This work relates the canon aequitas, the main principle of the legal tradition of the Church, with one of the most controversial aspects of the post-conciliar canon administrative law: the problem of limiting the discretion of the Administration of the Church. The aim is to verify if and how the canonical equity criterion is appropriate to direct and confine the power discretion of the Administration in the Church.

Il presente studio pone in relazione l’aequitas canonica, principio cardine della tradizione giuridica della Chiesa, con uno degli aspetti più controversi del diritto amministrativo canonico post-conciliare: il problema di limitare la discrezionalità dell’Amministrazione ecclesiale. L’obiettivo è quello di verificare se e come l’equità canonica sia criterio idoneo ad indirizzare e confinare le scelte discrezionali dell’Amministrazione. Al tal fine si è adottata una prospettiva d’analisi specifica e poco consueta: dopo aver accertato che a livello puramente teorico l’equità può essere indicata come uno dei limiti della discrezionalità, si è scelto di riscontrare la portata pratica di tale affermazione guardando all’effettiva sindacabilità ed esigibilità di questo limite nell’attuale sistema amministrativo canonico. Specificatamente, per inquadrare nella giusta prospettiva la questione affrontata, si è iniziato con il dimostrare, attraverso un’analisi storica, dogmatica e comparativa, come e perché nell’ordinamento canonico nasce l’esigenza di apporre dei limiti alla discrezionalità amministrativa, insieme alla particolare complessità ed al notevole rilievo pratico che tal esigenza ha nella vita giuridica della Chiesa. In assenza di una definizione normativa, si è anche provveduto ad una ricostruzione del concetto di discrezionalità amministrativa canonica, individuando i momenti costitutivi della scelta discrezionale ed evidenziando, e superando, oscillazioni dottrinali e possibili equivoci interpretativi sul punto. Specifica attenzione è stata dedicata all’analisi delle soluzioni offerte dalla dottrina canonica al problema della discrezionalità, sottolineandone la validità e gli inconvenienti. Solo al termine di quest’analisi, si è ipotizzato di poter indicare nell’equità canonica il criterio che, superando tali inconvenienti, limita la discrezionalità, evidenziando la mancanza di una ricostruzione che espliciti il significato specifico e la consistenza reale dell’equità canonica come equità amministrativa e, nello stesso tempo, le difficoltà intrinseche di tale ricostruzione, che trovano origine nel complesso legame concettuale che sussiste fra equità e discrezionalità. Chiarite le dinamiche di tale legame, si è provveduto ad elaborare degli schemi teorici funzionali ad uno studio dell’equità quale limite della discrezionalità. In particolare, si è ipotizzato di poter attribuire all’equità amministrativa la natura di limite interno del potere discrezionale. Dai risultati così raggiunti è scaturita la necessità di spostare la questione lungo due piani d’indagine: quello di stabilire quando l’Amministrazione non ha oltrepassato il confine dell’equità e quello di chiarire se l’equità ha la valenza di un principio pro-grammatico o di un criterio cogente. (Per tutti questi aspetti cfr. cap. I). La ricerca è di poi proseguita con un esame dell’equità amministrativa nel sistema italiano, e specificatamente, con un esame delle problematiche per le quali l’equità è menzionata, e dell’incidenza operativa riconosciuta all’equità nella soluzione delle problematiche medesime. Questa analisi comparativa è stata motivata dal fatto che, fra i sistemi continentali, quello italiano ha inciso più d’ogni altro sull’assetto giuridico canonico in materia amministrativa. Da ciò l’utilità di verificare quale spazio è riconosciuto all’equità nel sistema assunto a modello dal legislatore canonico, considerando che l’aequitas, in sé, è un principio tipicamente canonistico. Particolare attenzione è stata dedicata alla formulazione dell’equità quale regola “del minimo mezzo”, vale a dire quale criterio che limita il modo d’esercizio della scelta discrezionale imponendo di raggiungere l’interesse pubblico con il minor sa-crificio dell’interesse privato. La regola del minimo mezzo, ela-borata nell’ambito della dottrina italiana da Federico Cammeo, è, infatti, citata dalla dottrina canonistica, che però, si limita ad accennare alla regola senza rendere conto della sua ragion d’essere nell’ordinamento canonico. Pertanto, lo studio è proseguito dimostrando perché e a che a condizioni la regola “ del minimo mezzo”, criticamente rivista, trova spazio nell’ordinamento ecclesiale. In quest’ottica si è anche sentita l’esigenza di individuare ed ana-lizzare la nozione d’equità da assumere a punto di riferimento dell’analisi: l’equità quale giustizia del caso singolo, dimostrando la sua idoneità strutturale a valere quale criterio direttivo della discrezionalità. Evidenziato il fondamento teorico della funzione di limite della discrezionalità svolta dall’equità canonica sia in sé, sia come regola “ del minimo mezzo, si è costatata la necessità di verificare la portata pratica di questo risultato teorico. Si è costatata cioè la necessità di verificare la reale esigibilità e sindacabilità dell’equità amministrativa, anche al fine di chiarire la forza vincolante del principio e la possibilità di verificare la sua violazione. Al tal fine, la ricerca è stata impostata lungo tre direttive: 1) appurare se sussistono dati normativi attraverso i quali è possibile configurare l’equità quale doveroso criterio dell’azione di governo dell’Amministrazione ecclesiale; 2) stabilire se a tale dovere corrisponde un diritto del fedele, positivamente sancito, ad un provvedimento equo; 3) accertare la presenza di strumenti che assicurano l’adempimento di tale dovere ed il rispetto di tale diritto e, dunque, l’impugnazione dell’atto amministrativo per iniquità. (Per tutti questi aspetti cfr. cap. II). Conformemente a tali direttive, si è indirizzata la ricerca sulla legislazione canonica vigente, per rinvenire in essa dati positivi relativi all’equità quale dovere dell’Amministrazione e diritto dell’amministrato. Costatato che in tale legislazione non si rinviene nessuna disposi-zione volta a sancire, in modo specifico e diretto, la necessaria conformità dell’agire amministrativo all’equità canonica, si è ricavato il fondamento normativo dell’equità amministrativa da una particolare lettura ed interpretazione di tre canoni del Codice del 1983: il can 19, il can 1752 ed il can. 221, § 2. In particolare, attraverso l’analisi di quest’ultimo canone, si è tracciato il fondamento normativo del diritto all’equità quale diritto fondamentale, costituzionale, soggettivo. Il che ha permesso di evidenziare due dati: nell’ordinamento della Chiesa non esiste una distinzione né formale, né sostanziale, né di tutela fra diritto soggettivo ed interesse legittimo; nell’ordinamento della Chiesa non è accolta la formula dell’intrinseca incompatibilità fra potere discrezionale e diritto soggettivo. In ogni caso la ricerca ha parimenti evidenziato l’incerta natura del diritto all’equità e, soprattutto, l’ulteriore problema di stabilire quali sono le facoltà che esso attribuisce. (Per tutti questi aspetti cfr. cap. III, sez. I). A questi risultati, raggiunti de iure condito, sono stati poi affiancati altri dati de iure condendo: poiché norme specifiche, che configuravano apertamente l’equità canonica amministrativa, erano state previste nei lavori di riforma del codice pio-benedettino, si è infatti proceduto ad una breve ricostruzione dell’iter formativo di tali norme, al fine di cogliere la ratio sottesa alla loro iniziale formulazione, e al loro mancato inserimento nel testo definitivo del Codice. Segnatamente, l’analisi si è incentrata sulla ricostruzione critica dello Schema canonum de Procedura administrativa, un progetto legislativo mai promulgato, che configurava l’equità canonica quale criterio direttivo dell’azione amministrativa, e specificatamente quale regola “del minimo mezzo”; e quale parametro del giudice di legittimità. La storia di tale progetto e, soprattutto, le critiche mosse dagli organi consultori all’equità, hanno permesso di evidenziare le resistenze concettuali, le difficoltà tecniche e i timori suscitati da un’esplicita sanzione positiva dell’equità amministrativa. Specificatamente, dalle critiche mosse all’equità quale regola dell’agire amministrativo è emersa una visione contraddittoria dell’equità canonica che, per un verso, è stata considerata principio immanente al sistema, al punto che una norma che ne imponga l’osservanza è priva di significato; per l’altro è stata assimilata ad una regola morale dai contorni indefiniti e, pertanto, non idonea ad essere inserita fra i criteri che devono vincolare l’azione dell’autorità. Dalle critiche mosse all’equità come parametro di controllo dei provvedimenti amministrativi, è invece emerso il principale problema posto da tale parametro: quello di determinare un sindacato di merito, che da un lato, contrastava con la scelta del legislatore canonico di istituire un controllo giurisdizionale di sola legittimità; dall’altro lato, intaccava la sostanza degli atti discrezionali della gerarchia, mettendo in discussione l’autorità di quest’ultima. In ogni caso, le sorti dell’aequitas dello Schema canonum de Procedura administrativa sono state rilette alla luce delle vicende dell’equità nell’ambito della prima e della seconda codificazione canonica. Il che, insieme alla diversa scelta compiuta dal legislatore orientale rispetto all’equità amministrativa, ha permesso di evidenziare l’anacronismo dell’opzione del legislatore latino. (Per tutti questi aspetti cfr. il cap. III, sez. II). L’esame dei rilievi critici alla sanzione normativa dell’equità quale parametro di controllo giurisdizionale, ha spinto a dedicare il resto della trattazione all’analisi dell’attuale sistema canonico di giustizia amministrativa, per verificare se e fino a che punto all’interno di questo sistema è possibile impugnare un atto amministrativo per iniquità. Attraverso la ricostruzione dei caratteri propri di un sindacato sull’equità dell’atto, e di ciò in cui questo sindacato si sostanzia, sono stati così individuati i contenuti ed i tratti dell’equità quale criterio direttivo dell’Amministrazione e diritto dell’amministrato, completando gli schemi teorici precedentemente elaborati. Segnatamente, lo studio si è inizialmente incentrato sulla violatio aequitatis quale causa petendi del ricorso gerarchico e del ricorso giurisdizionale. Da tale indagine sono (ri)emersi due problemi: 1) l’equità quale giustizia del caso singolo, seppure, teoricamente, criterio di legittimità, se concretamente utilizzata come parametro al quale confrontare l’atto impugnato, sfocia in un sindacato di merito, che implica un’ampia conoscenza della situazione di fatto e una ripetizione, da parte del giudice, delle valutazioni compiute dall’amministrazione, sostituendo a tali valutazioni le proprie. Il che, per sé, contrasta con le scelte legislative poste alla base del sistema amministrativo canonico; b) l’equità, quale concetto dalle molteplici sfaccettature, sovente al confine fra diritto e morale, sembra configurarsi come limite della discrezionalità realmente sindacabile e, dunque, esigibile solo se assume un contenuto determinato e prevedibile. Posti questi due problemi, si è indicata una parziale soluzione al primo di essi dimostrando che, intanto, da un’attenta e peculiare lettura di alcuni dati normativi e giurisprudenziali, emerge che l’ampia conoscenza della situazione di fatto, e l’attività sostitutiva che il giudizio sull’equità di un provvedimento postula, non sono del tutto estranei all’ordinamento canonico, e possono, pertanto, non ostacolare l’operatività dell’equità amministrativa. Con riferimento al secondo problema, si è evidenziato che se è vero che lo schema dell’equità quale giustizia del caso singolo, pur mostrando i contorni dell’aequitas come attribuzione a cia-scuno del suo, non ne indica però il contenuto, è anche vero che nell’esperienza giudica ecclesiale, accanto alla rappresentazione dell’aequitas quale giustizia del caso singolo, si rinvengono altre rappresentazioni ed accezioni di equità (Per questi aspetti cfr. cap. IV, sez. I) La ricerca è pertanto proseguita individuando ed analizzando i significati costantemente assunti dall’equità canonica nella tradizione giuridica della Chiesa, in una prospettiva storico- dogmatica. Tali significati, dati dai concetti di uguaglianza, benignità, ratio naturalis, misericordia, carità, sono stati configurati sotto tre profili: come parametri cui deve uniformarsi la scelta discrezionale dell’Amministrazione ecclesiale, ricostruendo così l’essenza della scelta equa; come sostanza del diritto del fedele all’equità, ricostruendo così le facoltà che tal diritto attribuisce o ciò che in virtù dell’equità spetta al fedele; come criterio alla luce del quale il Superiore gerarchico o il giudice valutano il provvedimento impugnato, precisando così di cosa manca l’atto giudicato iniquo o, detto altrimenti, quando si può dire che l’Amministrazione ha superato il limite dell’equità. Questa ricostruzione ha dato modo di cogliere e chiarire molti degli aspetti complessi dell’equità, come quello della sua doppia natura di criterio giuridico e morale, di regola di governo e di virtù liberamente esercitata di chi governa. Con specifico riferimento ai problemi posti dall’equità in sede di sindacato sono state elaborate due ipotesi ricostruttive. In primo luogo, l’equità può essere considerata, esclusivamente, come principio, come un parametro concernente il modo di esercizio del potere discrezionale, e, dunque, l’atteggiamento assunto dall’Amministrazione nei confronti del fedele e della situazione concreta. In questo caso il sindacato del giudice s’incentra sul processo decisionale seguito dall’Amministrazione, su come il Superiore ha impostato la relazione giuridica sorta con l’atto impugnato, verificando se il potere è stato esercitato in modo corretto. In questo tipo di sindacato l’equità è concepita quale modello astratto al quale deve risultare conforme la struttura della scelta amministrativa considerata in sé, indipendentemente dai suoi risultati. Si tratta di una verifica di legittimità sostanziale, ma parziale, che non sfocia nel merito in senso stretto, poiché si accerta se la scelta sembra orientata verso l’equità, non se in concreto l’equità è stata perseguita. Questa verifica è compatibile con l’attuale si-stema canonico di giustizia amministrativa, quale sistema in cui si realizza un controllo giurisdizionale di sola legittimità. In secondo luogo, l’equità oltre che principio, può essere considerata come regola della scelta discrezionale. Una regola data dalla necessaria interazione fra il principio, i suoi contenuti, e la realtà del caso. In questo caso, il sindacato di equità si estende anche al risultato che deriva dall’interazione fra il principio e la realtà, cosicché tutti gli aspetti del caso sono criticamente valutati, per scoprire la regola, in essi immanente, che rende operative le esigenze poste dall’equità, e stabilire se la scelta amministrativa realizza tale regola. L’organo giurisdizionale ripete così la considerazione delle circostanze operata dall’amministrazione, valuta la ponderazione degli interessi da questa compiuta, misura il risultato del provvedimento secondo equità, realizza in altri termini un sindacato di merito, che non rientra, per sé, nelle sue competenze. Peraltro dalla dipendenza della regola d’equità dalla lettura della realtà del caso, scaturisce la natura trilaterale dell’equità quale parametro di controllo, giacché quando il giudice verifica l’equità di un provvedimento impugnato si realizza un confronto fra tre diverse percezioni dell’equità: quella dell’amministrazione, quella del fedele e quella del giudice, che può coincidere con una delle due posizioni precedenti o discostarsi da entrambe, preferendo per una propria idea di equità. A fronte di queste due chiavi di lettura si è poi elaborata una terza soluzione: la possibilità di realizzare un sindacato di equità quando la violatio aequitatis presenta i caratteri dell’iniquità manifesta. Difatti, come nell’ordinamento italiano l’equità è assunta a parametro di controllo della legittimità dell’atto attraverso la figura dell’ingiustizia manifesta, realizzando un sindacato affine, ma non coincidente con il merito, così il giudice canonico può dichiarare illegittimo l’atto che, con riferimento a singole posizioni personali considerate nella loro particolarità, produce risultati palesemente ed abnormemente iniqui ( per tutti questi aspetti cfr. cap. IV, sez. II) Al termine della ricerca i diversi, possibili, volti assunti dall’equità canonica quale limite della discrezionalità amministrativa sono stati ricondotti ad una nozione unitaria, nella quale i diversi significati dell’equità appaiono come gli elementi costitutivi dell’equità amministrativa che, nella ricchezza dei suoi contenuti, fra loro distinguibili ma non scindibili, è la sintesi dei vincoli che si oppongono all’arbitrarietà dell’amministrazione, il principio che regola il fare amministrativo rendendolo adeguato al suo compito. Un dato, infatti, è emerso con chiarezza dall’analisi condotta: i molteplici contenuti dell’equità trovano il loro centro di gravità nel diritto divino naturale e positivo, nel disegno di Dio sull’uomo. Disegno che si esplica, pienamente nella legge di redenzione posta da Cristo, che origina e struttura l’ordine giuridico della Chiesa ed iscrive la vita dell’uomo in un cammino di salvezza: l’aequitas canonica è depositaria e promotrice di ciò che tale cammino esige, comprese le esigenze umane di giustizia; facendosi portatrice di tali esigenze l’equità canonica confluisce in tal modo con l’equità tratteggiata dalla dottrina amministrativa italiana. Peraltro, attraverso l’equità è stato anche possibile cogliere una dinamica di reciproci rispecchiamenti fra gli ordinamenti amministrativi statali e l’ordinamento canonico. Dopo aver individuato il nucleo fondante ed unificante dell’equità amministrativa canonica, è stato possibile procedere ad una serie di puntualizzazioni che hanno ridefinito tutti gli aspetti esaminati nel corso della trattazione. Così, ad esempio, per quanto riguarda il problema del merito. Poiché l’equità coincide con il compimento della volontà divina, e poiché questa volontà è una volontà concreta, intrinsecamente legata all’essere reale delle situazioni, un sindacato volto a verificare l’equità del provvedimento amministrativo non può che essere e deve essere un sindacato di merito, realizzato con un parametro di controllo esteso e duttile. Rilevata l’inderogabile necessità di un sindacato di equità nell’attuale sistema canonico di giustizia amministrativa, l’analisi ha evidenziato sia gli adattamenti che l’equità chiede a tale sistema quali presupposti per la sua applicazione; sia i risvolti positivi di tale applicazione per il superamento delle imperfezioni del sistema stesso. E’ stato cioè evidenziato il contributo apportato dall’equità al problema della regolamentazione dell’assetto amministrativo canonico. In particolare, dopo aver dedicato parte della trattazione al tentativo di conciliare l’aequitas canonica con la preclusione di un controllo giurisdizionale di merito, si è giunti a mettere in discussione tale preclusione, dimostrando che si tratta di una preclusione formale, di origine statale, introdotta nell’ordinamento canonico per ragioni politiche: in altri termini di una preclusione che deve essere superata in ragione dell’equità (per tutti questi aspetti cfr. cap. IV sez. III e cap. V). Ancora: un altro aspetto incerto che ha trovato composizione è quello della forza vincolante dell’aequitas come limite della discrezionalità. Si è intanto dimostrato che il confine dell’equità, massimamente vincolante ed insuperabile in via di principio, è superabile in via di fatto. E ciò, anzitutto, a causa della difficoltà, della fatica di riconoscere nelle persone e nelle situazioni reali ciò che Dio vuole, insieme alla consapevolezza che il riconoscimento del volere divino è intrinsecamente incerto, imprevedibile, mai definitivamente compiuto. Questa constatazione ha poi permesso di spiegare gli aspetti sfuggenti del limite dell’equità, quali la dinamicità, l’imprevedibilità, il contenuto non rigorosamente circoscritto, la difficoltà di applicazione. Soprattutto, però, si è dimostrato che il senso profondo dell’aequitas quale limite della discrezionalità, quel senso nel quale trovano composizione gli aspetti sfuggenti dell’equità amministrativa, è sempre radicato nel progetto divino. Secondo tale progetto, infatti, l’uomo è libero, ed è solo in una dimensione di libertà che si può compiere la sua volontà divina. Il limite dell’aequitas, poiché veicolo di una Volontà che non si impone con la forza, ha pertanto una capacità coercitiva che, paradossalmente, non prevarica la libera azione dell’uomo, ma anzi dipende dal concorso di tale libertà. La ricerca ha individuato la funzione di confine della discrezio-nalità svolta dall’aequitas: questa funzione consiste nel determinare in chi amministra una costante tensione verso la ratio divina; una tensione che non offre per sé sicurezze, né garanzie assolute in termini di risultati poiché la voluntas Dei non è pienamente comprensibile. Ciò tuttavia non contraddice la natura di limite giuridico dell’equità canonica. La suddetta tensione, infatti, esprime il nucleo della realtà dell’uomo e, pertanto, evita che la sua libertà si traduca in arbitrio riconducendolo a sé stesso, alle ragioni più profonde del suo essere. Siffatta tensione è cioè la dimensione giuridica nella quale l’uomo può vivere la complessità della propria esistenza e l’incontro con il mistero di Dio senza pericolose semplificazioni o deviazioni. La ricerca, però, ha anche individuato la condizione di operatività dell’equità quale limite della discrezionalità: tale condizione può dirsi soddisfatta se chi compie la scelta discrezionale accoglie l’equità, guarda ad essa senza ignorarla a causa della sua intrinseca difficoltà applicativa, e senza pretendere di definirla puntualmente. Tale condizione è cioè soddisfatta se chi compie la scelta si lascia avvolgere dal mistero divino, senza cedere alle due tentazioni riflesse nelle sorti dell’equità amministrativa canonica: la tentazione di voler circoscrivere tale mistero e la tentazione di rigettarlo (Per tutti questi aspetti cfr. cap. V).

Arbitrium et aequitas nel diritto amministrativo canonico / Serra, Beatrice. - STAMPA. - 4:(2007), pp. 1-350.

Arbitrium et aequitas nel diritto amministrativo canonico

SERRA, BEATRICE
2007

Abstract

This work relates the canon aequitas, the main principle of the legal tradition of the Church, with one of the most controversial aspects of the post-conciliar canon administrative law: the problem of limiting the discretion of the Administration of the Church. The aim is to verify if and how the canonical equity criterion is appropriate to direct and confine the power discretion of the Administration in the Church.
2007
9788824316965
Il presente studio pone in relazione l’aequitas canonica, principio cardine della tradizione giuridica della Chiesa, con uno degli aspetti più controversi del diritto amministrativo canonico post-conciliare: il problema di limitare la discrezionalità dell’Amministrazione ecclesiale. L’obiettivo è quello di verificare se e come l’equità canonica sia criterio idoneo ad indirizzare e confinare le scelte discrezionali dell’Amministrazione. Al tal fine si è adottata una prospettiva d’analisi specifica e poco consueta: dopo aver accertato che a livello puramente teorico l’equità può essere indicata come uno dei limiti della discrezionalità, si è scelto di riscontrare la portata pratica di tale affermazione guardando all’effettiva sindacabilità ed esigibilità di questo limite nell’attuale sistema amministrativo canonico. Specificatamente, per inquadrare nella giusta prospettiva la questione affrontata, si è iniziato con il dimostrare, attraverso un’analisi storica, dogmatica e comparativa, come e perché nell’ordinamento canonico nasce l’esigenza di apporre dei limiti alla discrezionalità amministrativa, insieme alla particolare complessità ed al notevole rilievo pratico che tal esigenza ha nella vita giuridica della Chiesa. In assenza di una definizione normativa, si è anche provveduto ad una ricostruzione del concetto di discrezionalità amministrativa canonica, individuando i momenti costitutivi della scelta discrezionale ed evidenziando, e superando, oscillazioni dottrinali e possibili equivoci interpretativi sul punto. Specifica attenzione è stata dedicata all’analisi delle soluzioni offerte dalla dottrina canonica al problema della discrezionalità, sottolineandone la validità e gli inconvenienti. Solo al termine di quest’analisi, si è ipotizzato di poter indicare nell’equità canonica il criterio che, superando tali inconvenienti, limita la discrezionalità, evidenziando la mancanza di una ricostruzione che espliciti il significato specifico e la consistenza reale dell’equità canonica come equità amministrativa e, nello stesso tempo, le difficoltà intrinseche di tale ricostruzione, che trovano origine nel complesso legame concettuale che sussiste fra equità e discrezionalità. Chiarite le dinamiche di tale legame, si è provveduto ad elaborare degli schemi teorici funzionali ad uno studio dell’equità quale limite della discrezionalità. In particolare, si è ipotizzato di poter attribuire all’equità amministrativa la natura di limite interno del potere discrezionale. Dai risultati così raggiunti è scaturita la necessità di spostare la questione lungo due piani d’indagine: quello di stabilire quando l’Amministrazione non ha oltrepassato il confine dell’equità e quello di chiarire se l’equità ha la valenza di un principio pro-grammatico o di un criterio cogente. (Per tutti questi aspetti cfr. cap. I). La ricerca è di poi proseguita con un esame dell’equità amministrativa nel sistema italiano, e specificatamente, con un esame delle problematiche per le quali l’equità è menzionata, e dell’incidenza operativa riconosciuta all’equità nella soluzione delle problematiche medesime. Questa analisi comparativa è stata motivata dal fatto che, fra i sistemi continentali, quello italiano ha inciso più d’ogni altro sull’assetto giuridico canonico in materia amministrativa. Da ciò l’utilità di verificare quale spazio è riconosciuto all’equità nel sistema assunto a modello dal legislatore canonico, considerando che l’aequitas, in sé, è un principio tipicamente canonistico. Particolare attenzione è stata dedicata alla formulazione dell’equità quale regola “del minimo mezzo”, vale a dire quale criterio che limita il modo d’esercizio della scelta discrezionale imponendo di raggiungere l’interesse pubblico con il minor sa-crificio dell’interesse privato. La regola del minimo mezzo, ela-borata nell’ambito della dottrina italiana da Federico Cammeo, è, infatti, citata dalla dottrina canonistica, che però, si limita ad accennare alla regola senza rendere conto della sua ragion d’essere nell’ordinamento canonico. Pertanto, lo studio è proseguito dimostrando perché e a che a condizioni la regola “ del minimo mezzo”, criticamente rivista, trova spazio nell’ordinamento ecclesiale. In quest’ottica si è anche sentita l’esigenza di individuare ed ana-lizzare la nozione d’equità da assumere a punto di riferimento dell’analisi: l’equità quale giustizia del caso singolo, dimostrando la sua idoneità strutturale a valere quale criterio direttivo della discrezionalità. Evidenziato il fondamento teorico della funzione di limite della discrezionalità svolta dall’equità canonica sia in sé, sia come regola “ del minimo mezzo, si è costatata la necessità di verificare la portata pratica di questo risultato teorico. Si è costatata cioè la necessità di verificare la reale esigibilità e sindacabilità dell’equità amministrativa, anche al fine di chiarire la forza vincolante del principio e la possibilità di verificare la sua violazione. Al tal fine, la ricerca è stata impostata lungo tre direttive: 1) appurare se sussistono dati normativi attraverso i quali è possibile configurare l’equità quale doveroso criterio dell’azione di governo dell’Amministrazione ecclesiale; 2) stabilire se a tale dovere corrisponde un diritto del fedele, positivamente sancito, ad un provvedimento equo; 3) accertare la presenza di strumenti che assicurano l’adempimento di tale dovere ed il rispetto di tale diritto e, dunque, l’impugnazione dell’atto amministrativo per iniquità. (Per tutti questi aspetti cfr. cap. II). Conformemente a tali direttive, si è indirizzata la ricerca sulla legislazione canonica vigente, per rinvenire in essa dati positivi relativi all’equità quale dovere dell’Amministrazione e diritto dell’amministrato. Costatato che in tale legislazione non si rinviene nessuna disposi-zione volta a sancire, in modo specifico e diretto, la necessaria conformità dell’agire amministrativo all’equità canonica, si è ricavato il fondamento normativo dell’equità amministrativa da una particolare lettura ed interpretazione di tre canoni del Codice del 1983: il can 19, il can 1752 ed il can. 221, § 2. In particolare, attraverso l’analisi di quest’ultimo canone, si è tracciato il fondamento normativo del diritto all’equità quale diritto fondamentale, costituzionale, soggettivo. Il che ha permesso di evidenziare due dati: nell’ordinamento della Chiesa non esiste una distinzione né formale, né sostanziale, né di tutela fra diritto soggettivo ed interesse legittimo; nell’ordinamento della Chiesa non è accolta la formula dell’intrinseca incompatibilità fra potere discrezionale e diritto soggettivo. In ogni caso la ricerca ha parimenti evidenziato l’incerta natura del diritto all’equità e, soprattutto, l’ulteriore problema di stabilire quali sono le facoltà che esso attribuisce. (Per tutti questi aspetti cfr. cap. III, sez. I). A questi risultati, raggiunti de iure condito, sono stati poi affiancati altri dati de iure condendo: poiché norme specifiche, che configuravano apertamente l’equità canonica amministrativa, erano state previste nei lavori di riforma del codice pio-benedettino, si è infatti proceduto ad una breve ricostruzione dell’iter formativo di tali norme, al fine di cogliere la ratio sottesa alla loro iniziale formulazione, e al loro mancato inserimento nel testo definitivo del Codice. Segnatamente, l’analisi si è incentrata sulla ricostruzione critica dello Schema canonum de Procedura administrativa, un progetto legislativo mai promulgato, che configurava l’equità canonica quale criterio direttivo dell’azione amministrativa, e specificatamente quale regola “del minimo mezzo”; e quale parametro del giudice di legittimità. La storia di tale progetto e, soprattutto, le critiche mosse dagli organi consultori all’equità, hanno permesso di evidenziare le resistenze concettuali, le difficoltà tecniche e i timori suscitati da un’esplicita sanzione positiva dell’equità amministrativa. Specificatamente, dalle critiche mosse all’equità quale regola dell’agire amministrativo è emersa una visione contraddittoria dell’equità canonica che, per un verso, è stata considerata principio immanente al sistema, al punto che una norma che ne imponga l’osservanza è priva di significato; per l’altro è stata assimilata ad una regola morale dai contorni indefiniti e, pertanto, non idonea ad essere inserita fra i criteri che devono vincolare l’azione dell’autorità. Dalle critiche mosse all’equità come parametro di controllo dei provvedimenti amministrativi, è invece emerso il principale problema posto da tale parametro: quello di determinare un sindacato di merito, che da un lato, contrastava con la scelta del legislatore canonico di istituire un controllo giurisdizionale di sola legittimità; dall’altro lato, intaccava la sostanza degli atti discrezionali della gerarchia, mettendo in discussione l’autorità di quest’ultima. In ogni caso, le sorti dell’aequitas dello Schema canonum de Procedura administrativa sono state rilette alla luce delle vicende dell’equità nell’ambito della prima e della seconda codificazione canonica. Il che, insieme alla diversa scelta compiuta dal legislatore orientale rispetto all’equità amministrativa, ha permesso di evidenziare l’anacronismo dell’opzione del legislatore latino. (Per tutti questi aspetti cfr. il cap. III, sez. II). L’esame dei rilievi critici alla sanzione normativa dell’equità quale parametro di controllo giurisdizionale, ha spinto a dedicare il resto della trattazione all’analisi dell’attuale sistema canonico di giustizia amministrativa, per verificare se e fino a che punto all’interno di questo sistema è possibile impugnare un atto amministrativo per iniquità. Attraverso la ricostruzione dei caratteri propri di un sindacato sull’equità dell’atto, e di ciò in cui questo sindacato si sostanzia, sono stati così individuati i contenuti ed i tratti dell’equità quale criterio direttivo dell’Amministrazione e diritto dell’amministrato, completando gli schemi teorici precedentemente elaborati. Segnatamente, lo studio si è inizialmente incentrato sulla violatio aequitatis quale causa petendi del ricorso gerarchico e del ricorso giurisdizionale. Da tale indagine sono (ri)emersi due problemi: 1) l’equità quale giustizia del caso singolo, seppure, teoricamente, criterio di legittimità, se concretamente utilizzata come parametro al quale confrontare l’atto impugnato, sfocia in un sindacato di merito, che implica un’ampia conoscenza della situazione di fatto e una ripetizione, da parte del giudice, delle valutazioni compiute dall’amministrazione, sostituendo a tali valutazioni le proprie. Il che, per sé, contrasta con le scelte legislative poste alla base del sistema amministrativo canonico; b) l’equità, quale concetto dalle molteplici sfaccettature, sovente al confine fra diritto e morale, sembra configurarsi come limite della discrezionalità realmente sindacabile e, dunque, esigibile solo se assume un contenuto determinato e prevedibile. Posti questi due problemi, si è indicata una parziale soluzione al primo di essi dimostrando che, intanto, da un’attenta e peculiare lettura di alcuni dati normativi e giurisprudenziali, emerge che l’ampia conoscenza della situazione di fatto, e l’attività sostitutiva che il giudizio sull’equità di un provvedimento postula, non sono del tutto estranei all’ordinamento canonico, e possono, pertanto, non ostacolare l’operatività dell’equità amministrativa. Con riferimento al secondo problema, si è evidenziato che se è vero che lo schema dell’equità quale giustizia del caso singolo, pur mostrando i contorni dell’aequitas come attribuzione a cia-scuno del suo, non ne indica però il contenuto, è anche vero che nell’esperienza giudica ecclesiale, accanto alla rappresentazione dell’aequitas quale giustizia del caso singolo, si rinvengono altre rappresentazioni ed accezioni di equità (Per questi aspetti cfr. cap. IV, sez. I) La ricerca è pertanto proseguita individuando ed analizzando i significati costantemente assunti dall’equità canonica nella tradizione giuridica della Chiesa, in una prospettiva storico- dogmatica. Tali significati, dati dai concetti di uguaglianza, benignità, ratio naturalis, misericordia, carità, sono stati configurati sotto tre profili: come parametri cui deve uniformarsi la scelta discrezionale dell’Amministrazione ecclesiale, ricostruendo così l’essenza della scelta equa; come sostanza del diritto del fedele all’equità, ricostruendo così le facoltà che tal diritto attribuisce o ciò che in virtù dell’equità spetta al fedele; come criterio alla luce del quale il Superiore gerarchico o il giudice valutano il provvedimento impugnato, precisando così di cosa manca l’atto giudicato iniquo o, detto altrimenti, quando si può dire che l’Amministrazione ha superato il limite dell’equità. Questa ricostruzione ha dato modo di cogliere e chiarire molti degli aspetti complessi dell’equità, come quello della sua doppia natura di criterio giuridico e morale, di regola di governo e di virtù liberamente esercitata di chi governa. Con specifico riferimento ai problemi posti dall’equità in sede di sindacato sono state elaborate due ipotesi ricostruttive. In primo luogo, l’equità può essere considerata, esclusivamente, come principio, come un parametro concernente il modo di esercizio del potere discrezionale, e, dunque, l’atteggiamento assunto dall’Amministrazione nei confronti del fedele e della situazione concreta. In questo caso il sindacato del giudice s’incentra sul processo decisionale seguito dall’Amministrazione, su come il Superiore ha impostato la relazione giuridica sorta con l’atto impugnato, verificando se il potere è stato esercitato in modo corretto. In questo tipo di sindacato l’equità è concepita quale modello astratto al quale deve risultare conforme la struttura della scelta amministrativa considerata in sé, indipendentemente dai suoi risultati. Si tratta di una verifica di legittimità sostanziale, ma parziale, che non sfocia nel merito in senso stretto, poiché si accerta se la scelta sembra orientata verso l’equità, non se in concreto l’equità è stata perseguita. Questa verifica è compatibile con l’attuale si-stema canonico di giustizia amministrativa, quale sistema in cui si realizza un controllo giurisdizionale di sola legittimità. In secondo luogo, l’equità oltre che principio, può essere considerata come regola della scelta discrezionale. Una regola data dalla necessaria interazione fra il principio, i suoi contenuti, e la realtà del caso. In questo caso, il sindacato di equità si estende anche al risultato che deriva dall’interazione fra il principio e la realtà, cosicché tutti gli aspetti del caso sono criticamente valutati, per scoprire la regola, in essi immanente, che rende operative le esigenze poste dall’equità, e stabilire se la scelta amministrativa realizza tale regola. L’organo giurisdizionale ripete così la considerazione delle circostanze operata dall’amministrazione, valuta la ponderazione degli interessi da questa compiuta, misura il risultato del provvedimento secondo equità, realizza in altri termini un sindacato di merito, che non rientra, per sé, nelle sue competenze. Peraltro dalla dipendenza della regola d’equità dalla lettura della realtà del caso, scaturisce la natura trilaterale dell’equità quale parametro di controllo, giacché quando il giudice verifica l’equità di un provvedimento impugnato si realizza un confronto fra tre diverse percezioni dell’equità: quella dell’amministrazione, quella del fedele e quella del giudice, che può coincidere con una delle due posizioni precedenti o discostarsi da entrambe, preferendo per una propria idea di equità. A fronte di queste due chiavi di lettura si è poi elaborata una terza soluzione: la possibilità di realizzare un sindacato di equità quando la violatio aequitatis presenta i caratteri dell’iniquità manifesta. Difatti, come nell’ordinamento italiano l’equità è assunta a parametro di controllo della legittimità dell’atto attraverso la figura dell’ingiustizia manifesta, realizzando un sindacato affine, ma non coincidente con il merito, così il giudice canonico può dichiarare illegittimo l’atto che, con riferimento a singole posizioni personali considerate nella loro particolarità, produce risultati palesemente ed abnormemente iniqui ( per tutti questi aspetti cfr. cap. IV, sez. II) Al termine della ricerca i diversi, possibili, volti assunti dall’equità canonica quale limite della discrezionalità amministrativa sono stati ricondotti ad una nozione unitaria, nella quale i diversi significati dell’equità appaiono come gli elementi costitutivi dell’equità amministrativa che, nella ricchezza dei suoi contenuti, fra loro distinguibili ma non scindibili, è la sintesi dei vincoli che si oppongono all’arbitrarietà dell’amministrazione, il principio che regola il fare amministrativo rendendolo adeguato al suo compito. Un dato, infatti, è emerso con chiarezza dall’analisi condotta: i molteplici contenuti dell’equità trovano il loro centro di gravità nel diritto divino naturale e positivo, nel disegno di Dio sull’uomo. Disegno che si esplica, pienamente nella legge di redenzione posta da Cristo, che origina e struttura l’ordine giuridico della Chiesa ed iscrive la vita dell’uomo in un cammino di salvezza: l’aequitas canonica è depositaria e promotrice di ciò che tale cammino esige, comprese le esigenze umane di giustizia; facendosi portatrice di tali esigenze l’equità canonica confluisce in tal modo con l’equità tratteggiata dalla dottrina amministrativa italiana. Peraltro, attraverso l’equità è stato anche possibile cogliere una dinamica di reciproci rispecchiamenti fra gli ordinamenti amministrativi statali e l’ordinamento canonico. Dopo aver individuato il nucleo fondante ed unificante dell’equità amministrativa canonica, è stato possibile procedere ad una serie di puntualizzazioni che hanno ridefinito tutti gli aspetti esaminati nel corso della trattazione. Così, ad esempio, per quanto riguarda il problema del merito. Poiché l’equità coincide con il compimento della volontà divina, e poiché questa volontà è una volontà concreta, intrinsecamente legata all’essere reale delle situazioni, un sindacato volto a verificare l’equità del provvedimento amministrativo non può che essere e deve essere un sindacato di merito, realizzato con un parametro di controllo esteso e duttile. Rilevata l’inderogabile necessità di un sindacato di equità nell’attuale sistema canonico di giustizia amministrativa, l’analisi ha evidenziato sia gli adattamenti che l’equità chiede a tale sistema quali presupposti per la sua applicazione; sia i risvolti positivi di tale applicazione per il superamento delle imperfezioni del sistema stesso. E’ stato cioè evidenziato il contributo apportato dall’equità al problema della regolamentazione dell’assetto amministrativo canonico. In particolare, dopo aver dedicato parte della trattazione al tentativo di conciliare l’aequitas canonica con la preclusione di un controllo giurisdizionale di merito, si è giunti a mettere in discussione tale preclusione, dimostrando che si tratta di una preclusione formale, di origine statale, introdotta nell’ordinamento canonico per ragioni politiche: in altri termini di una preclusione che deve essere superata in ragione dell’equità (per tutti questi aspetti cfr. cap. IV sez. III e cap. V). Ancora: un altro aspetto incerto che ha trovato composizione è quello della forza vincolante dell’aequitas come limite della discrezionalità. Si è intanto dimostrato che il confine dell’equità, massimamente vincolante ed insuperabile in via di principio, è superabile in via di fatto. E ciò, anzitutto, a causa della difficoltà, della fatica di riconoscere nelle persone e nelle situazioni reali ciò che Dio vuole, insieme alla consapevolezza che il riconoscimento del volere divino è intrinsecamente incerto, imprevedibile, mai definitivamente compiuto. Questa constatazione ha poi permesso di spiegare gli aspetti sfuggenti del limite dell’equità, quali la dinamicità, l’imprevedibilità, il contenuto non rigorosamente circoscritto, la difficoltà di applicazione. Soprattutto, però, si è dimostrato che il senso profondo dell’aequitas quale limite della discrezionalità, quel senso nel quale trovano composizione gli aspetti sfuggenti dell’equità amministrativa, è sempre radicato nel progetto divino. Secondo tale progetto, infatti, l’uomo è libero, ed è solo in una dimensione di libertà che si può compiere la sua volontà divina. Il limite dell’aequitas, poiché veicolo di una Volontà che non si impone con la forza, ha pertanto una capacità coercitiva che, paradossalmente, non prevarica la libera azione dell’uomo, ma anzi dipende dal concorso di tale libertà. La ricerca ha individuato la funzione di confine della discrezio-nalità svolta dall’aequitas: questa funzione consiste nel determinare in chi amministra una costante tensione verso la ratio divina; una tensione che non offre per sé sicurezze, né garanzie assolute in termini di risultati poiché la voluntas Dei non è pienamente comprensibile. Ciò tuttavia non contraddice la natura di limite giuridico dell’equità canonica. La suddetta tensione, infatti, esprime il nucleo della realtà dell’uomo e, pertanto, evita che la sua libertà si traduca in arbitrio riconducendolo a sé stesso, alle ragioni più profonde del suo essere. Siffatta tensione è cioè la dimensione giuridica nella quale l’uomo può vivere la complessità della propria esistenza e l’incontro con il mistero di Dio senza pericolose semplificazioni o deviazioni. La ricerca, però, ha anche individuato la condizione di operatività dell’equità quale limite della discrezionalità: tale condizione può dirsi soddisfatta se chi compie la scelta discrezionale accoglie l’equità, guarda ad essa senza ignorarla a causa della sua intrinseca difficoltà applicativa, e senza pretendere di definirla puntualmente. Tale condizione è cioè soddisfatta se chi compie la scelta si lascia avvolgere dal mistero divino, senza cedere alle due tentazioni riflesse nelle sorti dell’equità amministrativa canonica: la tentazione di voler circoscrivere tale mistero e la tentazione di rigettarlo (Per tutti questi aspetti cfr. cap. V).
regola del minimo mezzo; giustizia amministrativa; discrezionalità; diritto amministrativo canonico; equità canonica
03 Monografia::03a Saggio, Trattato Scientifico
Arbitrium et aequitas nel diritto amministrativo canonico / Serra, Beatrice. - STAMPA. - 4:(2007), pp. 1-350.
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