Preface by PAUL MATTHIAEIn a history of research and archaeological theory, as conventional schematic can be any fictitious periodization, a place of absolute importance was the publication in 1968 of Analytical Archaeology DL Clarke in taking consciousness of the discipline as historically evolved in modern times, in the development of innovative methodologies that could unfolding from the comparison with other disciplines, provided the impulse vigorously to become a science in the past on the basis of rigorous model of the natural sciences, the task of freeing the archeology from bondage to ideological and political, of course, the lure of becoming science. That memorable essay that laid the foundation of systems theory to the proposal for a profound renewal of both the theoretical aspects and the practical procedures of the discipline of archeology, appeared in Italian translation initiative of the writer in 1998, only thirty years after it had been translated into several of the major European languages ​​and had more than a reprint after the original edition of Oxford. In the English-speaking world since that fateful 1968 began to blow a rushing wind and irreverent that it intended to overwhelm and bury the "old archeology" in the name of a "new archeology", as ambitious as presumptuous, youthfully believed to possess an undeniable truth: the old archeology , enclosed within itself and incapable of any interdisciplinary dialogue, it was dedicated only to classify artifacts, in space and time, without understanding and explaining anything, while the new archeology, open to every experience and every contamination interdisciplinary, based on precisely methods derived from other disciplines, just to interpret and understand was intended purpose as most, if not unique. Graphically it was stated that until then archeology, studying the material evidence of the past, it was only post the questions "where?" And "when?", And since the questions were mainly "how?", "Because ? "," by whom? ". On the one hand, the aim of the new archeology men of the past subject of archaeological study no longer had to be blurred and indistinct shadows of humanity idealized, devoid of any specificity, but real men, in the round, of flesh and blood , a reality that was to emerge strongly in all its concreteness economic, social, ideological, in a word, human. On the other hand, pervaded the minds of the protagonists of the new spirited archeology unshakable confidence that the science of archeology, by virtue of the miraculous contamination with other disciplines, would become a science, because of the hard sciences would take the principles, procedures, methods: there would never be anything questionable or debatable, but it would have established itself as a prime historical discipline, based on fundamentals mathematically measured and therefore incontestable. This neopositivist proud presumption, which was defined naively ahistorical and anachronistic, has not held up to more mature reflections and rapidly revealed its inherent weakness, causing the contemporary followers of the new archeology rethinking critical, sometimes radical, who had the As a result of the need for a large opening contamination much more extensive, less dogmatically oriented towards the exact sciences and more duttilmente available to science umane.L 'essential element of renewal that shook the traditional archeology of those years was, in fact, , so to speak, in the desire of confrontation and contamination between disciplines, the willingness to accept the methods hitherto ignored in the awareness of the complexity of the issues involved. The prehistoric archeology in Europe and one in pre-Columbian America became, unexpectedly, the protagonists of renewal, fired the first, in a more sophisticated and articulate, especially the influence of the economic history often Marxi

PREFAZIONE di PAOLO MATTHIAE In una storia della ricerca e della teoria archeologica, per quanto convenzionale, schematica e fittizia possa essere ogni periodizzazione, un posto di assoluto rilievo ha avuto la pubblicazione nel 1968 di Analytical Archaeology di D.L. Clarke nell’assunzione di coscienza della disciplina come storicamente si è evoluta nei tempi moderni, nello sviluppo delle metodologie innovative che potevano dischiudersi dal confronto con altri campi disciplinari, nell’impulso vigorosamente fornito a divenire una scienza del passato a fondamento rigoroso sul modello delle scienze naturali, nella prospettiva di liberare l’archeologia da servitù ideologiche e politiche verso, appunto, il miraggio di divenire scienza. Quel memorabile saggio che poneva la teoria dei sistemi a fondamento della proposta di un profondo rinnovamento sia degli aspetti teorici che delle procedure pratiche della disciplina archeologica, apparve in traduzione italiana per iniziativa di chi scrive solo nel 1998, trenta anni dopo che era stato tradotto in diverse tra le maggiori lingue europee e aveva avuto più di una ristampa dopo l’originaria edizione di Oxford. Nel mondo anglosassone da quel fatidico 1968 cominciò a spirare un impetuoso e irriverente vento che intendeva travolgere e sotterrare la “vecchia archeologia” in nome di una “nuova archeologia”, tanto ambiziosa quanto presuntuosa, giovanilmente convinta di possedere una verità inoppugnabile: la vecchia archeologia, racchiusa in se stessa e incapace di ogni dialogo interdisciplinare, si era dedicata solo a classificare manufatti, nello spazio e nel tempo, senza comprendere e spiegare alcunché, mentre la nuova archeologia, aperta ad ogni esperienza e ad ogni contaminazione interdisciplinare, sulla base appunto di metodi dedotti da altri ambiti disciplinari, proprio di interpretare e di comprendere si prefiggeva come scopo massimo, se non unico. Icasticamente è stato affermato che fino ad allora l’archeologia, studiando le testimonianze materiali del passato, si era posta soltanto i quesiti “dove?” e “quando?”, mentre da allora gli interrogativi sono stati soprattutto “come?”, “perché?”, “ad opera di chi?”. Da un lato, nell’intento della nuova archeologia gli uomini del passato oggetto dello studio archeologico non dovevano più essere labili ombre di un’umanità indistinta e idealizzata, priva di qualunque specificità, bensì uomini veri, a tutto tondo, di carne e di sangue, di una realtà che doveva emergere prepotentemente in tutta la sua concretezza economica, sociale, ideologica, in una parola, umana. Dall’altro lato, pervadeva le menti degli animosi protagonisti della nuova archeologia un’incrollabile fiducia che la scienza archeologica, in virtù della miracolosa contaminazione con altre discipline, sarebbe divenuta una scienza, perché delle scienze dure avrebbe assunto i principi, le procedure, i metodi: non sarebbe stata mai più qualcosa di opinabile o di discutibile, ma si sarebbe affermata come una disciplina storica privilegiata, basata su fondamenti matematicamente misurati e pertanto incontestabili. Questa orgogliosa presunzione neopositivistica, che è stata definita ingenuamente antistorica ed attardata, non ha retto a riflessioni più mature e ha presto rivelato la sua intrinseca debolezza, inducendo i contemporanei epigoni di quella nuova archeologia a ripensamenti critici, talora anche radicali, che hanno avuto la conseguenza di un’apertura ampia all’esigenza di contaminazioni molto più estese, meno dogmaticamente orientate verso le scienze esatte e più duttilmente disponibili verso le scienze umane. L’elemento essenziale del rinnovamento che scosse l’archeologia tradizionale di quegli anni era, in effetti, per dir così, nel desiderio di confronto e di contaminazione tra le discipline, nella disponibilità ad accogliere metodi fino ad allora ignorati, nella consapevolezza della complessità delle problematiche da affrontare. L’archeologia preistorica in Europa e quella precolombiana in America divennero, inaspettatamente, protagoniste del rinnovamento, alimentate la prima, in forme più sofisticate e articolate, soprattutto dall’influenza della storia economica spesso di ispirazione marxista, e la seconda dalle suggestioni della sociologia, con una forte tendenza, in ambedue i casi a porre in primo piano nello studio del passato l’economia e la società, o la società e l’economia, e in secondo piano le forme dell’ideologia. Una conseguenza sostanziale di queste impostazioni fu la preminenza che assunse nella ricostruzione archeologica, il momento della generalizzazione dei modelli, degli schemi e delle formule interpretative rispetto a quello della ricerca sulla specificità delle culture, con rischi devastanti, al di là del fascino di interpretazioni che sembravano restituire come d’incanto tutti i tasselli essenziali mancanti nel grande e lacunoso mosaico del quadro del passato da ricomporre, di schematizzazioni, di appiattimenti, di omogeneizzazioni arbitrarie e astoriche. La più pensosa archeologia francese si volgeva, negli stessi anni, alla ricostruzione del passato tentando accortamente di evitare determinismi scientistici e astratte generalizzazioni sul fondamento di un saldo ancoraggio allo strutturalismo, inteso, tra l’altro, saggiamente come strumento per non perdere di vista l’infinita varietà delle culture e la loro multiforme quanto sfuggente individualità. Le suggestioni metodologiche delle aperture di Clarke, invece, nel mondo anglosassone inducevano ad esplorare percorsi più arditi e complessi, sempre il più possibile orientati alla ricerca di un ancoraggio scientifico, rimasto a lungo un miraggio irraggiungibile, tra i concetti di complessità organica, di sistemi matematici, di modelli analitici, di simulazioni adattive. Nel mondo dell’archeologia germanica ed italiana, in modi in qualche modo paralleli, sempre in quegli stessi anni, da un lato, il diversamente poderoso predominio dell’archeologia classica lasciava poco spazio non solo alla sperimentazione delle forme di critica e di interpretazione che quelle certo memorabili aperture metodologiche suggerivano e, dall’altro, imponeva percorsi diversi al rinnovamento, soprattutto in Italia, molto acutamente e quasi dolorosamente, avvertito come necessità della disciplina archeologica. Questi percorsi, che furono perseguiti con vivace e ardito impegno da un gruppo di giovani studiosi di solida preparazione teorica e di grande acume critico, portarono in Italia, in cui, peraltro, ci si attardava a dibattere il dilemma fuorviante dell’alternativa tra archeologia della cultura materiale e archeologia della storia dell’arte, ad un sostanziale rinnovamento di metodo che poneva in primo piano una sostanziale interpretazione storica a tutto tondo delle culture antiche, negli aspetti della produzione economica, della struttura sociale, dell’articolazione istituzionale, dei fondamenti ideologici, della rappresentazione religiosa, dell’espressione artistica. Questi diversi percorsi hanno sottratto a lungo la più matura archeologia italiana – è difficile ancora dire quanto opportunamente - alla partecipazione attiva ad un dibattito sempre più intenso nel mondo anglosassone, risparmiandole, in un certo modo, sia la negatività delle polemiche più pretestuose ed infuocate, sia la positività di un’esperienza storiografica che doveva essere vissuta dall’interno, per dir così, perché potesse essere davvero fruttuosa. Proprio perché nella cultura archeologica italiana questo dibattito è stato così singolarmente e così tenacemente vacante, Archeologia e Semiotica, il saggio che qui si presenta, appare un assai utile contributo a recuperare il tempo, gli spazi e le occasioni perdute, riassumendo gli aspetti salienti delle innovazioni che l’archeologia ha di fronte a sé e, ormai, dentro di sé, in un quadro di indubbia organicità. Infatti, il presente saggio ripercorre e intreccia alcuni lineamenti storiografici, storici, filosofici e politici di questo lungo dibattito sino a discuterne alcuni dei principali effetti e alcune delle maggiori attese, che emergono oggi nello studio del passato. Nel tempo presente, sempre più intensa è la percezione che troppo spesso nello studio del passato si sono riproposti e restituiti, consapevolmente o inconsciamente, modi e forme di vita del mondo di chi quel passato intendeva indagare, nella convinzione, ingenua o meditata, che così meglio si poteva comprendere un passato spesso troppo distante da noi. Con questa impostazione, in realtà, il passato non solo si altera, ma si banalizza e, di fatto, si falsifica e, quindi, ce se ne preclude, spesso totalmente, la comprensione, trovandosi poi a contemplare una sorta di simulacro, distorto e farsesco, di una realtà apparentemente irraggiungibile. L’evidenza documentaria che l’archeologia si trova a dover decifrare appare oggi, invece, come l’espressione singola di un’unità complessa, estesa, fluida, come un significante, difficile da leggere, ma certo decifrabile, che esige, non semplificazioni, ma molteplicità di approcci, che aprano sempre nuove prospettive e che, soprattutto, non intendano giudicare il passato come uno specchio del presente per esorcizzare il futuro. Dalle pagine che seguono si schiude un panorama di itinerari critici nell’esplorazione del passato, certo per molti lettori inatteso e suggestivo, che rivela come, nel contemporaneo pensiero archeologico, trovino spazio, nell’ambito di una Teoria Generale ancora tutta da ricomporre, apparentemente discontinui, divergenti, disomogenei strumenti che operano sull’infinito mondo della significanza del dato, sulle matematiche della complessità, sulla psicologia della percezione, sulla simulazione dinamica. Paolo Matthiae

Archeologia e semiotica: linguaggi, codici, logiche e modelli / Ramazzotti, Marco. - (2010).

Archeologia e semiotica: linguaggi, codici, logiche e modelli

RAMAZZOTTI, Marco
2010

Abstract

Preface by PAUL MATTHIAEIn a history of research and archaeological theory, as conventional schematic can be any fictitious periodization, a place of absolute importance was the publication in 1968 of Analytical Archaeology DL Clarke in taking consciousness of the discipline as historically evolved in modern times, in the development of innovative methodologies that could unfolding from the comparison with other disciplines, provided the impulse vigorously to become a science in the past on the basis of rigorous model of the natural sciences, the task of freeing the archeology from bondage to ideological and political, of course, the lure of becoming science. That memorable essay that laid the foundation of systems theory to the proposal for a profound renewal of both the theoretical aspects and the practical procedures of the discipline of archeology, appeared in Italian translation initiative of the writer in 1998, only thirty years after it had been translated into several of the major European languages ​​and had more than a reprint after the original edition of Oxford. In the English-speaking world since that fateful 1968 began to blow a rushing wind and irreverent that it intended to overwhelm and bury the "old archeology" in the name of a "new archeology", as ambitious as presumptuous, youthfully believed to possess an undeniable truth: the old archeology , enclosed within itself and incapable of any interdisciplinary dialogue, it was dedicated only to classify artifacts, in space and time, without understanding and explaining anything, while the new archeology, open to every experience and every contamination interdisciplinary, based on precisely methods derived from other disciplines, just to interpret and understand was intended purpose as most, if not unique. Graphically it was stated that until then archeology, studying the material evidence of the past, it was only post the questions "where?" And "when?", And since the questions were mainly "how?", "Because ? "," by whom? ". On the one hand, the aim of the new archeology men of the past subject of archaeological study no longer had to be blurred and indistinct shadows of humanity idealized, devoid of any specificity, but real men, in the round, of flesh and blood , a reality that was to emerge strongly in all its concreteness economic, social, ideological, in a word, human. On the other hand, pervaded the minds of the protagonists of the new spirited archeology unshakable confidence that the science of archeology, by virtue of the miraculous contamination with other disciplines, would become a science, because of the hard sciences would take the principles, procedures, methods: there would never be anything questionable or debatable, but it would have established itself as a prime historical discipline, based on fundamentals mathematically measured and therefore incontestable. This neopositivist proud presumption, which was defined naively ahistorical and anachronistic, has not held up to more mature reflections and rapidly revealed its inherent weakness, causing the contemporary followers of the new archeology rethinking critical, sometimes radical, who had the As a result of the need for a large opening contamination much more extensive, less dogmatically oriented towards the exact sciences and more duttilmente available to science umane.L 'essential element of renewal that shook the traditional archeology of those years was, in fact, , so to speak, in the desire of confrontation and contamination between disciplines, the willingness to accept the methods hitherto ignored in the awareness of the complexity of the issues involved. The prehistoric archeology in Europe and one in pre-Columbian America became, unexpectedly, the protagonists of renewal, fired the first, in a more sophisticated and articulate, especially the influence of the economic history often Marxi
2010
9788833920245
PREFAZIONE di PAOLO MATTHIAE In una storia della ricerca e della teoria archeologica, per quanto convenzionale, schematica e fittizia possa essere ogni periodizzazione, un posto di assoluto rilievo ha avuto la pubblicazione nel 1968 di Analytical Archaeology di D.L. Clarke nell’assunzione di coscienza della disciplina come storicamente si è evoluta nei tempi moderni, nello sviluppo delle metodologie innovative che potevano dischiudersi dal confronto con altri campi disciplinari, nell’impulso vigorosamente fornito a divenire una scienza del passato a fondamento rigoroso sul modello delle scienze naturali, nella prospettiva di liberare l’archeologia da servitù ideologiche e politiche verso, appunto, il miraggio di divenire scienza. Quel memorabile saggio che poneva la teoria dei sistemi a fondamento della proposta di un profondo rinnovamento sia degli aspetti teorici che delle procedure pratiche della disciplina archeologica, apparve in traduzione italiana per iniziativa di chi scrive solo nel 1998, trenta anni dopo che era stato tradotto in diverse tra le maggiori lingue europee e aveva avuto più di una ristampa dopo l’originaria edizione di Oxford. Nel mondo anglosassone da quel fatidico 1968 cominciò a spirare un impetuoso e irriverente vento che intendeva travolgere e sotterrare la “vecchia archeologia” in nome di una “nuova archeologia”, tanto ambiziosa quanto presuntuosa, giovanilmente convinta di possedere una verità inoppugnabile: la vecchia archeologia, racchiusa in se stessa e incapace di ogni dialogo interdisciplinare, si era dedicata solo a classificare manufatti, nello spazio e nel tempo, senza comprendere e spiegare alcunché, mentre la nuova archeologia, aperta ad ogni esperienza e ad ogni contaminazione interdisciplinare, sulla base appunto di metodi dedotti da altri ambiti disciplinari, proprio di interpretare e di comprendere si prefiggeva come scopo massimo, se non unico. Icasticamente è stato affermato che fino ad allora l’archeologia, studiando le testimonianze materiali del passato, si era posta soltanto i quesiti “dove?” e “quando?”, mentre da allora gli interrogativi sono stati soprattutto “come?”, “perché?”, “ad opera di chi?”. Da un lato, nell’intento della nuova archeologia gli uomini del passato oggetto dello studio archeologico non dovevano più essere labili ombre di un’umanità indistinta e idealizzata, priva di qualunque specificità, bensì uomini veri, a tutto tondo, di carne e di sangue, di una realtà che doveva emergere prepotentemente in tutta la sua concretezza economica, sociale, ideologica, in una parola, umana. Dall’altro lato, pervadeva le menti degli animosi protagonisti della nuova archeologia un’incrollabile fiducia che la scienza archeologica, in virtù della miracolosa contaminazione con altre discipline, sarebbe divenuta una scienza, perché delle scienze dure avrebbe assunto i principi, le procedure, i metodi: non sarebbe stata mai più qualcosa di opinabile o di discutibile, ma si sarebbe affermata come una disciplina storica privilegiata, basata su fondamenti matematicamente misurati e pertanto incontestabili. Questa orgogliosa presunzione neopositivistica, che è stata definita ingenuamente antistorica ed attardata, non ha retto a riflessioni più mature e ha presto rivelato la sua intrinseca debolezza, inducendo i contemporanei epigoni di quella nuova archeologia a ripensamenti critici, talora anche radicali, che hanno avuto la conseguenza di un’apertura ampia all’esigenza di contaminazioni molto più estese, meno dogmaticamente orientate verso le scienze esatte e più duttilmente disponibili verso le scienze umane. L’elemento essenziale del rinnovamento che scosse l’archeologia tradizionale di quegli anni era, in effetti, per dir così, nel desiderio di confronto e di contaminazione tra le discipline, nella disponibilità ad accogliere metodi fino ad allora ignorati, nella consapevolezza della complessità delle problematiche da affrontare. L’archeologia preistorica in Europa e quella precolombiana in America divennero, inaspettatamente, protagoniste del rinnovamento, alimentate la prima, in forme più sofisticate e articolate, soprattutto dall’influenza della storia economica spesso di ispirazione marxista, e la seconda dalle suggestioni della sociologia, con una forte tendenza, in ambedue i casi a porre in primo piano nello studio del passato l’economia e la società, o la società e l’economia, e in secondo piano le forme dell’ideologia. Una conseguenza sostanziale di queste impostazioni fu la preminenza che assunse nella ricostruzione archeologica, il momento della generalizzazione dei modelli, degli schemi e delle formule interpretative rispetto a quello della ricerca sulla specificità delle culture, con rischi devastanti, al di là del fascino di interpretazioni che sembravano restituire come d’incanto tutti i tasselli essenziali mancanti nel grande e lacunoso mosaico del quadro del passato da ricomporre, di schematizzazioni, di appiattimenti, di omogeneizzazioni arbitrarie e astoriche. La più pensosa archeologia francese si volgeva, negli stessi anni, alla ricostruzione del passato tentando accortamente di evitare determinismi scientistici e astratte generalizzazioni sul fondamento di un saldo ancoraggio allo strutturalismo, inteso, tra l’altro, saggiamente come strumento per non perdere di vista l’infinita varietà delle culture e la loro multiforme quanto sfuggente individualità. Le suggestioni metodologiche delle aperture di Clarke, invece, nel mondo anglosassone inducevano ad esplorare percorsi più arditi e complessi, sempre il più possibile orientati alla ricerca di un ancoraggio scientifico, rimasto a lungo un miraggio irraggiungibile, tra i concetti di complessità organica, di sistemi matematici, di modelli analitici, di simulazioni adattive. Nel mondo dell’archeologia germanica ed italiana, in modi in qualche modo paralleli, sempre in quegli stessi anni, da un lato, il diversamente poderoso predominio dell’archeologia classica lasciava poco spazio non solo alla sperimentazione delle forme di critica e di interpretazione che quelle certo memorabili aperture metodologiche suggerivano e, dall’altro, imponeva percorsi diversi al rinnovamento, soprattutto in Italia, molto acutamente e quasi dolorosamente, avvertito come necessità della disciplina archeologica. Questi percorsi, che furono perseguiti con vivace e ardito impegno da un gruppo di giovani studiosi di solida preparazione teorica e di grande acume critico, portarono in Italia, in cui, peraltro, ci si attardava a dibattere il dilemma fuorviante dell’alternativa tra archeologia della cultura materiale e archeologia della storia dell’arte, ad un sostanziale rinnovamento di metodo che poneva in primo piano una sostanziale interpretazione storica a tutto tondo delle culture antiche, negli aspetti della produzione economica, della struttura sociale, dell’articolazione istituzionale, dei fondamenti ideologici, della rappresentazione religiosa, dell’espressione artistica. Questi diversi percorsi hanno sottratto a lungo la più matura archeologia italiana – è difficile ancora dire quanto opportunamente - alla partecipazione attiva ad un dibattito sempre più intenso nel mondo anglosassone, risparmiandole, in un certo modo, sia la negatività delle polemiche più pretestuose ed infuocate, sia la positività di un’esperienza storiografica che doveva essere vissuta dall’interno, per dir così, perché potesse essere davvero fruttuosa. Proprio perché nella cultura archeologica italiana questo dibattito è stato così singolarmente e così tenacemente vacante, Archeologia e Semiotica, il saggio che qui si presenta, appare un assai utile contributo a recuperare il tempo, gli spazi e le occasioni perdute, riassumendo gli aspetti salienti delle innovazioni che l’archeologia ha di fronte a sé e, ormai, dentro di sé, in un quadro di indubbia organicità. Infatti, il presente saggio ripercorre e intreccia alcuni lineamenti storiografici, storici, filosofici e politici di questo lungo dibattito sino a discuterne alcuni dei principali effetti e alcune delle maggiori attese, che emergono oggi nello studio del passato. Nel tempo presente, sempre più intensa è la percezione che troppo spesso nello studio del passato si sono riproposti e restituiti, consapevolmente o inconsciamente, modi e forme di vita del mondo di chi quel passato intendeva indagare, nella convinzione, ingenua o meditata, che così meglio si poteva comprendere un passato spesso troppo distante da noi. Con questa impostazione, in realtà, il passato non solo si altera, ma si banalizza e, di fatto, si falsifica e, quindi, ce se ne preclude, spesso totalmente, la comprensione, trovandosi poi a contemplare una sorta di simulacro, distorto e farsesco, di una realtà apparentemente irraggiungibile. L’evidenza documentaria che l’archeologia si trova a dover decifrare appare oggi, invece, come l’espressione singola di un’unità complessa, estesa, fluida, come un significante, difficile da leggere, ma certo decifrabile, che esige, non semplificazioni, ma molteplicità di approcci, che aprano sempre nuove prospettive e che, soprattutto, non intendano giudicare il passato come uno specchio del presente per esorcizzare il futuro. Dalle pagine che seguono si schiude un panorama di itinerari critici nell’esplorazione del passato, certo per molti lettori inatteso e suggestivo, che rivela come, nel contemporaneo pensiero archeologico, trovino spazio, nell’ambito di una Teoria Generale ancora tutta da ricomporre, apparentemente discontinui, divergenti, disomogenei strumenti che operano sull’infinito mondo della significanza del dato, sulle matematiche della complessità, sulla psicologia della percezione, sulla simulazione dinamica. Paolo Matthiae
03 Monografia::03a Saggio, Trattato Scientifico
Archeologia e semiotica: linguaggi, codici, logiche e modelli / Ramazzotti, Marco. - (2010).
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11573/181572
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