. Esse producono cioè nella cosa non delle condizioni accidentali, accessorie e transeunti bensì uno stato tale che, se anche una sola essentia venisse a mancare o mutasse, quella cosa diventerebbe «essenzialmente» un’altra e dunque non «esisterebbe» più come tale. L’essentia è così distinta, secondo quest’accezione, tanto dalla res subiecta di cui è forma (sostanziale) partecipata quanto dall’esistenza della stessa res, di cui è una causa.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.