In questo saggio si narrano i risultati di un’indagine sulla presenza delle donne “non giovani” nella televisione pubblica italiana. La rappresentazione delle donne sugli schermi, in particolare in quelli cinematografici e televisivi, è un tema classico sia degli studi di comunicazione che di quelli femministi, ed uno dei filoni principali dei Gender Media Studies, il campo che si è andato strutturando alla confluenza dei due. Dagli anni Settanta del secolo scorso molte ricerche, condotte in vari Paesi del mondo, hanno mostrato come le figure femminili in televisione siano sistematicamente discriminate, perché sempre sottorappresentate rispetto a quelle maschili, costrette in repertori ridotti di ruoli, spesso “imprigionate” in canoni di bellezza ideali, in ruoli passivi e in immagini ipersessualizzate. La prospettiva intersezionale ha mostrato poi come, quando la variabile di genere si incrocia con quella razziale e/o etnica, i processi di stereotipizzazione siano ancora più rigidi, anche sui media. In una letteratura che appare ormai vasta e compatta sono relativamente poche però le indagini che si sono preoccupate di prendere in considerazione, accanto alla variabile di genere, quella di età. Nel 1999 Kathleen Woodward, accademica statunitense, fra le esponenti più originali degli Ages Studies, notava come: “Along with race, gender and age are the most salient markers of social differences. Recent research in cultural studies has been virtually dominated by studies of differences. We have invented courses in colleges and universities that study gender, race, sexual orientation, ethnicity and class. But not age.” (Woodward 1999, X). Considerando la rapidità con cui stanno invecchiando le popolazioni della maggior parte delle società occidentali, e le conseguenze che si annunciano, il fatto che questa osservazione risulti ad oggi in gran parte ancora condivisibile fa suonare tale mancanza del tutto anacronistica. Ciò vale soprattutto per l’Italia, che di questi trend demografici rappresenta un caso emblematico. L’età è infatti protagonista dell’ageismo, una delle discriminazioni emergenti nelle nostre società. Il termine ageismo fu coniato da Robert Neil Butler, il medico e psichiatra statunitense che ha rivoluzionato la visione dell’invecchiamento e delle età avanzate nel mondo occidentale, per indicare una forma di pregiudizio e di svalorizzazione agita ai danni di una persona o di un’intera categoria in ragione dell’età: “Age-ism describes the subjective experience implied in the popular notion ofthe generation gap”(Butler 1969, 243). Come il trattino del neologismo sottolineava, il vocabolo ricalcava proprio, per analogia, i più famosi “razzismo” e “sessismo”. Oggi il World Health Organization definisce l’ageismo come quel sistema di “stereotipi, pregiudizi e discriminazioni nei confronti di altre persone, o di se stessi, fondati sull’età” (World Health Organization, di qui in poi in acronimo: WHO 2021, 2). Tali pensieri, sentimenti e azioni discriminatori possono sostanziarsi in forme di colpevolizzazione, di sottovalutazione, di intolleranza e di maltrattamento. L’ageismo è dunque un fenomeno complesso e multisfaccettato, in cui agiscono e si influenzano dimensioni e dinamiche istituzionali, interpersonali e personali; queste ultime, come si diceva, anche di tipo introiettivo, ovvero dirette da un soggetto verso se stesso (WHO 2021, 7), e dunque capaci di autoinnescare forme di fragilità e discriminazione ambigue. Potenzialmente vittime dell’ageismo possono essere tutte le fasce di età. La vulnerabilità di una categoria dipende infatti sia dalle condizioni oggettive in cui vivono gli individui che ne fanno parte, sia dalle percezioni che essi hanno di tale situazione, sia, infine, dalle rappresentazioni che di questo gruppo si danno all’esterno (e dalle quali i membri della categoria possono ovviamente essere influenzati). Dunque, la vulnerabilità è relativa al contesto sociale, e in epoche e in luoghi diversi il problema può riguardare parti diverse della popolazione. Nelle nostre società – dove per “nostre” si intende in senso lato “occidentali e contemporanee” – l’ageismo si esercita nei confronti delle fasce più giovani della popolazione adulta, “tradizionalmente” narrate come inferiori per qualità intrinseche e valori rispetto a quelle che le hanno precedute e, ancor più contro le persone anziane. Considerando, come si diceva poco sopra, che la popolazione europea si è già inoltrata in un processo accelerato di invecchiamento e che l’allungamento dei percorsi di vita sta comportando una revisione dei confini, delle identità e dei ruoli delle categorie di età esistenti, con conseguenze così importanti su molte sfere della vita pubblica e sociale da mettere in discussione alcuni pilastri della modernità in cui ci siamo abituati a vivere (Graziosi 2023), l’ageismo minaccia di diventare la discriminazione del futuro. Tra l’altro, una discriminazione fertilissima, come si vedrà meglio nel prossimo paragrafo, molto propensa all’intersezione con altre vulnerabilità. Ciò vale in particolare per il nostro paese, oggi il secondo più vecchio al mondo, dopo il Giappone. Si consideri infatti che in Italia l’età media è già slittata oltre i 45 anni, e si stima che entro qualche decennio oltrepasserà i 50; ancora, gli individui con più di 65 anni – soglia che attualmente per il WHO segna il passaggio alla condizione di anzianità – superano i 14 milioni e potrebbero arrivare al 35% della popolazione entro il 2050; già adesso metà degli over 65 ha più di 75 anni (Istat 2022). Emblematica della rilevanza della questione appare a chi scrive la “carriera” che il concetto di ageismo ha fatto in pochi anni presso il WHO, la più importante istituzione internazionale impegnata per le politiche sul tema. Nel 2015, il WHO dedicava all’ageismo un box all’interno del suo “Report su invecchiamento e salute”, avvertendo che si trattava di una discriminazione molto diffusa, ma soprattutto particolarmente subdola perché, a differenza di razzismo e sessismo, non esistono ancora leggi che si oppongano a questa pratica discriminatoria. Nel 2022 il WHO intitolava all’ageismo il suo “Global Report sull’invecchiamento delle popolazioni umane”, e proclamava il 2020-2030 “Decennio dell’invecchiamento in salute”, individuando come obiettivo prioritario delle politiche internazionali proprio quello di “cambiare il modo in cui pensiamo all’invecchiamento”. È di fronte a trasformazioni di tale portata che le autrici del presente contributo si sono interrogate sulla necessità di introdurre la variabile di età nello studio delle rappresentazioni mediali delle donne in Italia. La curiosità principale è ovviamente quella di comprendere se distinzioni legate alle fasce di età (con focus specifici sulle fasi della maturità e dell’anzianità) siano in grado di far emergere nuovi particolari o tendenze diverse dentro un quadro che, come si diceva in apertura, ad uno sguardo di insieme appare fortemente e negativamente stereotipato, e poco incline a lasciare emergere distinzioni o novità. Oltre che dal desiderio di intraprendere una strada ancora pressoché inesplorata nel nostro Paese, l’interesse verso il tema è alimentato dalla consapevolezza del fatto che, avanzando inevitabilmente i processi di invecchiamento e il peso delle fasce di età over 50, rappresentazioni assenti o inadeguate delle donne appartenenti a queste categorie possono comportare il rischio di nuovi squilibri, nuove discriminazioni e nuove ingiustizie in un tessuto sociale già gravato da diseguaglianze di genere importanti. Infatti, se nelle società contemporanee i media hanno un ruolo fondamentale nella costruzione di tutte le identità e in generale dei rapporti sociali, è soprattutto di fronte alle categorie emergenti e vulnerabili che la loro azione, e le loro responsabilità, divengono strategiche, perché essi sono al contempo: i canali e gli strumenti attraverso cui si acquisisce e si realizza il potere di espressione, i format e i linguaggi che danno forma alle rappresentazioni (Silverstone 2002), ma, soprattutto, l’arena nella quale i nuovi soggetti devono trovare spazio e visibilità (Silverstone 2009). Nel prossimo paragrafo tenteremo di sintetizzare le principali evidenze emerse in letteratura all’intersezione tra età, genere e media, perché facciano da sfondo alla ricerca che presenteremo nella seconda parte del capitolo.

Pochissime. Le donne mature e anziane sugli schermi della televisione pubblica italiana / Dragotto, Francesca; Giomi, Elisa; Peruzzi, Gaia. - (2023), pp. 207-230.

Pochissime. Le donne mature e anziane sugli schermi della televisione pubblica italiana

Peruzzi, Gaia
2023

Abstract

In questo saggio si narrano i risultati di un’indagine sulla presenza delle donne “non giovani” nella televisione pubblica italiana. La rappresentazione delle donne sugli schermi, in particolare in quelli cinematografici e televisivi, è un tema classico sia degli studi di comunicazione che di quelli femministi, ed uno dei filoni principali dei Gender Media Studies, il campo che si è andato strutturando alla confluenza dei due. Dagli anni Settanta del secolo scorso molte ricerche, condotte in vari Paesi del mondo, hanno mostrato come le figure femminili in televisione siano sistematicamente discriminate, perché sempre sottorappresentate rispetto a quelle maschili, costrette in repertori ridotti di ruoli, spesso “imprigionate” in canoni di bellezza ideali, in ruoli passivi e in immagini ipersessualizzate. La prospettiva intersezionale ha mostrato poi come, quando la variabile di genere si incrocia con quella razziale e/o etnica, i processi di stereotipizzazione siano ancora più rigidi, anche sui media. In una letteratura che appare ormai vasta e compatta sono relativamente poche però le indagini che si sono preoccupate di prendere in considerazione, accanto alla variabile di genere, quella di età. Nel 1999 Kathleen Woodward, accademica statunitense, fra le esponenti più originali degli Ages Studies, notava come: “Along with race, gender and age are the most salient markers of social differences. Recent research in cultural studies has been virtually dominated by studies of differences. We have invented courses in colleges and universities that study gender, race, sexual orientation, ethnicity and class. But not age.” (Woodward 1999, X). Considerando la rapidità con cui stanno invecchiando le popolazioni della maggior parte delle società occidentali, e le conseguenze che si annunciano, il fatto che questa osservazione risulti ad oggi in gran parte ancora condivisibile fa suonare tale mancanza del tutto anacronistica. Ciò vale soprattutto per l’Italia, che di questi trend demografici rappresenta un caso emblematico. L’età è infatti protagonista dell’ageismo, una delle discriminazioni emergenti nelle nostre società. Il termine ageismo fu coniato da Robert Neil Butler, il medico e psichiatra statunitense che ha rivoluzionato la visione dell’invecchiamento e delle età avanzate nel mondo occidentale, per indicare una forma di pregiudizio e di svalorizzazione agita ai danni di una persona o di un’intera categoria in ragione dell’età: “Age-ism describes the subjective experience implied in the popular notion ofthe generation gap”(Butler 1969, 243). Come il trattino del neologismo sottolineava, il vocabolo ricalcava proprio, per analogia, i più famosi “razzismo” e “sessismo”. Oggi il World Health Organization definisce l’ageismo come quel sistema di “stereotipi, pregiudizi e discriminazioni nei confronti di altre persone, o di se stessi, fondati sull’età” (World Health Organization, di qui in poi in acronimo: WHO 2021, 2). Tali pensieri, sentimenti e azioni discriminatori possono sostanziarsi in forme di colpevolizzazione, di sottovalutazione, di intolleranza e di maltrattamento. L’ageismo è dunque un fenomeno complesso e multisfaccettato, in cui agiscono e si influenzano dimensioni e dinamiche istituzionali, interpersonali e personali; queste ultime, come si diceva, anche di tipo introiettivo, ovvero dirette da un soggetto verso se stesso (WHO 2021, 7), e dunque capaci di autoinnescare forme di fragilità e discriminazione ambigue. Potenzialmente vittime dell’ageismo possono essere tutte le fasce di età. La vulnerabilità di una categoria dipende infatti sia dalle condizioni oggettive in cui vivono gli individui che ne fanno parte, sia dalle percezioni che essi hanno di tale situazione, sia, infine, dalle rappresentazioni che di questo gruppo si danno all’esterno (e dalle quali i membri della categoria possono ovviamente essere influenzati). Dunque, la vulnerabilità è relativa al contesto sociale, e in epoche e in luoghi diversi il problema può riguardare parti diverse della popolazione. Nelle nostre società – dove per “nostre” si intende in senso lato “occidentali e contemporanee” – l’ageismo si esercita nei confronti delle fasce più giovani della popolazione adulta, “tradizionalmente” narrate come inferiori per qualità intrinseche e valori rispetto a quelle che le hanno precedute e, ancor più contro le persone anziane. Considerando, come si diceva poco sopra, che la popolazione europea si è già inoltrata in un processo accelerato di invecchiamento e che l’allungamento dei percorsi di vita sta comportando una revisione dei confini, delle identità e dei ruoli delle categorie di età esistenti, con conseguenze così importanti su molte sfere della vita pubblica e sociale da mettere in discussione alcuni pilastri della modernità in cui ci siamo abituati a vivere (Graziosi 2023), l’ageismo minaccia di diventare la discriminazione del futuro. Tra l’altro, una discriminazione fertilissima, come si vedrà meglio nel prossimo paragrafo, molto propensa all’intersezione con altre vulnerabilità. Ciò vale in particolare per il nostro paese, oggi il secondo più vecchio al mondo, dopo il Giappone. Si consideri infatti che in Italia l’età media è già slittata oltre i 45 anni, e si stima che entro qualche decennio oltrepasserà i 50; ancora, gli individui con più di 65 anni – soglia che attualmente per il WHO segna il passaggio alla condizione di anzianità – superano i 14 milioni e potrebbero arrivare al 35% della popolazione entro il 2050; già adesso metà degli over 65 ha più di 75 anni (Istat 2022). Emblematica della rilevanza della questione appare a chi scrive la “carriera” che il concetto di ageismo ha fatto in pochi anni presso il WHO, la più importante istituzione internazionale impegnata per le politiche sul tema. Nel 2015, il WHO dedicava all’ageismo un box all’interno del suo “Report su invecchiamento e salute”, avvertendo che si trattava di una discriminazione molto diffusa, ma soprattutto particolarmente subdola perché, a differenza di razzismo e sessismo, non esistono ancora leggi che si oppongano a questa pratica discriminatoria. Nel 2022 il WHO intitolava all’ageismo il suo “Global Report sull’invecchiamento delle popolazioni umane”, e proclamava il 2020-2030 “Decennio dell’invecchiamento in salute”, individuando come obiettivo prioritario delle politiche internazionali proprio quello di “cambiare il modo in cui pensiamo all’invecchiamento”. È di fronte a trasformazioni di tale portata che le autrici del presente contributo si sono interrogate sulla necessità di introdurre la variabile di età nello studio delle rappresentazioni mediali delle donne in Italia. La curiosità principale è ovviamente quella di comprendere se distinzioni legate alle fasce di età (con focus specifici sulle fasi della maturità e dell’anzianità) siano in grado di far emergere nuovi particolari o tendenze diverse dentro un quadro che, come si diceva in apertura, ad uno sguardo di insieme appare fortemente e negativamente stereotipato, e poco incline a lasciare emergere distinzioni o novità. Oltre che dal desiderio di intraprendere una strada ancora pressoché inesplorata nel nostro Paese, l’interesse verso il tema è alimentato dalla consapevolezza del fatto che, avanzando inevitabilmente i processi di invecchiamento e il peso delle fasce di età over 50, rappresentazioni assenti o inadeguate delle donne appartenenti a queste categorie possono comportare il rischio di nuovi squilibri, nuove discriminazioni e nuove ingiustizie in un tessuto sociale già gravato da diseguaglianze di genere importanti. Infatti, se nelle società contemporanee i media hanno un ruolo fondamentale nella costruzione di tutte le identità e in generale dei rapporti sociali, è soprattutto di fronte alle categorie emergenti e vulnerabili che la loro azione, e le loro responsabilità, divengono strategiche, perché essi sono al contempo: i canali e gli strumenti attraverso cui si acquisisce e si realizza il potere di espressione, i format e i linguaggi che danno forma alle rappresentazioni (Silverstone 2002), ma, soprattutto, l’arena nella quale i nuovi soggetti devono trovare spazio e visibilità (Silverstone 2009). Nel prossimo paragrafo tenteremo di sintetizzare le principali evidenze emerse in letteratura all’intersezione tra età, genere e media, perché facciano da sfondo alla ricerca che presenteremo nella seconda parte del capitolo.
2023
Poche. La questione di genere nell'industria culturale italiana
979-12-5544-013-0
Ageismo, donne, televisione, rappresentazione, media, intersezionalità
02 Pubblicazione su volume::02a Capitolo o Articolo
Pochissime. Le donne mature e anziane sugli schermi della televisione pubblica italiana / Dragotto, Francesca; Giomi, Elisa; Peruzzi, Gaia. - (2023), pp. 207-230.
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