La generazione degli architetti che si è formata negli anni ’70 ha trovato la strada aperta dal lavoro di quanti, avendo studiato nel decennio precedente, sono stati protagonisti del ’68 e che, aiutati dall’Angelus Novus della modernità, hanno spazzato via gran parte dei residui della nostalgia di un’aspramente criticata tradizione. Ciò che a essi non era stato possibile rimuovere è poi riaffiorato verso la fine degli anni ’70, rigurgitante e più forte di prima, sotto le insidie della post-modernità. La nostra formazione è rimasta immune da tali richiami, sia per un decennio di distanza dagli insegnamenti tradizionalisti, sia per una posizione di intransigente rifiuto nei confronti della seconda ondata, che invece mieteva vittime illustri anche tra gli iniziali oppositori. Una sorta di sindrome che, facendo leva sulla promessa di poter vivere una seconda giovinezza, ha temporaneamente impedito ad alcuni architetti che si sono formati negli anni ‘60 di sviluppare una sufficiente distanza critica dai fenomeni inizialmente contestati. La linea di ricerca che, indipendentemente, scegliemmo di seguire derivava dalla consapevolezza che solo dall’acquisizione di solide radici culturali, linguistiche, urbanistiche e tecniche dell’architettura – non come fatto vernacolare, ma come fenomeno esteso alla diversità delle popolazioni, dei climi e dei costumi – potesse derivare un sapere e un modus operandi in grado di orientare correttamente il progetto. Le sette invarianti del linguaggio moderno dell’architettura di Bruno Zevi, insieme alla ricerca della verità strutturale incarnata dalle opere dei grandi maestri quali PL. Nervi, B. Fuller, E. Freyssinet, R. Morandi, S. Musmeci, e alle teorie sugli spazi pubblici/privati di C. Alexander e S. Chermayeff e sul progetto degli spazi urbani di K. Lynch, hanno costituito le basi di un’attività formativa che oggi combina l’attività progettuale a quella universitaria di ricerca e di didattica. La differenza fondamentale insita nello studiare architettura in Italia e negli Stati Uniti in quegli anni era basata sulla scala dell’intervento. Se nelle facoltà italiane, sull’onda delle ipotesi quaroniane era di gran voga progettare un insediamento estensivo che talvolta poteva assumere dimensioni anche territoriali, in quelle nord americane l’oggetto di studio tendeva a non superare quello del grande centro polifunzionale urbano, il mixed use development – che in Italia in alcuni casi diventa il “centro direzionale” – nel quale la complessità delle funzioni si sviluppa quasi sempre a partire da un grande atrio coperto, a cui fa seguito un’aggregazione di volumi anche molto alti.
Lenci Valentin – Architettura Teorematica/Lenci Valentin - Theorematic Architecture (Italian and English texts) / Lenci, Ruggero; Valentin, NILDA MARIA; M. A., Arnaboldi; L., Passarelli; I. M., Pei; L., Prestinenza Puglisi; M., Rebecchini; A., Naudé Santos. - STAMPA. - 1:(2005), pp. 1-288.
Lenci Valentin – Architettura Teorematica/Lenci Valentin - Theorematic Architecture (Italian and English texts)
LENCI, Ruggero;VALENTIN, NILDA MARIA;
2005
Abstract
La generazione degli architetti che si è formata negli anni ’70 ha trovato la strada aperta dal lavoro di quanti, avendo studiato nel decennio precedente, sono stati protagonisti del ’68 e che, aiutati dall’Angelus Novus della modernità, hanno spazzato via gran parte dei residui della nostalgia di un’aspramente criticata tradizione. Ciò che a essi non era stato possibile rimuovere è poi riaffiorato verso la fine degli anni ’70, rigurgitante e più forte di prima, sotto le insidie della post-modernità. La nostra formazione è rimasta immune da tali richiami, sia per un decennio di distanza dagli insegnamenti tradizionalisti, sia per una posizione di intransigente rifiuto nei confronti della seconda ondata, che invece mieteva vittime illustri anche tra gli iniziali oppositori. Una sorta di sindrome che, facendo leva sulla promessa di poter vivere una seconda giovinezza, ha temporaneamente impedito ad alcuni architetti che si sono formati negli anni ‘60 di sviluppare una sufficiente distanza critica dai fenomeni inizialmente contestati. La linea di ricerca che, indipendentemente, scegliemmo di seguire derivava dalla consapevolezza che solo dall’acquisizione di solide radici culturali, linguistiche, urbanistiche e tecniche dell’architettura – non come fatto vernacolare, ma come fenomeno esteso alla diversità delle popolazioni, dei climi e dei costumi – potesse derivare un sapere e un modus operandi in grado di orientare correttamente il progetto. Le sette invarianti del linguaggio moderno dell’architettura di Bruno Zevi, insieme alla ricerca della verità strutturale incarnata dalle opere dei grandi maestri quali PL. Nervi, B. Fuller, E. Freyssinet, R. Morandi, S. Musmeci, e alle teorie sugli spazi pubblici/privati di C. Alexander e S. Chermayeff e sul progetto degli spazi urbani di K. Lynch, hanno costituito le basi di un’attività formativa che oggi combina l’attività progettuale a quella universitaria di ricerca e di didattica. La differenza fondamentale insita nello studiare architettura in Italia e negli Stati Uniti in quegli anni era basata sulla scala dell’intervento. Se nelle facoltà italiane, sull’onda delle ipotesi quaroniane era di gran voga progettare un insediamento estensivo che talvolta poteva assumere dimensioni anche territoriali, in quelle nord americane l’oggetto di studio tendeva a non superare quello del grande centro polifunzionale urbano, il mixed use development – che in Italia in alcuni casi diventa il “centro direzionale” – nel quale la complessità delle funzioni si sviluppa quasi sempre a partire da un grande atrio coperto, a cui fa seguito un’aggregazione di volumi anche molto alti.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.