Una riflessione sulla figura di Claudio D’Amato non può prescindere da considerazioni sulla nascita e lo sviluppo della Scuola di Bari. La dedizione alla costruzione di una Scuola di Architettura che si fondasse su un modello solidamente strutturato, è stata totalizzante nella sua esperienza. Un’architettura didattica che faceva del terzo ciclo, espresso con il dottorato, la chiave di volta di tutto il sistema formativo. La scuola di D’Amato ha sempre professato il ruolo centrale del progetto e delle discipline compositive, provocando spesso malumori e incomprensioni. La perdita di una visione organica dell’architettura (espressa nel legame tra sapere e saper fare) e la deriva nella iper-specializzazione e frammentazione della conoscenza (che lo ha spinto a difendere il modello del ciclo unico), potevano essere scongiurati, a suo giudizio, solo attraverso la centralità del progetto, che è, per sua natura, un atto sintetico. In questa visione olistica si manifestava la sua concezione umanistica dell’architettura, posizione sicuramente originale in un Politecnico, e a tratti poco compresa. La sua azione è stata guidata dalla responsabilità di dover trasmettere capillarmente la conoscenza, con l’obiettivo di garantire a tutti, anche ai meno talentuosi, una formazione di base corretta e un mestiere onesto, consapevole e condiviso. D’Amato sentiva l’urgenza di offrire una bussola allo studente per non lasciarlo in balia di una navigazione senza orientamento in un mondo di cui percepiva pienamente la complessità; non a caso il suo riferimento agli Argonauti e al mito di Ulisse era costante. Ma sentiva, sulla sua pelle, che il progetto è un processo difficile, una ricerca sofferta, non riconducibile a raccomandazioni e regole da trasmettere meccanicamente; sentiva che il progetto non esiste senza teoria e che è impossibile senza metodo. Per questo si è dedicato alla ricerca dei principi su cui fondarlo e con cui trasmetterlo, facendo ricorso al pensiero critico e all’approccio metodologico. Ha ricercato in tanti modi gli strumenti per il progetto, forse rendendosi conto, ad un certo punto, che l’architettura non può trovare le sue leggi solo nella sua autonomia formale e che non può nascere, se non in rari casi, neppure da una felice intuizione creativa. La lezione della storia, la dimensione artigianale del mestiere, l’approccio tipologico, la disciplina della costruzione, sono state le tappe di un percorso unitario, testimoniato dai modelli, maestri e compagni di strada, lontani e vicini, che D’Amato si è scelto, a cominciare da Ridolfi fino a Schinkel. Tutte questioni che ha approfondito nell’esperienza del Dottorato, dove ha espresso e trasmesso la sua attitudine al metodo della ricerca, applicandosi a temi fortemente identitari, ritenuti da più parti desueti e anacronistici, ma in seguito rivalutati dalla comunità scientifica. Del ritorno ai temi della composizione antica e al mestiere del costruire non ne faceva una questione di stile e nemmeno di linguaggio, ma di riconquista di quei valori originari, la cui perdita attribuiva, forse troppo ingenerosamente e ideologicamente, al pensiero cartesiano. E tuttavia questo ritorno ai fondamenti si accompagnava ad un’insospettabile ansia di innovazione, a una curiosità e a un’attrazione verso il nuovo, verso il pensiero dei giovani. La sua visione della scuola era basata su valori universali e assoluti (che l’hanno resa per molto tempo piuttosto chiusa e incomprensibile all’esterno), ma al tempo stesso era profondamente legata al luogo dove si è radicata: la terra di Puglia. D’Amato intendeva il territorio non in senso localistico, né tanto meno come terreno strategico di contrattazione politica, ma lo interpretava nei suoi caratteri culturali e materiali, consolidati e condivisi. Il lascito di D’Amato è complesso e delicato: non si è trattato di un meccanico e lineare passaggio di consegne. Ma come tutte le esperienze fortemente caratterizzate e identitarie, ha bisogno di essere metabolizzato e criticamente esaminato, per essere reimmesso nel flusso vitale della Scuola di Bari e consegnato al suo futuro.
La ricerca dei fondamenti per la didattica del progetto nell’esperienza di Claudio D’Amato / Menghini, ANNA BRUNA. - (2020), pp. 207-216. - ARCHINAUTI.
La ricerca dei fondamenti per la didattica del progetto nell’esperienza di Claudio D’Amato
Anna Bruna Menghini
2020
Abstract
Una riflessione sulla figura di Claudio D’Amato non può prescindere da considerazioni sulla nascita e lo sviluppo della Scuola di Bari. La dedizione alla costruzione di una Scuola di Architettura che si fondasse su un modello solidamente strutturato, è stata totalizzante nella sua esperienza. Un’architettura didattica che faceva del terzo ciclo, espresso con il dottorato, la chiave di volta di tutto il sistema formativo. La scuola di D’Amato ha sempre professato il ruolo centrale del progetto e delle discipline compositive, provocando spesso malumori e incomprensioni. La perdita di una visione organica dell’architettura (espressa nel legame tra sapere e saper fare) e la deriva nella iper-specializzazione e frammentazione della conoscenza (che lo ha spinto a difendere il modello del ciclo unico), potevano essere scongiurati, a suo giudizio, solo attraverso la centralità del progetto, che è, per sua natura, un atto sintetico. In questa visione olistica si manifestava la sua concezione umanistica dell’architettura, posizione sicuramente originale in un Politecnico, e a tratti poco compresa. La sua azione è stata guidata dalla responsabilità di dover trasmettere capillarmente la conoscenza, con l’obiettivo di garantire a tutti, anche ai meno talentuosi, una formazione di base corretta e un mestiere onesto, consapevole e condiviso. D’Amato sentiva l’urgenza di offrire una bussola allo studente per non lasciarlo in balia di una navigazione senza orientamento in un mondo di cui percepiva pienamente la complessità; non a caso il suo riferimento agli Argonauti e al mito di Ulisse era costante. Ma sentiva, sulla sua pelle, che il progetto è un processo difficile, una ricerca sofferta, non riconducibile a raccomandazioni e regole da trasmettere meccanicamente; sentiva che il progetto non esiste senza teoria e che è impossibile senza metodo. Per questo si è dedicato alla ricerca dei principi su cui fondarlo e con cui trasmetterlo, facendo ricorso al pensiero critico e all’approccio metodologico. Ha ricercato in tanti modi gli strumenti per il progetto, forse rendendosi conto, ad un certo punto, che l’architettura non può trovare le sue leggi solo nella sua autonomia formale e che non può nascere, se non in rari casi, neppure da una felice intuizione creativa. La lezione della storia, la dimensione artigianale del mestiere, l’approccio tipologico, la disciplina della costruzione, sono state le tappe di un percorso unitario, testimoniato dai modelli, maestri e compagni di strada, lontani e vicini, che D’Amato si è scelto, a cominciare da Ridolfi fino a Schinkel. Tutte questioni che ha approfondito nell’esperienza del Dottorato, dove ha espresso e trasmesso la sua attitudine al metodo della ricerca, applicandosi a temi fortemente identitari, ritenuti da più parti desueti e anacronistici, ma in seguito rivalutati dalla comunità scientifica. Del ritorno ai temi della composizione antica e al mestiere del costruire non ne faceva una questione di stile e nemmeno di linguaggio, ma di riconquista di quei valori originari, la cui perdita attribuiva, forse troppo ingenerosamente e ideologicamente, al pensiero cartesiano. E tuttavia questo ritorno ai fondamenti si accompagnava ad un’insospettabile ansia di innovazione, a una curiosità e a un’attrazione verso il nuovo, verso il pensiero dei giovani. La sua visione della scuola era basata su valori universali e assoluti (che l’hanno resa per molto tempo piuttosto chiusa e incomprensibile all’esterno), ma al tempo stesso era profondamente legata al luogo dove si è radicata: la terra di Puglia. D’Amato intendeva il territorio non in senso localistico, né tanto meno come terreno strategico di contrattazione politica, ma lo interpretava nei suoi caratteri culturali e materiali, consolidati e condivisi. Il lascito di D’Amato è complesso e delicato: non si è trattato di un meccanico e lineare passaggio di consegne. Ma come tutte le esperienze fortemente caratterizzate e identitarie, ha bisogno di essere metabolizzato e criticamente esaminato, per essere reimmesso nel flusso vitale della Scuola di Bari e consegnato al suo futuro.File | Dimensione | Formato | |
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