In un saggio del 1976 intitolato Le retour de Schelling, Tilliette scriveva: «è un fatto veramente notevole che nessun importante pensatore della nostra epoca abbia ignorato Schelling: Heidegger, Jaspers, Gabriel Marcel, Berdiaeff, Bloch, Merleau-Ponty… tutti hanno subito l’attrazione di Schelling. […] Odo Marquard, in un articolo tanto ingegnoso quanto malizioso, vede in lui il “contemporaneo in incognito”. La famosa plasticità del filosofo, quella plasticità di cui Marx si prendeva gioco in una celebre invettiva, ha contribuito al caso. Ma non è affatto soccombere a un miraggio retrospettivo attribuirgli la paternità di discipline fiorenti come la psicologia del profondo, l’esegesi dei testi filosofici, la filosofia della religione, l’interpretazione dei miti, l’ermeneutica». Che la plasticità della filosofia di Schelling sia alla base del fascino che il suo pensiero ha esercitato sui contemporanei e sulle filosofie successive è un fatto, ma come tutti i fatti merita di essere chiarito e compreso. Infatti, se per un verso, è proprio grazie a questa plasticità che la riflessione schellinghiana ha precorso alcuni motivi che avrebbero trovato soltanto nel Novecento un articolato sviluppo; per un altro verso, questa stessa plasticità è all’origine delle immagini più stereotipate del filosofo di Leonberg, accusato, a seconda delle differenti temperie culturali, di aver incarnato posizioni reazionarie, mistiche o, più genericamente, romantiche. Accuse che hanno trovato il loro punto di approdo nella critica, secondo cui il sistema schellinghiano non avrebbe avuto uno sviluppo continuo e coerente, ma sarebbe stato caratterizzato da bruschi cambi di rotta, che, solo con molte difficoltà, possono essere assunti come differenti declinazioni di un percorso teorico univoco.
Una ricerca in divenire. Nuove prospettive su Schelling / MATTEO VINCENZO, D'Alfonso; Tarli, Simone; Pitillo, Federica. - In: LO SGUARDO. - ISSN 2036-6558. - (2020), pp. 1-469.
Una ricerca in divenire. Nuove prospettive su Schelling
Simone Tarli
Co-primo
;Federica Pitillo
Co-primo
2020
Abstract
In un saggio del 1976 intitolato Le retour de Schelling, Tilliette scriveva: «è un fatto veramente notevole che nessun importante pensatore della nostra epoca abbia ignorato Schelling: Heidegger, Jaspers, Gabriel Marcel, Berdiaeff, Bloch, Merleau-Ponty… tutti hanno subito l’attrazione di Schelling. […] Odo Marquard, in un articolo tanto ingegnoso quanto malizioso, vede in lui il “contemporaneo in incognito”. La famosa plasticità del filosofo, quella plasticità di cui Marx si prendeva gioco in una celebre invettiva, ha contribuito al caso. Ma non è affatto soccombere a un miraggio retrospettivo attribuirgli la paternità di discipline fiorenti come la psicologia del profondo, l’esegesi dei testi filosofici, la filosofia della religione, l’interpretazione dei miti, l’ermeneutica». Che la plasticità della filosofia di Schelling sia alla base del fascino che il suo pensiero ha esercitato sui contemporanei e sulle filosofie successive è un fatto, ma come tutti i fatti merita di essere chiarito e compreso. Infatti, se per un verso, è proprio grazie a questa plasticità che la riflessione schellinghiana ha precorso alcuni motivi che avrebbero trovato soltanto nel Novecento un articolato sviluppo; per un altro verso, questa stessa plasticità è all’origine delle immagini più stereotipate del filosofo di Leonberg, accusato, a seconda delle differenti temperie culturali, di aver incarnato posizioni reazionarie, mistiche o, più genericamente, romantiche. Accuse che hanno trovato il loro punto di approdo nella critica, secondo cui il sistema schellinghiano non avrebbe avuto uno sviluppo continuo e coerente, ma sarebbe stato caratterizzato da bruschi cambi di rotta, che, solo con molte difficoltà, possono essere assunti come differenti declinazioni di un percorso teorico univoco.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.