L’architettura e la pianificazione urbana sono state spesso viste come discipline a forte contenuto tecnico e scientifico e per questo considerate avere un carattere sostanzialmente “neutro” (Sanchez de Madariaga, 2013). Il movimento femminista in ambito internazionale, soprattutto nei paesi di matrice anglosassone, ha messo in luce come la costruzione della città sia stata tradizionalmente dominata da una visione maschile dello spazio o come la segregazione spaziale dei suburbi abbia penalizzato la libertà di movimento e di azione delle donne (Greed 1994). Da queste riflessioni sono nati alcuni testi seminali, come lo scritto di Dolores Hayden What would a non-sexist city be like? (1980) o il volume collettivo di Matrix Making space: women and the man-made environment (1984). Questi testi, oltre a contenere la denuncia della non-neutralità dell’ambiente costruito, contengono alcune proposte, che nascono dalla necessità di alleggerire il lavoro domestico, sia come attività prevalente, sia come attività secondaria (sempre stata comunque a carico delle donne, indipendentemente dalle loro occupazioni al di fuori della famiglia). In Italia la riflessione femminista, sviluppata a seguito dei movimenti degli anni Settanta, ha solo sfiorato argomenti di carattere progettuale o spaziale, considerandoli meno strutturali a vantaggio di esigenze più immediate come la salute della donna, il controllo delle nascite o la rappresentanza politica. Solo in anni più recenti si sta facendo strada una diversa consapevolezza nei confronti dello spazio vissuto, come esito di pratiche, e dello spazio progettato come esito di saperi che rilevano anche della competenza delle donne (Mattogno 2013). La ricerca presso la biblioteca e gli archivi del Getty Research Institut intende approfondire una rassegna critica delle proposte di progettazione “alternativa” nate dalle riflessioni attorno agli spazi per il lavoro domestico e di cura, a partire dalle “case senza cucina” progettate Alice Austin all’inizio del ‘900 a Los Angeles, fino ad esaminare alcune recenti esperienze europee e italiane. Lo scopo è quello di contribuire alla memoria delle idee e delle sperimentazioni del passato e del presente al fine di ricomporre delle genealogie di genere e argomentare le richieste contemporanee di spazi di condivisione e relazione. La ricerca sarà sviluppata seguendo tre principali momenti: il primo riguarda la fine dell’Ottocento, quando le donne hanno cominciato ad avere accesso ai corsi di laurea, a conquistare spazi e visibilità nelle esposizioni universali (Pepchinski 2007), a manifestare per il diritto di voto. Il secondo si sofferma sugli anni del secondo dopoguerra, ed in particolare quelli del boom economico degli anni ’60, quando l’impiego di manodopera femminile nei lavori di produzione diventa una realtà consolidata. Questo avviene, però, senza che venga messa in discussione né la tradizionale immagine della donna come angelo del focolare, né il carico di lavoro che le viene assegnato. Per lungo tempo il lavoro produttivo femminile è stato considerato accessorio: è all’uomo che spetta il mantenimento della famiglia, mentre il lavoro principale delle donne rimane in ambito domestico, a disposizione dei famigliari (De Beauvoir 1949). Le donne si ritrovano quindi un doppio carico di lavoro da “conciliare” (Rodano 2010). Parallelamente la costruzione di nuovi quartieri, carenti di servizi e spazi pubblici adeguati, fa nascere, sulla spinta dell’associazionismo femminile, la richiesta sempre più pressante di una «quota di città indispensabile» per ospitare servizi, scuole, spazi pubblici, verde, trasporti. La terza fase riguarda gli anni ‘90, quando la riflessione delle donne si focalizza attorno a due grandi temi: una partecipazione allargata (e rivendicata) alla progettazione della città e l’adozione dei piani dei tempi e degli orari. Sperimentazioni locali puntano a garantire per tutti i cittadini tre diritti fondamentali: il diritto all’autogoverno del tempo, il diritto a prestare e ricevere cura, il diritto alla libera espressione della propria personalità (Macchi 2006). Tre diritti che sono la diretta espressione delle istanze di “nuova vita quotidiana”, largamente condivise in quegli anni (Sanchez de Madariaga 2004). La contemporaneità vede affiorare nuove esigenze: l’appropriazione di spazi di condivisione per la sperimentazione di nuovi stili di vita e di nuove progettualità aperte alla cittadinanza (cohousing, case delle donne) e l’appropriazione dello spazio pubblico come luogo di visibilità e arena politica. Questo avviene tramite passeggiate indecorose, camminate femministe, sfilate e altre pratiche, come la cosiddetta “toponomastica femminista” (pratica che consiste nel cambiare il nome di piazze e vie intitolandole a donne). Seguendo questa storia è possibile vedere l’evoluzione delle progettualità sugli spazi (dalla cucina come simbolo del lavoro domestico per arrivare allo spazio pubblico come simbolo della politica e alla città). È inoltre possibile riconoscere il “partire da sè” come pratica progettuale attraverso cui interrogare il presente e desiderare il futuro e ridare alla parola abitare il suo senso complesso.

/ Mattogno, Claudia. - (2019).

Mattogno, Claudia
2019

Abstract

L’architettura e la pianificazione urbana sono state spesso viste come discipline a forte contenuto tecnico e scientifico e per questo considerate avere un carattere sostanzialmente “neutro” (Sanchez de Madariaga, 2013). Il movimento femminista in ambito internazionale, soprattutto nei paesi di matrice anglosassone, ha messo in luce come la costruzione della città sia stata tradizionalmente dominata da una visione maschile dello spazio o come la segregazione spaziale dei suburbi abbia penalizzato la libertà di movimento e di azione delle donne (Greed 1994). Da queste riflessioni sono nati alcuni testi seminali, come lo scritto di Dolores Hayden What would a non-sexist city be like? (1980) o il volume collettivo di Matrix Making space: women and the man-made environment (1984). Questi testi, oltre a contenere la denuncia della non-neutralità dell’ambiente costruito, contengono alcune proposte, che nascono dalla necessità di alleggerire il lavoro domestico, sia come attività prevalente, sia come attività secondaria (sempre stata comunque a carico delle donne, indipendentemente dalle loro occupazioni al di fuori della famiglia). In Italia la riflessione femminista, sviluppata a seguito dei movimenti degli anni Settanta, ha solo sfiorato argomenti di carattere progettuale o spaziale, considerandoli meno strutturali a vantaggio di esigenze più immediate come la salute della donna, il controllo delle nascite o la rappresentanza politica. Solo in anni più recenti si sta facendo strada una diversa consapevolezza nei confronti dello spazio vissuto, come esito di pratiche, e dello spazio progettato come esito di saperi che rilevano anche della competenza delle donne (Mattogno 2013). La ricerca presso la biblioteca e gli archivi del Getty Research Institut intende approfondire una rassegna critica delle proposte di progettazione “alternativa” nate dalle riflessioni attorno agli spazi per il lavoro domestico e di cura, a partire dalle “case senza cucina” progettate Alice Austin all’inizio del ‘900 a Los Angeles, fino ad esaminare alcune recenti esperienze europee e italiane. Lo scopo è quello di contribuire alla memoria delle idee e delle sperimentazioni del passato e del presente al fine di ricomporre delle genealogie di genere e argomentare le richieste contemporanee di spazi di condivisione e relazione. La ricerca sarà sviluppata seguendo tre principali momenti: il primo riguarda la fine dell’Ottocento, quando le donne hanno cominciato ad avere accesso ai corsi di laurea, a conquistare spazi e visibilità nelle esposizioni universali (Pepchinski 2007), a manifestare per il diritto di voto. Il secondo si sofferma sugli anni del secondo dopoguerra, ed in particolare quelli del boom economico degli anni ’60, quando l’impiego di manodopera femminile nei lavori di produzione diventa una realtà consolidata. Questo avviene, però, senza che venga messa in discussione né la tradizionale immagine della donna come angelo del focolare, né il carico di lavoro che le viene assegnato. Per lungo tempo il lavoro produttivo femminile è stato considerato accessorio: è all’uomo che spetta il mantenimento della famiglia, mentre il lavoro principale delle donne rimane in ambito domestico, a disposizione dei famigliari (De Beauvoir 1949). Le donne si ritrovano quindi un doppio carico di lavoro da “conciliare” (Rodano 2010). Parallelamente la costruzione di nuovi quartieri, carenti di servizi e spazi pubblici adeguati, fa nascere, sulla spinta dell’associazionismo femminile, la richiesta sempre più pressante di una «quota di città indispensabile» per ospitare servizi, scuole, spazi pubblici, verde, trasporti. La terza fase riguarda gli anni ‘90, quando la riflessione delle donne si focalizza attorno a due grandi temi: una partecipazione allargata (e rivendicata) alla progettazione della città e l’adozione dei piani dei tempi e degli orari. Sperimentazioni locali puntano a garantire per tutti i cittadini tre diritti fondamentali: il diritto all’autogoverno del tempo, il diritto a prestare e ricevere cura, il diritto alla libera espressione della propria personalità (Macchi 2006). Tre diritti che sono la diretta espressione delle istanze di “nuova vita quotidiana”, largamente condivise in quegli anni (Sanchez de Madariaga 2004). La contemporaneità vede affiorare nuove esigenze: l’appropriazione di spazi di condivisione per la sperimentazione di nuovi stili di vita e di nuove progettualità aperte alla cittadinanza (cohousing, case delle donne) e l’appropriazione dello spazio pubblico come luogo di visibilità e arena politica. Questo avviene tramite passeggiate indecorose, camminate femministe, sfilate e altre pratiche, come la cosiddetta “toponomastica femminista” (pratica che consiste nel cambiare il nome di piazze e vie intitolandole a donne). Seguendo questa storia è possibile vedere l’evoluzione delle progettualità sugli spazi (dalla cucina come simbolo del lavoro domestico per arrivare allo spazio pubblico come simbolo della politica e alla città). È inoltre possibile riconoscere il “partire da sè” come pratica progettuale attraverso cui interrogare il presente e desiderare il futuro e ridare alla parola abitare il suo senso complesso.
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