Vorrei discutere con voi del valore della azione di riscrittura dell’opera dei maestri dell’architettura italiana che mi sembra essere un elemento di grande interesse per chi, come me, fa ricerca in composizione architettonica. Nel ripercorrere mentalmente l’iniziativa del convegno romano mi è sembrato inevitabile rinvenire, nel ciclo di iniziative ad esso connesse, un approccio che scansa la certosina prassi della ricostruzione millimetrica della figura dell’architetto in favore di un sapere scaturito da operazioni anche di manipolazione della fonte. Mi riferisco in particolare alla scelta di inserire tra gli eventi una mostra di una serie di opere 60x60 come omaggio progettuale e grafico ad Aymonino e nella scelta di scomporre il campus di pesaro nella piccola mostra prodotta nell’ambito del seminario dottorale diretto da Orazio Carpenzano, Luca Porqueddu e Caterina Padoa Schioppa. In quella occasione, con Roberto Vincenzo Iossa mi sono divertito a traslitterare le azioni progettuali delle tre versioni del Centro civico pesarese su un tavolo di indagine unico per ricavarne poi una serie di azioni progettuali condensate in circa ventuno tasselli nominati e ordinati alfabeticamente. La corrispondenza tra immagine e parola era quasi sempre vaga o comunque non immediatamente riconoscibile ed è questa attitudine al sottinteso che riserva per chi interviene nella classificazione dopo l’autore di ampliarla, modificarla o ribaltarla completamente. Nel libro Carlo Aymonino. Progetto Città Politica le opere 60x60 di cui dicevo prima fossero messe in campo secondo la stessa modalità accumulativa e senza la pretesa di ricercare una corrispondenza diretta tra parte testuale e immagini. In questo lavoro di osservazione a tratti ipnotico si creano corrispondenze tangenziali, incidentali a volte, che tendono ad aggiungere un ulteriore layer di riflessione sull’opera di riferimento, trasformandola in altro. Un progetto che trova, grazie alla sottile opposizione della dualità, una chiarezza di intenti. L’azione di riscrittura dell’opera di maestri come Carlo Aymonino riveste una importanza cruciale, specie per chi si cimenta a produrle. Ho sempre pensato che Aymonino presentasse una tendenza all’ibridazione tra un approccio tipologico e una attitudine a relazionare le forme in rapporti di interdipendenza rendendolo quasi “avanguardista”. Se prendiamo le cellule del gallaratese, i lunghi ballatoi, l’uso della circonferenza, o pensiamo alle forme del campus di pesaro in tutte le sue versioni, comprendiamo che lo spazio è quello di una piazza, una quadra aperta o parzialmente chiusa. Si evidenzia un gusto straordinario per le forme perentorie e primordiali, geometriche, quasi euclidee talmente forti da determinare una capacità combinatoria per cui ogni forma, nel suo rapporto con quella immediatamente contermine, genera un meccanismo quasi di tensione ansiogena da parte di chi legge geometricamente, ma di grande interesse per la sua ricchezza compositiva e per le potenzialità dell’abitare uno spazio apparentemente retto da un equilibrio magico. Questo equilibrio è composto da un abbecedario di forme e di elementi ricorrenti a cui fa riferimento come per esempio la finestra, il ballatoio, il corpo circolare, la terminazione dell’edificio. Addirittura Aymonino è capace di chiudere ciecamente una parete intera e di lasciare il profilo di un edificio in vista come una apparizione piana. Nella definizione della nostra classificazione l’angolo divaricato del Marconi e la sua relazione con la torre di Aldo Rossi nella terza versione del centro civico è diventata quasi una ossessione grafica per i tasselli. Diversamente da altri maestri Aymonino ha un gusto per il colore che si rivela al monte Amiata e che deriva dai suoi natali pittorici. Ciò che ne fa probabilmente un grande maestro dell’architettura è la decisione di tenere per se gli strumenti e i segreti del mestiere e nel non trasmetterli tutti direttamente se non attraverso alcuni studi sulla città, pubblicati con Marsilio, e che determinano la sua forza e interesse e anche a distanza di più di due lustri dalla sua morte e ne dimostrano la sua attualità. Questa è la portata di uno degli ultimi grandi maestri di quella architettura italiana che si componeva fra giochi di opposizione e entrava spesso dalla forma, usando come trucchi tutti i ragionamenti intellettuali che in qualche modo partivano dall’analisi tipo-morfologica. Sicuramente la dimensione tipologica e la reiterazione sono presenti in lui, così come in Durand e tanti altri architetti, financo risalenti al classicismo. Aymonino è un architetto che attinge alle avanguardie, al costruttivismo russo, alla memoria, alla galleria ottocentesca nelle coperture del tribunale di ferrara, attinge all’uso classicista del montaggio delle forme. È un architetto potentemente e straordinariamente eclettico nell’ellissi di Marco Aurelio al palazzo dei conservatori al campidoglio di Roma, così come nel primo progetto di impronta costruttivista, basato su un prisma perfetto di vetro spesso che piegava a determinare una forma platonica. C’è sempre un bisogno di perentorietà nel suo gesto, che in qualche modo è tipico di quella generazione di italiani in cui il particolare costruttivo non era così determinante, ma lo era lo spazio e la sua potenza che derivano dalla forma. Si vede bene in autori del calibro di Michele Capobianco, Gino Valle, Aldo Rossi e in tantissimi altri autori da nord a sud questa tendenza alla colorazione. Le prospettive metafisiche degli spazi colorati di Aymonino sono bellissime, somigliano a quelle dei già citati autori. Aymonino lavora con tutto questo codice affastellato e appropriarsi di questo codice, come dicevo, è molto divertente, perché in qualche modo lo riconduce alla sua principale reticenza nel non voler dichiarare i ferri del mestiere e nel lasciare a chi lo studia la capacità di classificare forme e azioni per renderle disponibili rimontandole in abachi o rubriche grafiche senza commettere l’errore di decostruire e ricostruirne i progetti, forse è una modalità operativa ormai superata. Gli omaggi che lavorano con osservazioni ipnotiche sono molto più interessanti proprio perché provano a manipolare il senso del suo approccio e lo inquadrano nell’ottica abbastanza diffusa dei maestri italiani del nostro tempo. Lui è l’ultimo che ci lascia di quella generazione ed è l’ultimo che ha dentro sé stesso una forte carica di rispetto che (si manifesta) viene a incontrare nel momento in cui dimostra maestria nel comporre con forme pure, generando la potenza di un intervento quasi piano, componendo forme euclidee per creare architetture perfettamente sue. Certo, si possono rintracciare ascendenze, come in ogni caso, ma sono sicuro che tali ascendenze non le rintracceremo mai coniugate nel modo di cui solo lui era capce.

Riscritture / Arcopinto, Luigi. - (2023). (Intervento presentato al convegno 2023 Carlo Aymonino. Progetto Città Politica tenutosi a Venezia; Italia).

Riscritture

Arcopinto, Luigi
2023

Abstract

Vorrei discutere con voi del valore della azione di riscrittura dell’opera dei maestri dell’architettura italiana che mi sembra essere un elemento di grande interesse per chi, come me, fa ricerca in composizione architettonica. Nel ripercorrere mentalmente l’iniziativa del convegno romano mi è sembrato inevitabile rinvenire, nel ciclo di iniziative ad esso connesse, un approccio che scansa la certosina prassi della ricostruzione millimetrica della figura dell’architetto in favore di un sapere scaturito da operazioni anche di manipolazione della fonte. Mi riferisco in particolare alla scelta di inserire tra gli eventi una mostra di una serie di opere 60x60 come omaggio progettuale e grafico ad Aymonino e nella scelta di scomporre il campus di pesaro nella piccola mostra prodotta nell’ambito del seminario dottorale diretto da Orazio Carpenzano, Luca Porqueddu e Caterina Padoa Schioppa. In quella occasione, con Roberto Vincenzo Iossa mi sono divertito a traslitterare le azioni progettuali delle tre versioni del Centro civico pesarese su un tavolo di indagine unico per ricavarne poi una serie di azioni progettuali condensate in circa ventuno tasselli nominati e ordinati alfabeticamente. La corrispondenza tra immagine e parola era quasi sempre vaga o comunque non immediatamente riconoscibile ed è questa attitudine al sottinteso che riserva per chi interviene nella classificazione dopo l’autore di ampliarla, modificarla o ribaltarla completamente. Nel libro Carlo Aymonino. Progetto Città Politica le opere 60x60 di cui dicevo prima fossero messe in campo secondo la stessa modalità accumulativa e senza la pretesa di ricercare una corrispondenza diretta tra parte testuale e immagini. In questo lavoro di osservazione a tratti ipnotico si creano corrispondenze tangenziali, incidentali a volte, che tendono ad aggiungere un ulteriore layer di riflessione sull’opera di riferimento, trasformandola in altro. Un progetto che trova, grazie alla sottile opposizione della dualità, una chiarezza di intenti. L’azione di riscrittura dell’opera di maestri come Carlo Aymonino riveste una importanza cruciale, specie per chi si cimenta a produrle. Ho sempre pensato che Aymonino presentasse una tendenza all’ibridazione tra un approccio tipologico e una attitudine a relazionare le forme in rapporti di interdipendenza rendendolo quasi “avanguardista”. Se prendiamo le cellule del gallaratese, i lunghi ballatoi, l’uso della circonferenza, o pensiamo alle forme del campus di pesaro in tutte le sue versioni, comprendiamo che lo spazio è quello di una piazza, una quadra aperta o parzialmente chiusa. Si evidenzia un gusto straordinario per le forme perentorie e primordiali, geometriche, quasi euclidee talmente forti da determinare una capacità combinatoria per cui ogni forma, nel suo rapporto con quella immediatamente contermine, genera un meccanismo quasi di tensione ansiogena da parte di chi legge geometricamente, ma di grande interesse per la sua ricchezza compositiva e per le potenzialità dell’abitare uno spazio apparentemente retto da un equilibrio magico. Questo equilibrio è composto da un abbecedario di forme e di elementi ricorrenti a cui fa riferimento come per esempio la finestra, il ballatoio, il corpo circolare, la terminazione dell’edificio. Addirittura Aymonino è capace di chiudere ciecamente una parete intera e di lasciare il profilo di un edificio in vista come una apparizione piana. Nella definizione della nostra classificazione l’angolo divaricato del Marconi e la sua relazione con la torre di Aldo Rossi nella terza versione del centro civico è diventata quasi una ossessione grafica per i tasselli. Diversamente da altri maestri Aymonino ha un gusto per il colore che si rivela al monte Amiata e che deriva dai suoi natali pittorici. Ciò che ne fa probabilmente un grande maestro dell’architettura è la decisione di tenere per se gli strumenti e i segreti del mestiere e nel non trasmetterli tutti direttamente se non attraverso alcuni studi sulla città, pubblicati con Marsilio, e che determinano la sua forza e interesse e anche a distanza di più di due lustri dalla sua morte e ne dimostrano la sua attualità. Questa è la portata di uno degli ultimi grandi maestri di quella architettura italiana che si componeva fra giochi di opposizione e entrava spesso dalla forma, usando come trucchi tutti i ragionamenti intellettuali che in qualche modo partivano dall’analisi tipo-morfologica. Sicuramente la dimensione tipologica e la reiterazione sono presenti in lui, così come in Durand e tanti altri architetti, financo risalenti al classicismo. Aymonino è un architetto che attinge alle avanguardie, al costruttivismo russo, alla memoria, alla galleria ottocentesca nelle coperture del tribunale di ferrara, attinge all’uso classicista del montaggio delle forme. È un architetto potentemente e straordinariamente eclettico nell’ellissi di Marco Aurelio al palazzo dei conservatori al campidoglio di Roma, così come nel primo progetto di impronta costruttivista, basato su un prisma perfetto di vetro spesso che piegava a determinare una forma platonica. C’è sempre un bisogno di perentorietà nel suo gesto, che in qualche modo è tipico di quella generazione di italiani in cui il particolare costruttivo non era così determinante, ma lo era lo spazio e la sua potenza che derivano dalla forma. Si vede bene in autori del calibro di Michele Capobianco, Gino Valle, Aldo Rossi e in tantissimi altri autori da nord a sud questa tendenza alla colorazione. Le prospettive metafisiche degli spazi colorati di Aymonino sono bellissime, somigliano a quelle dei già citati autori. Aymonino lavora con tutto questo codice affastellato e appropriarsi di questo codice, come dicevo, è molto divertente, perché in qualche modo lo riconduce alla sua principale reticenza nel non voler dichiarare i ferri del mestiere e nel lasciare a chi lo studia la capacità di classificare forme e azioni per renderle disponibili rimontandole in abachi o rubriche grafiche senza commettere l’errore di decostruire e ricostruirne i progetti, forse è una modalità operativa ormai superata. Gli omaggi che lavorano con osservazioni ipnotiche sono molto più interessanti proprio perché provano a manipolare il senso del suo approccio e lo inquadrano nell’ottica abbastanza diffusa dei maestri italiani del nostro tempo. Lui è l’ultimo che ci lascia di quella generazione ed è l’ultimo che ha dentro sé stesso una forte carica di rispetto che (si manifesta) viene a incontrare nel momento in cui dimostra maestria nel comporre con forme pure, generando la potenza di un intervento quasi piano, componendo forme euclidee per creare architetture perfettamente sue. Certo, si possono rintracciare ascendenze, come in ogni caso, ma sono sicuro che tali ascendenze non le rintracceremo mai coniugate nel modo di cui solo lui era capce.
2023
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11573/1707723
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