Quando si parla di comunicazione del rischio, si assume implicitamente che questa debba produrre effetti di qualche tipo sui suoi destinatari, tipicamente prevenire o mitigare l’impatto di un evento o di un agente fisico, rimandando a importanti questioni etiche che emergono ogni qualvolta una decisione o un’azione possono influire sulla condotta e sulle decisioni di altre persone (Sellnow et al. 2008). Tuttavia, ciò non è sufficiente a garantire che gli effetti della comunicazione del rischio siano quelli attesi o desiderati dai destinatari, e che le conseguenze delle decisioni (incluse quelle comunicative) siano unanimemente accolte e valutate in base alle buone intenzioni dell’emittente, cioè del comunicatore. Il primo problema che si pone è che il concetto di rischio, per quanto pervasivo e rilevante ai fini dell’azione sociale e delle decisioni individuali non ha un significato univoco per tutti. Persino nel campo del risk management, per quanto molte definizioni facciano riferimento ai concetti di “valore”, “probabilità” e “danno”, a oggi non esiste ancora una definizione di rischio condivisa e universale (Rosa 2003; Alemanno 2017). La stessa formula con cui il rischio è convenzionalmente rappresentato e misurato, secondo la quale il rischio è il “prodotto della probabilità di un evento avverso moltiplicata per il danno conseguente”, pone numerosi e rilevanti problemi etici, giacché il risultato dipende da come si definiscono le grandezze, prima ancora di poterle misurare. Come vedremo più avanti, ciascuno di questi termini può assumere significati diversi (ancorché perfettamente legittimi) in base ai contesti sociali e alle disposizioni psicologiche personali del singolo individuo. Semplificando la questione per chiarezza espositiva, l’impossibilità di un’interpretazione condivisa del rischio può essere ricondotta a tre principali fattori. Il primo si riferisce alla dimensione epistemologica e riguarda l’incertezza che per definizione caratterizza qualsiasi forma di valutazione e rappresentazione del rischio (Breakwell 2014). Il secondo motivo, che ha una matrice psicologica, è che il modo in cui le persone (cioè i “profani” e gli “esperti”) percepiscono il rischio e modellano giudizi e decisioni ha un carattere soggettivo ed è influenzato da meccanismi psicologici e sociali (Rohrmann e Renn 2000). La terza è una ragione di natura socioculturale, e riguarda il fatto che il rischio ha assunto una centralità tale da definire le stesse caratteristiche delle società contemporanee, ed è oggetto conteso di nuove forme di rivendicazioni e di controversie politiche e valoriali (Beck 2000), che hanno contribuito alla proliferazione di modi diversi e opposti di concepire e interpretare il rischio, non solo in campo accademico ma anche nei media e nel dibattito pubblico (Zinn 2020).
Principi, aspetti etici e diritti nella comunicazione del rischio / Cerase, Andrea. - (2021), pp. 105-128. - PIGRECO.
Principi, aspetti etici e diritti nella comunicazione del rischio
Andrea Cerase
2021
Abstract
Quando si parla di comunicazione del rischio, si assume implicitamente che questa debba produrre effetti di qualche tipo sui suoi destinatari, tipicamente prevenire o mitigare l’impatto di un evento o di un agente fisico, rimandando a importanti questioni etiche che emergono ogni qualvolta una decisione o un’azione possono influire sulla condotta e sulle decisioni di altre persone (Sellnow et al. 2008). Tuttavia, ciò non è sufficiente a garantire che gli effetti della comunicazione del rischio siano quelli attesi o desiderati dai destinatari, e che le conseguenze delle decisioni (incluse quelle comunicative) siano unanimemente accolte e valutate in base alle buone intenzioni dell’emittente, cioè del comunicatore. Il primo problema che si pone è che il concetto di rischio, per quanto pervasivo e rilevante ai fini dell’azione sociale e delle decisioni individuali non ha un significato univoco per tutti. Persino nel campo del risk management, per quanto molte definizioni facciano riferimento ai concetti di “valore”, “probabilità” e “danno”, a oggi non esiste ancora una definizione di rischio condivisa e universale (Rosa 2003; Alemanno 2017). La stessa formula con cui il rischio è convenzionalmente rappresentato e misurato, secondo la quale il rischio è il “prodotto della probabilità di un evento avverso moltiplicata per il danno conseguente”, pone numerosi e rilevanti problemi etici, giacché il risultato dipende da come si definiscono le grandezze, prima ancora di poterle misurare. Come vedremo più avanti, ciascuno di questi termini può assumere significati diversi (ancorché perfettamente legittimi) in base ai contesti sociali e alle disposizioni psicologiche personali del singolo individuo. Semplificando la questione per chiarezza espositiva, l’impossibilità di un’interpretazione condivisa del rischio può essere ricondotta a tre principali fattori. Il primo si riferisce alla dimensione epistemologica e riguarda l’incertezza che per definizione caratterizza qualsiasi forma di valutazione e rappresentazione del rischio (Breakwell 2014). Il secondo motivo, che ha una matrice psicologica, è che il modo in cui le persone (cioè i “profani” e gli “esperti”) percepiscono il rischio e modellano giudizi e decisioni ha un carattere soggettivo ed è influenzato da meccanismi psicologici e sociali (Rohrmann e Renn 2000). La terza è una ragione di natura socioculturale, e riguarda il fatto che il rischio ha assunto una centralità tale da definire le stesse caratteristiche delle società contemporanee, ed è oggetto conteso di nuove forme di rivendicazioni e di controversie politiche e valoriali (Beck 2000), che hanno contribuito alla proliferazione di modi diversi e opposti di concepire e interpretare il rischio, non solo in campo accademico ma anche nei media e nel dibattito pubblico (Zinn 2020).I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.