Durante il secondo Novecento il termine “auto-costruzione” è stato convenzionalmente associato, nel campo dell’architettura e degli studi urbani, ai sistemi di costruzione in grado di sostituire operatori dilettanti ad imprese; soprattutto in particolari località geografiche, dapprima definite Paesi in via di sviluppo poi, in parte, rinominate Paesi emergenti e, più recentemente, al culmine dell’era globale Paesi in transizione. I sistemi di “autocostruzione”, come molti altri temi introdotti a partire dagli anni Sessanta, soprattutto legati a questioni ambientaliste, sono stati considerati raramente dalla pubblicistica “dominante” nel mondo occidentale e accademico, se non prima dell’ultimo ventennio. Il punto di vista dei recenti curatori delle Mostre Biennali di Architettura veneziane, infatti, è sensibilmente cambiato; esso ha tenuto conto sempre di più delle questioni emergenti a livello globale: i temi evidenziano l’interesse di un pubblico di massa “specialistico”, per i temi di progetto che si applicano alla qualità dei luoghi pubblici e dell’abitare nelle popolosissime città mondiali. Per certi versi le Biennali degli ultimi lustri hanno fotografato problemi analoghi o complementari ai temi presentati e discussi nei convegni quadrienna- li dell’Unione Internazionale Architetti. In parallelo, storici dell’architettura occidentali e non occidentali (Jean Louis Cohen, Sibel Bozdogan, Lucia Allais), hanno iniziato a pubblicare rassegne che inseriscono opere realizzate in paesi non occidentali, mai pubblicate in precedenza, superando consuetudini storiografiche di impronta euro-americano-centrica. Il messaggio della Biennale curata da Alejandro Aravena è stato fra i primi a trasmettere con forza l’importanza del cambiamento del punto di vista, comunicato metaforicamente con la forza iconica dell’immagine di Marie Reiche in cima ad una scala, intenta ad osservare le Linee di Nazca nel deserto sudamericano, e proponendo lo slogan “contro l’abbondanza: la pertinenza”, che dice molto sulla missione dell’architettura intesa dal curatore, ed argomentata come segue: «La forma [dei] luoghi, però, non è definita soltanto dalla tendenza estetica del momento o dal talento di un particolare architetto. Essi sono la conseguenza di regole, interessi, economie e politiche, o forse anche della mancanza di coordinamento, dell’indifferenza e della semplice casualità». Aravena, tra l’altro, ha approfondito nella sua opera di architetto e di divulgatore le possibilità di integrare con le nuove tecnologie i sistemi costruttivi tradizionali. Quali saranno le opere d’architettura che costituiranno i riferimenti esemplari per le future generazioni di progettisti e decision maker africani? L’ospedale di Renzo Piano in Uganda (murature in pisé e leggere coperture fotovoltaiche) perfettamente coerente con lo sperimentalismo che Piano ha praticato precocemente– e che tiene vivo con divertissement architettonici socialmente utili e professionalmente pedagogici come l’unità minima Diogene, seppure costose, e le opere realizzate col gruppo G124 (che propone soluzioni per le periferie italiane non diverse, ma rimodulate, da quelle che Piano propone per le periferie del mondo). O i riferimenti saranno le architetture di Kéré e di Kunlé Adeyemi – architetti formatisi in Occidente e appartenenti alla classe dirigente per nascita, che attingono – più o meno inconsapevolmente – ad altri esperimenti occidentali del passato come quelli di Geller e di tanti altri? Oppure è già l’esperienza diretta, immaginaria o immaginifica dell’Africa e della sua architettura spontanea, la “commozione” (lo stato “emotivo-aurorale”) studiata da Frobenius, ad influenzare da più di qualche tempo, mescolandosi indistintamente nei flutti della cultura visuale globale, l’immaginario degli architetti occidentali, africani e di tutta la civiltà futura globale?
Urban majority: la soglia fra città e slum. L’esempio del Sudan / DEL MONACO, Anna. - (2023), pp. 205-216.
Urban majority: la soglia fra città e slum. L’esempio del Sudan
anna del monaco
2023
Abstract
Durante il secondo Novecento il termine “auto-costruzione” è stato convenzionalmente associato, nel campo dell’architettura e degli studi urbani, ai sistemi di costruzione in grado di sostituire operatori dilettanti ad imprese; soprattutto in particolari località geografiche, dapprima definite Paesi in via di sviluppo poi, in parte, rinominate Paesi emergenti e, più recentemente, al culmine dell’era globale Paesi in transizione. I sistemi di “autocostruzione”, come molti altri temi introdotti a partire dagli anni Sessanta, soprattutto legati a questioni ambientaliste, sono stati considerati raramente dalla pubblicistica “dominante” nel mondo occidentale e accademico, se non prima dell’ultimo ventennio. Il punto di vista dei recenti curatori delle Mostre Biennali di Architettura veneziane, infatti, è sensibilmente cambiato; esso ha tenuto conto sempre di più delle questioni emergenti a livello globale: i temi evidenziano l’interesse di un pubblico di massa “specialistico”, per i temi di progetto che si applicano alla qualità dei luoghi pubblici e dell’abitare nelle popolosissime città mondiali. Per certi versi le Biennali degli ultimi lustri hanno fotografato problemi analoghi o complementari ai temi presentati e discussi nei convegni quadrienna- li dell’Unione Internazionale Architetti. In parallelo, storici dell’architettura occidentali e non occidentali (Jean Louis Cohen, Sibel Bozdogan, Lucia Allais), hanno iniziato a pubblicare rassegne che inseriscono opere realizzate in paesi non occidentali, mai pubblicate in precedenza, superando consuetudini storiografiche di impronta euro-americano-centrica. Il messaggio della Biennale curata da Alejandro Aravena è stato fra i primi a trasmettere con forza l’importanza del cambiamento del punto di vista, comunicato metaforicamente con la forza iconica dell’immagine di Marie Reiche in cima ad una scala, intenta ad osservare le Linee di Nazca nel deserto sudamericano, e proponendo lo slogan “contro l’abbondanza: la pertinenza”, che dice molto sulla missione dell’architettura intesa dal curatore, ed argomentata come segue: «La forma [dei] luoghi, però, non è definita soltanto dalla tendenza estetica del momento o dal talento di un particolare architetto. Essi sono la conseguenza di regole, interessi, economie e politiche, o forse anche della mancanza di coordinamento, dell’indifferenza e della semplice casualità». Aravena, tra l’altro, ha approfondito nella sua opera di architetto e di divulgatore le possibilità di integrare con le nuove tecnologie i sistemi costruttivi tradizionali. Quali saranno le opere d’architettura che costituiranno i riferimenti esemplari per le future generazioni di progettisti e decision maker africani? L’ospedale di Renzo Piano in Uganda (murature in pisé e leggere coperture fotovoltaiche) perfettamente coerente con lo sperimentalismo che Piano ha praticato precocemente– e che tiene vivo con divertissement architettonici socialmente utili e professionalmente pedagogici come l’unità minima Diogene, seppure costose, e le opere realizzate col gruppo G124 (che propone soluzioni per le periferie italiane non diverse, ma rimodulate, da quelle che Piano propone per le periferie del mondo). O i riferimenti saranno le architetture di Kéré e di Kunlé Adeyemi – architetti formatisi in Occidente e appartenenti alla classe dirigente per nascita, che attingono – più o meno inconsapevolmente – ad altri esperimenti occidentali del passato come quelli di Geller e di tanti altri? Oppure è già l’esperienza diretta, immaginaria o immaginifica dell’Africa e della sua architettura spontanea, la “commozione” (lo stato “emotivo-aurorale”) studiata da Frobenius, ad influenzare da più di qualche tempo, mescolandosi indistintamente nei flutti della cultura visuale globale, l’immaginario degli architetti occidentali, africani e di tutta la civiltà futura globale?File | Dimensione | Formato | |
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