In the myths of the ancient Near East is the matter of creating the clay matrix and at the same time the body of the form, as if to say shape and substance of nature. From this, in the first place, the replication, the ability to play the one in the manifold, the analog and the like, the one and the other. When, however, by this metaphor that resides in the "creative thought" let us look at the properties of the clay, our focus is steadfast in its essence plastic: split up into that infinity of ways that takes in space and time every lump of earth, as if the plate had been granted to the hand also the ability to create, model, refine and replicate. It is in this ancient repetition of gestures, in their organized, that some art historians glimpsed through the streets of forms and, moreover, always the cultures are considered much more materials as they are closer to the earth, as much as touch the ground , shape the earth. Material - let us remember - but is equivocal, difficult to pick out from its human history. Someone (more sensitive or lucky) it still recognizes as opposed to the ideal, the other puts it at zero degree of evolution, inverse, techniques, and others in the legal procedures that transform each subject in expressions with meaning. In the world of Sumer and Akkad, Mesopotamia, clay appears as the material and the ideal of every creative process is - in other words - an inseparable co-existence of values, ethics and technologies that make images allusive and metaphorical, and meta-historical figures. Plastic - in fact - it is. On the other hand, both in Sumerian texts (Imi), than in Akkadian (T? D / Tu) the clay itself is not distinguished from the mud. It is from the surface of the Primordial Ocean, according to the tradition due to the Sumerian poem of Enki and Ninmakh, Nammu, the goddess-mother par excellence, pull the clay to be placed in the matrix of the first man, and this, drawn by Enki "one to which belongs to the manufacture and produce "(Nu.dím.mud), then serve to make man the automaton, replicable, in charge of serving the gods, to procure their food, to appease their wrath and thank them. In this myth, the animation of the automaton entrusted to the vital breath of Ninmakh seems to become almost a cure Enki to laziness, sloth apparently irreconcilable with the official shared his first name (Enki is the sage par excellence), but perhaps here as is evident in the mitogenesis of creation should recompose (with a vein which to us seems almost ironic) any contradiction: wisdom and cunning are the universal values ​​of the intellect, but invent the exploitation of man. Later in time, the Curse of Akkad, one of the most impressive invectives hurled at those who, sacrilegious, dared to insult the E-kur of Nippur (the abode of Enlil was founded at the dawn of creation) that will appear, harmful, according to which 'l' Clay can return to his Apsû and that it can, the clay itself be cursed by Enki. " Later, in Akkadian poem in the age of Hammurabi, the Atramkhasis, the earth will be kneaded by Nintu with the flesh and blood of a slain god, you wanted to emphasize the almost inevitable 'sacrifice for life. " Finally, nell'Enuma Elish will be only the flesh of a rebel god to compose the body of the man, almost as if the clay "matter of creation" then it was transformed into flesh, the vital essence of humanity, taking a role that - among other things - is perfectly intelligible when viewed from the lens of an 'original sin' place as the foundation of life. Clay, however, are the first modeled skulls of the Neolithic. For some dead skin is removed and their face is replaced by the mask which reproduces, altering and embellishing, the features and attributes (Jericho, Palestine). Soon after, the clay statues of 'Ayn Ghazal (Jordan) are exceptional finds a coroplastics already - in a sense - statuary, which has no m

Nei miti del Vicino Oriente antico è l’argilla la materia della creazione, matrice e al tempo stesso corpo della forma, come a dire figura e sostanza della natura. Da questa, in primo luogo, la replica, la possibilità di riprodurre l’uno in molteplice, l’analogo e il simile, l’unico e il diverso. Quando però da questa metafora che risiede nel «pensiero creatore» passiamo ad osservare le proprietà dell’argilla, la nostra attenzione si ferma sulla sua essenza plastica: contempla quell’infinità di modi che assume nello spazio e nel tempo ogni grumo di terra, come se dalla zolla fosse stata concessa alla mano anche la capacità di creare, modellare, rifinire e replicare. È in questo antico ripetersi di gesti, nel loro organizzarsi, che alcuni storici dell’arte intravidero le vie delle forme e, d’altronde, da sempre le culture sono ritenute tanto più materiali quanto sono più vicine alla terra, quanto più toccano la terra, modellano la terra. Materiale – ricordiamolo – è però un termine equivoco, difficile da cogliere fuori dalla sua storiografia umana. Qualcuno (più sensibile o fortunato) lo riconosce ancora per opposizione all’ideale, altri lo colloca al grado zero di un’evoluzione, inversa, delle tecniche, ed altri ancora lo legge nelle procedure che trasformano ogni materia in espressioni dotate di significato. Nel mondo di Sumer ed Akkad, in Mesopotamia, l’argilla compare come il materiale e l’ideale d’ogni processo creativo, è – in altri termini – un’inscindibile coesistenza di valori, etiche e tecnologie che compongono immagini allusive e metaforiche, figure storiche e metastoriche. Di materia plastica – infatti – si tratta. D’altronde, sia nei testi sumerici (Imi), che in quelli akkadici (Tīd/Tu) l’argilla propriamente detta non viene distinta dal fango. È dalla superficie dell’Oceano Primordiale che, secondo la tradizione sumerica riconducibile al Poema di Enki e Ninmakh, Nammu, la dea-madre per eccellenza, estrae l’argilla da porre nella matrice del primo uomo; questa, elaborata da Enki «colui al quale appartiene il fabbricare e il produrre» (Nu.dím.mud), servirà poi per rendere l’uomo l’automa, replicabile, incaricato di servire gli dei, di procacciare loro il cibo, di placare la loro ira e di ringraziarli. In questo mito, l’animazione dell’automa affidata al soffio vitale di Ninmakh sembra divenire quasi una cura alla pigrizia di Enki, pigrizia apparentemente inconciliabile con l’ufficialità condivisa del suo primo appellativo (Enki è il saggio per eccellenza); ma forse qui è evidente come nella mitogenesi della creazione si debba ricomporre (con una vena che a noi sembra quasi ironica) ogni contraddizione: saggezza e astuzia sono i valori universali dell’intelletto, ma inventano lo sfruttamento dell’uomo. Più avanti nel tempo, nella Maledizione di Akkad, tra le invettive più impressionanti lanciate contro chi, sacrilego, ha osato ingiuriare l’Ekur di Nippur (la dimora di Enlil fondata ai primordi della creazione) comparirà quella, nefasta, secondo cui «l’argilla possa tornare nel suo Apsû e che possa, l’argilla stessa essere maledetta da Enki». In seguito, nel poema in akkadico dell’età di Hammurabi, l’Atramkhasis, la terra sarà impastata da Nintu con il sangue e la carne di un dio immolato, quasi si volesse enfatizzare l’ineluttabile «sacrificio per la vita». In ultimo, nell’Enuma Elish sarà solo la carne di un dio ribelle a comporre il corpo dell’uomo, quasi come se l’argilla «materia della creazione» si fosse poi trasfigurata in carne, nell’essenza vitale dell’umanità; assumendo un ruolo che – tra l’altro – è perfettamente intelligibile se osservato dalle lenti di un «peccato originario» posto come fondamento della vita. In argilla, comunque, sono i primi crani modellati del Neolitico. Ad alcuni defunti viene tolta la pelle e il loro volto è sostituito dalla maschera che ne riproduce, alterandoli e impreziosendoli, i lineamenti e gli attributi (Gerico, in Palestina). Poco dopo, le statue in argilla di ‘Ayn Ghazal (in Giordania) sono eccezionali ritrovamenti di una coroplastica già – in un certo senso – statuaria, che non ha proporzioni miniaturistiche, ma compare in contesti dove sono presenti figurine miniaturistiche. La maschera d’argilla che trasfigura il volto del defunto e la riproduzione in argilla che è copia del nucleo famigliare sono dunque gli archetipi (ci avrebbe ricordato Henry Frankfort) che, attraverso la modellazione plastica, imitano i segni della morte e della vita, ovvero del trapasso. Ma sono le Figurines Ophidiennes mesopotamiche della fine del periodo Ubaid a costituire il nesso tra queste nozioni teoriche, letterarie ed estetiche. Infatti, tali figurine, raccolte in un gruppo omogeneo di venti esemplari fuori contesto (ad eccezione di quelli di Ur ed Eridu associati ad alcune inumazioni) hanno una forma ibrida. La testa allungata, i grandi occhi a mandorla, le spalle larghe e la lunghezza del corpo sono indici formali costanti di una trasformazione delle proporzioni naturali del corpo umano, e lo rendono modello per una metamorfosi che, in questi casi, è stata associata all’aspetto primordiale di Ninghizzida, il serpente signore della terra e degli inferi. Ma il metamorfismo di queste figurine, la loro morfologia umana e animale non dovrebbe essere riscontrata «a posteriori»: queste forme, nei fatti, rivelano qualcosa di più che una vaga esagerazione di attributi divini o – se è preferibile – un’attenzione troppo divina a quelli umani. Il metamorfismo di questi soggetti si avvale dell’esagerazione controllata di alcuni elementi che hanno valore ideografico (il volto, gli occhi, le spalle, le gambe, le braccia). È questa alterazione che le rende è una protesi del verisimile, ed è questa medesima alterazione morfologica di dettagli che ritroviamo, intatta, nelle forme simili (mai analoghe) della coroplastica del III e del II millennio a.C. di Ebla. Sin dal periodo di Ubaid, dunque, gli elementi addizionali, plasmati, impressi e incisi sulla forma, sono il centro dell’intera figura; una sorta di ideogrammi adattati ad un modello. Queste applicazioni, impressioni e incisioni saranno tanto diffuse che da esse si potrà anche risalire all’unità semantica dell’oggetto: il sesso dell’uomo e della donna; il copricapo di un uomo o di un dio; lo strumento di un musico; la ruota di un carro; uno stendardo di rappresentanza. Che sia stata la rivoluzione agricola a fissare tempi e modalità di questa riproduzione non è un fatto da dimenticare o sottovalutare, ma ancora questa «rivoluzione dei simboli» si estende su un paesaggio crono-storico tanto vasto da rendere inopportuna la segnalazione di un epicentro storico-culturale che collochi nello spazio quest’attitudine estetica a cogliere la forma nell’integrazione e nell’aggregazione di attributi. Allo stesso modo proprio l’alta variabilità delle attribuzioni e dei soggetti rappresentati rende piuttosto equivoca ed evanescente l’ipotesi che grande parte di queste produzioni sia stata dedicata alla deità madre, alla natura feconda e ispirata dal nucleo famigliare, inteso come microcosmo dell’intera comunità. Se così fosse, infatti, perché riprodurre anche giochi, arredi, esseri ibridi e in generale anche tutto quello che esce dalla portata della sola fecondità naturale? In questa riproduzione è sempre il sesso quello che viene sottolineato, ma non la sessualità in quanto tale: l’indicazione è connotativa di uno status che, nella misura ridotta della replica, esemplifica tutte le infinite diversità del dasein (dell’esserci). È questa connotazione di uno status che ritroviamo intatta nella coroplastica Protosiriana e Paleosiriana di Ebla. Il miniaturismo, ovvero l’idea di ricondurre ogni oggetto della realtà osservata ad una misura d’osservazione, è un carattere a-storico della percezione che, proprio nelle culture del Vicino Oriente (o meglio sarebbe dire anche in quelle culture) diviene anche il segno di una vivace esperienza tattile. Le figurine Protosiriane e Paleosiriane di Ebla costruiscono un mondo di soggetti specifici, diversificato, nel quale sono recuperabili anche classi simili, eppure mai identiche. Infatti, la modellazione manuale dell’argilla, come tecnica di manipolazione plastica della terra cruda, preesiste alla riproduzione ed elabora il modello che sarà replicato in serie. Queste serie uniformi non riguardano, tuttavia, solo le produzioni di figurine fittili femminili, maschili o animali; seriali sembrano essere anche alcune loro rotture. In alcuni casi, queste sono palesemente dovute a fattori di rotolamento post-deposizionali: l’argilla semicruda, ben essiccata o cotta rotola nella terra e si spezza nelle parti più deboli, meno coese e consolidate delle attaccature, delle appendici, delle applicazioni. Ma la forte regolarità di alcune fratture mostra che alcuni esemplari furono spezzati intenzionalmente, d’un solo colpo, e – se così fosse – la nostra comune, radicata, convinzione ci indurrebbe considerare alcune rotture come azioni apotropaiche, forse di consacrazione e donazione. È però anche semplicistico additare ogni peculiare rottura ad una richiesta, ad un’offerta, ad una domanda applicando il concetto dell’ex voto ad una dimensione rituale così lontana dal mondo classico, così come è improprio imputare ogni rottura di questi oggetti al determinismo stratigrafico. Nel periodo Uruk, con la «Rivoluzione Urbana», il numero e la variabilità delle figurine in argilla aumenta, mentre l’ibridismo riscontrato nei modelli Halaf ed Ubaid si attenua; inoltre, nel corpus di Warka, si notano tre tendenze: la rappresentazione è visibilmente naturalistica, le categorie modellate attengono alle sfere divise dell’umano, dell’animale e del vegetale; la realizzazione delle forme maschili e femminili sembra elaborata su modelli condivisi. Queste tendenze ci offrono, ora, un palinsesto estetico delle forze produttive connesse alle «Grandi Amministrazioni»: mentre emerge una sorta di condizionamento imposto al forte ibridismo presente negli esemplari dei periodi Halaf ed Ubaid, le riproduzioni di soggetti umani e animali vengono miniaturizzate con un naturalismo che ne mantiene volumi e proporzioni. All’astrazione di segni agglutinati, incisi e dipinti sui modelli schematici e ibridi della coroplastica pre-urbana, segue la composizione di forme imitate dalla realtà umana e naturale, tanto più dettagliate e inequivocabili poiché certamente espressione di una modalità politica e amministrativa che è incentrata sul calcolo e sulla memoria. Tale realtà cambia, invece, nuovamente con il deflagrare del controllo politico centralizzato esercitato da Warka, agli inizi del periodo Protodinastico, quando – non a caso – riaffiora il metamorfismo delle fasi pre-urbane, riconoscibile ora anche in peculiarità e varianti regionali. Ancora una volta proliferano le figure maschili, femminili e divine; ma in questa estetica dell’urbanesimo cosiddetto secondario, che contraddistingue anche i repertori della statuaria polimaterica Protodinastica e Protosiriana, coesistono sia una tendenza alla riproduzione naturalistica delle forme, che una al mantenimento della loro natura ideografica. È in questo medesimo periodo, d’altronde, che si moltiplicano e diffondono notevolmente alcune classi di materiali che non rappresentano, ma seguono un progetto compositivo: ingranaggi semoventi; arredi sacri, carri da guerra, incensieri con ruote sono esemplari nei quali l’argilla materia della creazione è divenuta elemento dell’automazione. I carri Protodinastici, Protosirani e poi Paleosiriani sono paradigmatici in tal senso. Trattasi di miniature mobili e multisensoriali, che implementano funzioni tattili, visive e olfattive. Ognuno di questi meccanismi si muove per effetto dell’azione umana, ma nasce dall’integrazione armonica di parti meccaniche (ruote, mozzi, carene, tiranti). Spesso le carenature sono decorate con attributi specifici (incisi, applicati e integrati) che esibiscono la complessità di un progetto unitario, della sua copia, o della sua simulazione. Un progetto che nasce dall’adozione di modelli e dall’agglutinazione coerente di elementi, incisioni, decorazioni. È complesso risalire alle logiche funzionali della coroplastica Protosiriana e Paleosiriana, ma come abbiamo ricordato alcuni soggetti furono creati per essere segnati, infranti, spezzati e incisi; altri, verosimilmente, per essere donati; altri ancora – forse – come miniaturizzazione, istintiva o progettata, per la costruzione di una copia tecnicamente controllabile del contemporaneo. In alcuni casi è evidente il tentativo, l’auspicio o l’attesa di imitare un naturale e un sovrannaturale controllabile dalla mano umana; in altri è ineludibile il desiderio di replicare, attraverso la materia della creazione, unica capace di animarle in potenza, modelli culturali, istituzioni politiche, forme amministrative della realtà. La manipolazione dell’argilla in forme minute che riproducono l’osservato, il pensato, l’atteso è dunque un gesto intimo, talora corale e talaltra segreto, capace di animare la realtà artificialmente e di destinarla al senso estetico, percettivo e culturale dell’abitante comune, né artigiano, né professionista, né artista. In questa dimensione, la variazione di piccoli dettagli moltiplica la ricchezza di ogni produzione omogenea; del canone rimane molto spesso solo la forma elementare, mentre gli elementi applicati, le rotazioni degli arti, le aggiunte, le incisioni, le discrepanze, le asimmetrie e le incongruenze ci riportano sempre all’azione o all’interpretazione dell’esecutore e divengono una sorta di supporto per scritture non verbali (o verbali, ancora incomprese). Il nostro rapporto cognitivo preliminare su questa classe di materiali si è avvalso dei concetti sumerici dell’argilla come «materia della creazione» e dell’argilla come «materia della modellazione». Questi peculiari caratteri mesopotamici, letterari ed estetici contribuiranno decisamente alla formazione della coroplastica siriana del III millennio a.C. Ad Ebla, infatti, riconosciamo una forte analogia tra i modelli più arcaici dell’urbanizzazione cosiddetta secondaria e le forme di coroplastica Protosiriana. In particolare, tra i due gruppi, esistono analogie tecnologiche ed estetiche: la modellazione manuale dei modelli è la stessa, mentre le loro incisioni, le applicazioni, le integrazioni sembrano mantenere un carattere che abbiamo definito ideografico e che, contestualmente, viene esibito anche nella statuaria miniaturistica contemporanea. Tuttavia, contrariamente alla preziosissima statuaria polimaterica e miniaturistica Protosiriana (i cui confronti sono certo da tracciare con i capolavori del cimitero reale di Ur) nella coroplastica eblaita noi ritroviamo archetipi, modelli, ideogrammi di un più antico linguaggio percettivo, tradotto e commutato in sintesi formali locali, originali, spesso esito di interpretazioni soggettive e corali della realtà, ma anche segno ineludibile di uno sguardo umano che il «senso comune» esprimeva fuori dall’istruzione politica e ideologica della committenza reale. In questo senso specifico la modellazione plastica della «materia della creazione» è divenuta una sorta di protesi della realtà osservata che l’esecutore, fuori dalle suggestioni di un’improbabile (o comunque non scritta, né verificabile) committenza, è riuscito ad immaginare nell’argilla, e non avrebbe potuto farlo in altri materiali. Nel periodo Paleosiriano osserviamo una forte diminuzione dell’alta variabilità di soggetti modellati nel Bronzo Antico, una decisa formalizzazione dei modelli più noti, un assoluto incremento del numero delle attestazioni. Questa massificazione della produzione ben si iscrive in una città nella quale sono presenti ben cinque luoghi di culto e altrettanti edifici palatini, una città nella quale è stata evidentemente imposta una decisa formalizzazione dei riti e che, contestualmente, esprime anche una tradizione coroplastica fortemente condizionata. Il miniaturismo delle preziose composizioni agglutinate del BA lascia il posto a figure più sottili, fortemente modellate che – in alcuni casi – spiccano per essere oggetti raffinatissimi d’alto artigianato. Allo stesso tempo le rotture divengono così frequenti che possiamo certo ipotizzare avessero assolto un ruolo nell’azione di scarto, donazione, devozione e previsione che – nei fatti – è ben documentata in tutto il periodo paleobabilonese. Al nostro sguardo, contemporaneo, così immerso nel paesaggio visivo, manipolabile e percettivo del virtuale, di ciò che è in potenza nella natura (virtualis), questo mondo plastico e miniaturistico, quasi un calco approssimato al verosimile, ci appare lontano, pervaso da astrazioni e incongruenze di ogni genere. Tuttavia, il suo anacronismo, il suo metamorfismo e il suo ibridismo esprimono ancora, e con forza, i segni di una dirompente continuità tattile tra la vita e la morte, tra il simile e il diverso, tra il presente e il passato: una continuità vissuta negli archetipi estetici e letterari della «materia della creazione» ed elaborata in moltissime, sempre inattese, forme.

Le figurine fittili di Ebla nelle fasi del BMI-II. Il ‘corpus’ documentario riferito alle annate di scavo 1981-2008 / Ramazzotti, Marco. - (In corso di stampa).

Le figurine fittili di Ebla nelle fasi del BMI-II. Il ‘corpus’ documentario riferito alle annate di scavo 1981-2008.

RAMAZZOTTI, Marco
In corso di stampa

Abstract

In the myths of the ancient Near East is the matter of creating the clay matrix and at the same time the body of the form, as if to say shape and substance of nature. From this, in the first place, the replication, the ability to play the one in the manifold, the analog and the like, the one and the other. When, however, by this metaphor that resides in the "creative thought" let us look at the properties of the clay, our focus is steadfast in its essence plastic: split up into that infinity of ways that takes in space and time every lump of earth, as if the plate had been granted to the hand also the ability to create, model, refine and replicate. It is in this ancient repetition of gestures, in their organized, that some art historians glimpsed through the streets of forms and, moreover, always the cultures are considered much more materials as they are closer to the earth, as much as touch the ground , shape the earth. Material - let us remember - but is equivocal, difficult to pick out from its human history. Someone (more sensitive or lucky) it still recognizes as opposed to the ideal, the other puts it at zero degree of evolution, inverse, techniques, and others in the legal procedures that transform each subject in expressions with meaning. In the world of Sumer and Akkad, Mesopotamia, clay appears as the material and the ideal of every creative process is - in other words - an inseparable co-existence of values, ethics and technologies that make images allusive and metaphorical, and meta-historical figures. Plastic - in fact - it is. On the other hand, both in Sumerian texts (Imi), than in Akkadian (T? D / Tu) the clay itself is not distinguished from the mud. It is from the surface of the Primordial Ocean, according to the tradition due to the Sumerian poem of Enki and Ninmakh, Nammu, the goddess-mother par excellence, pull the clay to be placed in the matrix of the first man, and this, drawn by Enki "one to which belongs to the manufacture and produce "(Nu.dím.mud), then serve to make man the automaton, replicable, in charge of serving the gods, to procure their food, to appease their wrath and thank them. In this myth, the animation of the automaton entrusted to the vital breath of Ninmakh seems to become almost a cure Enki to laziness, sloth apparently irreconcilable with the official shared his first name (Enki is the sage par excellence), but perhaps here as is evident in the mitogenesis of creation should recompose (with a vein which to us seems almost ironic) any contradiction: wisdom and cunning are the universal values ​​of the intellect, but invent the exploitation of man. Later in time, the Curse of Akkad, one of the most impressive invectives hurled at those who, sacrilegious, dared to insult the E-kur of Nippur (the abode of Enlil was founded at the dawn of creation) that will appear, harmful, according to which 'l' Clay can return to his Apsû and that it can, the clay itself be cursed by Enki. " Later, in Akkadian poem in the age of Hammurabi, the Atramkhasis, the earth will be kneaded by Nintu with the flesh and blood of a slain god, you wanted to emphasize the almost inevitable 'sacrifice for life. " Finally, nell'Enuma Elish will be only the flesh of a rebel god to compose the body of the man, almost as if the clay "matter of creation" then it was transformed into flesh, the vital essence of humanity, taking a role that - among other things - is perfectly intelligible when viewed from the lens of an 'original sin' place as the foundation of life. Clay, however, are the first modeled skulls of the Neolithic. For some dead skin is removed and their face is replaced by the mask which reproduces, altering and embellishing, the features and attributes (Jericho, Palestine). Soon after, the clay statues of 'Ayn Ghazal (Jordan) are exceptional finds a coroplastics already - in a sense - statuary, which has no m
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Nei miti del Vicino Oriente antico è l’argilla la materia della creazione, matrice e al tempo stesso corpo della forma, come a dire figura e sostanza della natura. Da questa, in primo luogo, la replica, la possibilità di riprodurre l’uno in molteplice, l’analogo e il simile, l’unico e il diverso. Quando però da questa metafora che risiede nel «pensiero creatore» passiamo ad osservare le proprietà dell’argilla, la nostra attenzione si ferma sulla sua essenza plastica: contempla quell’infinità di modi che assume nello spazio e nel tempo ogni grumo di terra, come se dalla zolla fosse stata concessa alla mano anche la capacità di creare, modellare, rifinire e replicare. È in questo antico ripetersi di gesti, nel loro organizzarsi, che alcuni storici dell’arte intravidero le vie delle forme e, d’altronde, da sempre le culture sono ritenute tanto più materiali quanto sono più vicine alla terra, quanto più toccano la terra, modellano la terra. Materiale – ricordiamolo – è però un termine equivoco, difficile da cogliere fuori dalla sua storiografia umana. Qualcuno (più sensibile o fortunato) lo riconosce ancora per opposizione all’ideale, altri lo colloca al grado zero di un’evoluzione, inversa, delle tecniche, ed altri ancora lo legge nelle procedure che trasformano ogni materia in espressioni dotate di significato. Nel mondo di Sumer ed Akkad, in Mesopotamia, l’argilla compare come il materiale e l’ideale d’ogni processo creativo, è – in altri termini – un’inscindibile coesistenza di valori, etiche e tecnologie che compongono immagini allusive e metaforiche, figure storiche e metastoriche. Di materia plastica – infatti – si tratta. D’altronde, sia nei testi sumerici (Imi), che in quelli akkadici (Tīd/Tu) l’argilla propriamente detta non viene distinta dal fango. È dalla superficie dell’Oceano Primordiale che, secondo la tradizione sumerica riconducibile al Poema di Enki e Ninmakh, Nammu, la dea-madre per eccellenza, estrae l’argilla da porre nella matrice del primo uomo; questa, elaborata da Enki «colui al quale appartiene il fabbricare e il produrre» (Nu.dím.mud), servirà poi per rendere l’uomo l’automa, replicabile, incaricato di servire gli dei, di procacciare loro il cibo, di placare la loro ira e di ringraziarli. In questo mito, l’animazione dell’automa affidata al soffio vitale di Ninmakh sembra divenire quasi una cura alla pigrizia di Enki, pigrizia apparentemente inconciliabile con l’ufficialità condivisa del suo primo appellativo (Enki è il saggio per eccellenza); ma forse qui è evidente come nella mitogenesi della creazione si debba ricomporre (con una vena che a noi sembra quasi ironica) ogni contraddizione: saggezza e astuzia sono i valori universali dell’intelletto, ma inventano lo sfruttamento dell’uomo. Più avanti nel tempo, nella Maledizione di Akkad, tra le invettive più impressionanti lanciate contro chi, sacrilego, ha osato ingiuriare l’Ekur di Nippur (la dimora di Enlil fondata ai primordi della creazione) comparirà quella, nefasta, secondo cui «l’argilla possa tornare nel suo Apsû e che possa, l’argilla stessa essere maledetta da Enki». In seguito, nel poema in akkadico dell’età di Hammurabi, l’Atramkhasis, la terra sarà impastata da Nintu con il sangue e la carne di un dio immolato, quasi si volesse enfatizzare l’ineluttabile «sacrificio per la vita». In ultimo, nell’Enuma Elish sarà solo la carne di un dio ribelle a comporre il corpo dell’uomo, quasi come se l’argilla «materia della creazione» si fosse poi trasfigurata in carne, nell’essenza vitale dell’umanità; assumendo un ruolo che – tra l’altro – è perfettamente intelligibile se osservato dalle lenti di un «peccato originario» posto come fondamento della vita. In argilla, comunque, sono i primi crani modellati del Neolitico. Ad alcuni defunti viene tolta la pelle e il loro volto è sostituito dalla maschera che ne riproduce, alterandoli e impreziosendoli, i lineamenti e gli attributi (Gerico, in Palestina). Poco dopo, le statue in argilla di ‘Ayn Ghazal (in Giordania) sono eccezionali ritrovamenti di una coroplastica già – in un certo senso – statuaria, che non ha proporzioni miniaturistiche, ma compare in contesti dove sono presenti figurine miniaturistiche. La maschera d’argilla che trasfigura il volto del defunto e la riproduzione in argilla che è copia del nucleo famigliare sono dunque gli archetipi (ci avrebbe ricordato Henry Frankfort) che, attraverso la modellazione plastica, imitano i segni della morte e della vita, ovvero del trapasso. Ma sono le Figurines Ophidiennes mesopotamiche della fine del periodo Ubaid a costituire il nesso tra queste nozioni teoriche, letterarie ed estetiche. Infatti, tali figurine, raccolte in un gruppo omogeneo di venti esemplari fuori contesto (ad eccezione di quelli di Ur ed Eridu associati ad alcune inumazioni) hanno una forma ibrida. La testa allungata, i grandi occhi a mandorla, le spalle larghe e la lunghezza del corpo sono indici formali costanti di una trasformazione delle proporzioni naturali del corpo umano, e lo rendono modello per una metamorfosi che, in questi casi, è stata associata all’aspetto primordiale di Ninghizzida, il serpente signore della terra e degli inferi. Ma il metamorfismo di queste figurine, la loro morfologia umana e animale non dovrebbe essere riscontrata «a posteriori»: queste forme, nei fatti, rivelano qualcosa di più che una vaga esagerazione di attributi divini o – se è preferibile – un’attenzione troppo divina a quelli umani. Il metamorfismo di questi soggetti si avvale dell’esagerazione controllata di alcuni elementi che hanno valore ideografico (il volto, gli occhi, le spalle, le gambe, le braccia). È questa alterazione che le rende è una protesi del verisimile, ed è questa medesima alterazione morfologica di dettagli che ritroviamo, intatta, nelle forme simili (mai analoghe) della coroplastica del III e del II millennio a.C. di Ebla. Sin dal periodo di Ubaid, dunque, gli elementi addizionali, plasmati, impressi e incisi sulla forma, sono il centro dell’intera figura; una sorta di ideogrammi adattati ad un modello. Queste applicazioni, impressioni e incisioni saranno tanto diffuse che da esse si potrà anche risalire all’unità semantica dell’oggetto: il sesso dell’uomo e della donna; il copricapo di un uomo o di un dio; lo strumento di un musico; la ruota di un carro; uno stendardo di rappresentanza. Che sia stata la rivoluzione agricola a fissare tempi e modalità di questa riproduzione non è un fatto da dimenticare o sottovalutare, ma ancora questa «rivoluzione dei simboli» si estende su un paesaggio crono-storico tanto vasto da rendere inopportuna la segnalazione di un epicentro storico-culturale che collochi nello spazio quest’attitudine estetica a cogliere la forma nell’integrazione e nell’aggregazione di attributi. Allo stesso modo proprio l’alta variabilità delle attribuzioni e dei soggetti rappresentati rende piuttosto equivoca ed evanescente l’ipotesi che grande parte di queste produzioni sia stata dedicata alla deità madre, alla natura feconda e ispirata dal nucleo famigliare, inteso come microcosmo dell’intera comunità. Se così fosse, infatti, perché riprodurre anche giochi, arredi, esseri ibridi e in generale anche tutto quello che esce dalla portata della sola fecondità naturale? In questa riproduzione è sempre il sesso quello che viene sottolineato, ma non la sessualità in quanto tale: l’indicazione è connotativa di uno status che, nella misura ridotta della replica, esemplifica tutte le infinite diversità del dasein (dell’esserci). È questa connotazione di uno status che ritroviamo intatta nella coroplastica Protosiriana e Paleosiriana di Ebla. Il miniaturismo, ovvero l’idea di ricondurre ogni oggetto della realtà osservata ad una misura d’osservazione, è un carattere a-storico della percezione che, proprio nelle culture del Vicino Oriente (o meglio sarebbe dire anche in quelle culture) diviene anche il segno di una vivace esperienza tattile. Le figurine Protosiriane e Paleosiriane di Ebla costruiscono un mondo di soggetti specifici, diversificato, nel quale sono recuperabili anche classi simili, eppure mai identiche. Infatti, la modellazione manuale dell’argilla, come tecnica di manipolazione plastica della terra cruda, preesiste alla riproduzione ed elabora il modello che sarà replicato in serie. Queste serie uniformi non riguardano, tuttavia, solo le produzioni di figurine fittili femminili, maschili o animali; seriali sembrano essere anche alcune loro rotture. In alcuni casi, queste sono palesemente dovute a fattori di rotolamento post-deposizionali: l’argilla semicruda, ben essiccata o cotta rotola nella terra e si spezza nelle parti più deboli, meno coese e consolidate delle attaccature, delle appendici, delle applicazioni. Ma la forte regolarità di alcune fratture mostra che alcuni esemplari furono spezzati intenzionalmente, d’un solo colpo, e – se così fosse – la nostra comune, radicata, convinzione ci indurrebbe considerare alcune rotture come azioni apotropaiche, forse di consacrazione e donazione. È però anche semplicistico additare ogni peculiare rottura ad una richiesta, ad un’offerta, ad una domanda applicando il concetto dell’ex voto ad una dimensione rituale così lontana dal mondo classico, così come è improprio imputare ogni rottura di questi oggetti al determinismo stratigrafico. Nel periodo Uruk, con la «Rivoluzione Urbana», il numero e la variabilità delle figurine in argilla aumenta, mentre l’ibridismo riscontrato nei modelli Halaf ed Ubaid si attenua; inoltre, nel corpus di Warka, si notano tre tendenze: la rappresentazione è visibilmente naturalistica, le categorie modellate attengono alle sfere divise dell’umano, dell’animale e del vegetale; la realizzazione delle forme maschili e femminili sembra elaborata su modelli condivisi. Queste tendenze ci offrono, ora, un palinsesto estetico delle forze produttive connesse alle «Grandi Amministrazioni»: mentre emerge una sorta di condizionamento imposto al forte ibridismo presente negli esemplari dei periodi Halaf ed Ubaid, le riproduzioni di soggetti umani e animali vengono miniaturizzate con un naturalismo che ne mantiene volumi e proporzioni. All’astrazione di segni agglutinati, incisi e dipinti sui modelli schematici e ibridi della coroplastica pre-urbana, segue la composizione di forme imitate dalla realtà umana e naturale, tanto più dettagliate e inequivocabili poiché certamente espressione di una modalità politica e amministrativa che è incentrata sul calcolo e sulla memoria. Tale realtà cambia, invece, nuovamente con il deflagrare del controllo politico centralizzato esercitato da Warka, agli inizi del periodo Protodinastico, quando – non a caso – riaffiora il metamorfismo delle fasi pre-urbane, riconoscibile ora anche in peculiarità e varianti regionali. Ancora una volta proliferano le figure maschili, femminili e divine; ma in questa estetica dell’urbanesimo cosiddetto secondario, che contraddistingue anche i repertori della statuaria polimaterica Protodinastica e Protosiriana, coesistono sia una tendenza alla riproduzione naturalistica delle forme, che una al mantenimento della loro natura ideografica. È in questo medesimo periodo, d’altronde, che si moltiplicano e diffondono notevolmente alcune classi di materiali che non rappresentano, ma seguono un progetto compositivo: ingranaggi semoventi; arredi sacri, carri da guerra, incensieri con ruote sono esemplari nei quali l’argilla materia della creazione è divenuta elemento dell’automazione. I carri Protodinastici, Protosirani e poi Paleosiriani sono paradigmatici in tal senso. Trattasi di miniature mobili e multisensoriali, che implementano funzioni tattili, visive e olfattive. Ognuno di questi meccanismi si muove per effetto dell’azione umana, ma nasce dall’integrazione armonica di parti meccaniche (ruote, mozzi, carene, tiranti). Spesso le carenature sono decorate con attributi specifici (incisi, applicati e integrati) che esibiscono la complessità di un progetto unitario, della sua copia, o della sua simulazione. Un progetto che nasce dall’adozione di modelli e dall’agglutinazione coerente di elementi, incisioni, decorazioni. È complesso risalire alle logiche funzionali della coroplastica Protosiriana e Paleosiriana, ma come abbiamo ricordato alcuni soggetti furono creati per essere segnati, infranti, spezzati e incisi; altri, verosimilmente, per essere donati; altri ancora – forse – come miniaturizzazione, istintiva o progettata, per la costruzione di una copia tecnicamente controllabile del contemporaneo. In alcuni casi è evidente il tentativo, l’auspicio o l’attesa di imitare un naturale e un sovrannaturale controllabile dalla mano umana; in altri è ineludibile il desiderio di replicare, attraverso la materia della creazione, unica capace di animarle in potenza, modelli culturali, istituzioni politiche, forme amministrative della realtà. La manipolazione dell’argilla in forme minute che riproducono l’osservato, il pensato, l’atteso è dunque un gesto intimo, talora corale e talaltra segreto, capace di animare la realtà artificialmente e di destinarla al senso estetico, percettivo e culturale dell’abitante comune, né artigiano, né professionista, né artista. In questa dimensione, la variazione di piccoli dettagli moltiplica la ricchezza di ogni produzione omogenea; del canone rimane molto spesso solo la forma elementare, mentre gli elementi applicati, le rotazioni degli arti, le aggiunte, le incisioni, le discrepanze, le asimmetrie e le incongruenze ci riportano sempre all’azione o all’interpretazione dell’esecutore e divengono una sorta di supporto per scritture non verbali (o verbali, ancora incomprese). Il nostro rapporto cognitivo preliminare su questa classe di materiali si è avvalso dei concetti sumerici dell’argilla come «materia della creazione» e dell’argilla come «materia della modellazione». Questi peculiari caratteri mesopotamici, letterari ed estetici contribuiranno decisamente alla formazione della coroplastica siriana del III millennio a.C. Ad Ebla, infatti, riconosciamo una forte analogia tra i modelli più arcaici dell’urbanizzazione cosiddetta secondaria e le forme di coroplastica Protosiriana. In particolare, tra i due gruppi, esistono analogie tecnologiche ed estetiche: la modellazione manuale dei modelli è la stessa, mentre le loro incisioni, le applicazioni, le integrazioni sembrano mantenere un carattere che abbiamo definito ideografico e che, contestualmente, viene esibito anche nella statuaria miniaturistica contemporanea. Tuttavia, contrariamente alla preziosissima statuaria polimaterica e miniaturistica Protosiriana (i cui confronti sono certo da tracciare con i capolavori del cimitero reale di Ur) nella coroplastica eblaita noi ritroviamo archetipi, modelli, ideogrammi di un più antico linguaggio percettivo, tradotto e commutato in sintesi formali locali, originali, spesso esito di interpretazioni soggettive e corali della realtà, ma anche segno ineludibile di uno sguardo umano che il «senso comune» esprimeva fuori dall’istruzione politica e ideologica della committenza reale. In questo senso specifico la modellazione plastica della «materia della creazione» è divenuta una sorta di protesi della realtà osservata che l’esecutore, fuori dalle suggestioni di un’improbabile (o comunque non scritta, né verificabile) committenza, è riuscito ad immaginare nell’argilla, e non avrebbe potuto farlo in altri materiali. Nel periodo Paleosiriano osserviamo una forte diminuzione dell’alta variabilità di soggetti modellati nel Bronzo Antico, una decisa formalizzazione dei modelli più noti, un assoluto incremento del numero delle attestazioni. Questa massificazione della produzione ben si iscrive in una città nella quale sono presenti ben cinque luoghi di culto e altrettanti edifici palatini, una città nella quale è stata evidentemente imposta una decisa formalizzazione dei riti e che, contestualmente, esprime anche una tradizione coroplastica fortemente condizionata. Il miniaturismo delle preziose composizioni agglutinate del BA lascia il posto a figure più sottili, fortemente modellate che – in alcuni casi – spiccano per essere oggetti raffinatissimi d’alto artigianato. Allo stesso tempo le rotture divengono così frequenti che possiamo certo ipotizzare avessero assolto un ruolo nell’azione di scarto, donazione, devozione e previsione che – nei fatti – è ben documentata in tutto il periodo paleobabilonese. Al nostro sguardo, contemporaneo, così immerso nel paesaggio visivo, manipolabile e percettivo del virtuale, di ciò che è in potenza nella natura (virtualis), questo mondo plastico e miniaturistico, quasi un calco approssimato al verosimile, ci appare lontano, pervaso da astrazioni e incongruenze di ogni genere. Tuttavia, il suo anacronismo, il suo metamorfismo e il suo ibridismo esprimono ancora, e con forza, i segni di una dirompente continuità tattile tra la vita e la morte, tra il simile e il diverso, tra il presente e il passato: una continuità vissuta negli archetipi estetici e letterari della «materia della creazione» ed elaborata in moltissime, sempre inattese, forme.
03 Monografia::03a Saggio, Trattato Scientifico
Le figurine fittili di Ebla nelle fasi del BMI-II. Il ‘corpus’ documentario riferito alle annate di scavo 1981-2008 / Ramazzotti, Marco. - (In corso di stampa).
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