Immigrati e Discriminazioni in Italia Negli ultimi decenni vi è stato un crescente interesse, nei paesi occidentali, per il tema della discriminazione degli immigrati. In effetti, il tema della discriminazione non era nuovo: esso era stato tuttavia studiato precedentemente e in modo più intenso dopo la fine della II guerra mondiale, soprattutto in relazione alla condizione di minoranze etniche o etnico-religiose appartenenti alla popolazione nativa. Lo slittamento dell’interesse degli studiosi verso la popolazione immigrata si è verificato in connessione al fenomeno di un assai consistente aumento delle migrazioni internazionali, in particolare di quelle aventi come destinazione i paesi dell’Occidente. Tale interesse è stato acuito al tempo stesso dai risultati di molti studi, condotti nei paesi più interessati dalla immigrazione internazionale, che hanno rilevato il forte impatto negativo della discriminazione sulle persone vittime di essa. Tale impatto sembra produrre nelle vittime conseguenze gravi, dai disturbi psichici, alla non-integrazione, al risentimento e alla aggressività verso la società ospitante e i suoi nativi, fino a manifestazioni collettive di violenza e ad atti di terrorismo. Un usuale modo di studiare la discriminazione subita dagli immigrati è consistito nell’analisi dei meccanismi e delle determinanti dell’atteggiamento di ostilità dei nativi nei confronti degli immigrati. Questo approccio ha prodotto risultati di grande interesse. Tuttavia, esso presenta anche limitazioni. Dal momento che le motivazioni dell’atto sociale sono generalmente non chiare, vi può essere discriminazione effettiva che non è percepita da coloro che ne sono l’oggetto, e discriminazione percepita laddove essa era assente. Gli immigrati possono interpretare come discriminazione i loro problemi di mobilità sociale dovuti a mancanza di qualificazione per il mercato della società ospitante, carenza di risorse e inadeguate capacità linguistiche. In definitiva, tuttavia, la fondatezza o meno della percezione di essere discriminati non è determinante per le conseguenze che ne discendono. Come intuito da Thomas e Thomas (1928: 571-572) a proposito della percezione dei fatti sociali in generale: “It is not important whether or not the interpretation is correct — if men define situations as real, they are real in their consequences”. Alla luce di tutto ciò, la presente ricerca si è posta come obiettivo non l’individuazione delle determinanti dell’ostilità dei nativi, ma l’analisi delle condizioni socio-economiche individuali associate con la percezione, da parte degli immigrati, di essere discriminati. Si è in effetti ritenuto che le già menzionate conseguenze negative della discriminazione possono essere riportate alla ostilità dei nativi, ma la loro condizione necessaria e sufficiente è la sola percezione di essere discriminati. La ricerca in oggetto si è basata sui dati raccolti dall’Istat nel corso della prima vasta indagine nazionale condotta in Italia sulla integrazione degli immigrati. Lo stesso Istat ha poi affidato l’analisi dei dati a vari gruppi di ricerca, composti in massima parte da docenti universitari, distribuendo i vari temi sulla base delle competenze specifiche di ciascun gruppo. L’analisi della discriminazione degli immigrati in Italia è stata condotta concentrando l’attenzione su due principali contesti: la discriminazione in ambito lavorativo e la assai meno studiata discriminazione in ambito quotidiano. Per la discriminazione in ambito lavorativo, presente in circa 17% dei casi, agli intervistati era stato chiesto in cosa fosse consistita la discriminazione eventualmente subita: è prevalso di gran lunga (34 per cento degli eventi segnalati) “un clima ostile da parte di superiori, colleghi o clienti” seguito da “carichi di lavoro eccessivi o penalizzanti” (quasi 19 per cento degli eventi). Per la discriminazione nella vita quotidiana, presente nel 12% dei casi, si aveva a che fare non con una sola variabile dicotomica (sì/no), come nel caso della discriminazione in ambito lavorativo, ma con sei variabili dicotomiche, ciascuna delle quali riguardante uno specifico contesto della vita quotidiana: discriminazione nella ricerca di una casa, nella sanità, nella richiesta di un prestito, nella richiesta di una assicurazione, discriminazione nei locali pubblici, e discriminazione nei rapporti con i vicini. Per individuare fattori associati con la presenza o meno di una discriminazione percepita, si è fatto riferimento alle caratteristiche individuali degli immigrati: genere, età al momento dell’intervista, età all’arrivo in Italia, anni di permanenza in Italia, stato civile, cittadinanza italiana o meno, titolo di studio, religione di appartenenza, condizione lavorativa, qualifica lavorativa, paese di origine, area geografica di origine, e categoria di sviluppo economico del paese di origine. Non è stato invece possibile condurre una comparazione tra prima e seconda generazione degli immigrati, per via dell’esiguo numero di osservazioni riguardanti immigrati di seconda generazione con esperienze lavorative. Per tale motivo, si è fatto ricorso ai dati riguardanti l’età degli immigrati al tempo dell’arrivo in Italia. Su questa base, si è costruita una categoria – proxy della seconda generazione – comprendente gli stranieri nati in Italia e gli immigrati con età all’arrivo tra 0 e 5 anni. Gli immigrati in età pre-scolare – appartenenti alla cosiddetta 1.75 generation – sono i più simili agli stranieri nati nel paese ospitante (seconda generazione) in quanto non hanno quasi memoria del loro paese di origine, non sono stati alfabetizzati nella lingua dei loro genitori, parlano senza accento la lingua del paese ospitante e la loro socializzazione è avvenuta sostanzialmente in questo ultimo. Essi dovrebbero pertanto avere migliori chances di integrazione e assimilazione. L’analisi descrittiva è stata effettuata ricorrendo a distribuzioni univariate e bivariate. Per questi calcoli, e per tutti gli altri riguardanti proporzioni e medie, si è tenuto conto dei pesi di popolazione del campione. Per valutare l’indipendenza tra le variabili, si è utilizzato il test statistico del chi-quadrato di Pearson, con la correzione di secondo grado, per il disegno di campionamento, di Rao e Scott (1984). Successivamente, i dati disponibili sopra menzionati sono stati utilizzati – nel caso della discriminazione in ambito lavorativo – per una analisi basata su modelli di regressione logistica (Generalized Linear Models, binomial family, logistic type, maximum likelihood optimization), al fine di analizzare l’impatto di ciascuna delle caratteristiche sopra indicate, coeteris paribus, sulla variabile dipendente binaria (il fatto di avere percepito o meno una discriminazione nei propri confronti in ambito lavorativo). Per la discriminazione in ambito di vita quotidiana, in considerazione della natura della variabile dipendente (costituita dal conteggio di eventi di numero comunque limitato) e della forte dispersione dei suoi valori (che presentano una varianza assai superiore alla media), si è utilizzato un modello binomiale negativo (Negative binomial, mean-dispersion model). In tale modello, i valori della variabile dipendente sono ritenuti prodotti da un processo di conteggio di tipo Poisson (valori costituiti da numeri interi non negativi, i cui incrementi sono indipendenti) e il modello stesso costituisce una generalizzazione di una regressione di Poisson, caratterizzata dal fatto di non assumere, come invece fa questa ultima, che la varianza sia uguale alla media. I risultati ottenuti mostrano che la discriminazione percepita dagli immigrati è più frequente negli uomini che nelle donne, in coloro che sono giunti in Italia ad una età maggiore, nei celibi più che nei coniugati, negli immigrati privi di titoli di studio o con titolo basso, in coloro che appartengono a determinate religioni (mussulmana, cristiana protestante, cattolica), in coloro che hanno una posizione nel lavoro meno prestigiosa, che provengono da un paese con un basso reddito medio, o da un’area geografica come l’Africa sub-sahariana, il Nord Africa e il Medio Oriente. La discriminazione percepita è meno frequente, invece, in coloro che si dichiarano non appartenenti ad alcuna religione, e in coloro che sono giunti da poco in Italia. In effetti, l’impatto del tempo trascorso in Italia sulla discriminazione percepita ha un andamento curvilineo: la percentuale dei casi di discriminazione è bassa nel periodo immediatamente successivo all’arrivo, cresce poi nel tempo e successivamente diminuisce. L’impatto della variabile età sulla discriminazione percepita segue anche esso un andamento curvilineo, prima crescente poi decrescente. Anche la variabile istruzione ha un impatto non lineare: se alla bassa istruzione segue una più alta percentuale di discriminati, la percentuale di laureati che si dichiarano discriminati è maggiore di quella dei diplomati. Per quanto riguarda la variabile genere, la minore discriminazione percepita dalle donne, già riscontrata in ambito lavorativo, e confermata dai dati sulla vita quotidiana. Questa conferma, tuttavia, si verifica solo a livello di dati aggregati. Se si analizzano i risultati per ciascuno dei sei specifici contesti di vita quotidiana, si scopre che la maggiore discriminazione percepita dagli uomini rispetto alle donne e molto forte nella ricerca di una casa (13,7 contro 7,8 per cento), e significativa nella ricerca di un prestito, e non-significativa nelle assicurazioni e nei rapporti con i vicini, mentre le proporzioni si rovesciano per quanto riguarda locali pubblici e sanità, con le donne che percepiscono maggiore discriminazione; per la sanità, in particolare, la differenza e significativa (3,2 per cento delle donne contro 2,2 per cento degli uomini). Nella discriminazione percepita nella vita quotidiana, il rischio di discriminazione per le donne è significativamente inferiore a quello degli uomini solo a parità di area di origine e di sviluppo economico del paese di origine, suggerendo che la rilevanza di queste due ultime variabili è determinante. La ragione di quanto precede consiste nel fatto che i valori di discriminazione percepita dalle donne originarie di certe aree geografiche e provenienti da certi livelli di sviluppo sono superiori a quelli degli uomini che provengono da altre aree e livelli di sviluppo. Dai dati infatti emerge che il valore medio di discriminazione percepita dalle donne originarie dell’Africa Sub-Sahariana è inferiore a quello degli uomini della stessa area ma comunque altissimo, pari a quello degli uomini originari dell’Asia Centrale e superiore a quelli degli uomini di tutte le altre aree. Le donne originarie dell’Europa Occidentale e dell’America del Nord presentano un valore medio di incidenza di discriminazione decisamente basso ma superiore a quello degli uomini originari delle stesse aree; in altri casi – es., America Latina – le differenze sono nulle; mentre gli uomini presentano una discriminazione assai superiore a quella delle donne quando l’area di origine è Asia Centrale, Asia Meridionale o Medio Oriente e Africa del Nord. Al di là di queste comparazioni, i risultati ottenuti permettono di meglio comprendere alcuni aspetti delle possibili determinanti della discriminazione percepita dagli immigrati. Si può notare come la presente ricerca ha prodotto risultati inediti per quanto riguarda due aspetti – il genere e l’età degli immigrati – il cui impatto sulla discriminazione è considerato di regola poco controverso. Nella letteratura corrente, il genere è considerato come significativo tout court per la discriminazione percepita. I risultati qui ottenuti mostrano invece una situazione articolata, in cui la maggiore probabilità complessiva di discriminazione sul lavoro degli uomini rispetto alle donne è solo la somma di situazioni assai differenti che si verificano per gli immigrati a seconda delle varie aree geografiche e dei vari paesi di origine. Da un punto di vista logico, è difficile immaginare che le donne siano effettivamente meno discriminate degli uomini nel lavoro; ed è ancora più difficile sostenere questa ipotesi alla luce del fatto che, nel caso di certe aree di provenienza, sono le donne a percepire maggiore discriminazione. Si può pertanto avanzare una diversa ipotesi, e cioè che queste differenze siano dovute a differenze tra le donne stesse per quanto riguarda le esperienze e l’atteggiamento nei confronti del mondo del lavoro, a loro volta associati anche con la cultura e le condizioni di origine. Anche i risultati ottenuti in materia di discriminazione nella vita quotidiana, suggeriscono – per quanto riguarda le differenze di discriminazione tra uomini e donne – un quadro più articolato di quello usualmente previsto. La maggiore discriminazione percepita dagli uomini è significativa soltanto se si tiene conto del contesto di ricerca di una casa; emerge al tempo stesso una maggiore discriminazione percepita dalle donne nei locali pubblici e soprattutto nella sanità, contesti dove è emerso essere rilevante il loro ruolo di madri. I risultati ottenuti dai modelli di regressione multipla applicati alla vita quotidiana sono in linea con quanto precede: le differenze di discriminazione tra uomini e donne sono significative solo se si controlla per il livello di sviluppo del paese di origine e l’area geografica. In effetti, le donne originarie dell’Africa Sub-Sahariana o di altri paesi low-income presentano tassi di discriminazione più alti degli uomini provenienti da altre aree o da livelli di sviluppo medio-alti. Mentre gli uomini originari in particolare dell’Asia Centrale, del Medio Oriente e Africa del Nord, ossia di aree dove prevale la religione musulmana, presentano valori medi di discriminazione molto più alti delle donne originarie delle stesse aree: un fatto che potrebbe essere associato con il ruolo più domestico svolto dalle donne in determinati contesti. A sua volta, l’età è comunemente ritenuta associata con una decrescente probabilità di discriminazione. I risultati della presente ricerca fanno emergere, prima del decremento, un aumento della discriminazione all’avanzare dell’età, con un picco nella discriminazione sul lavoro registrato dalla classe di età 35-44 e un picco nella discriminazione nella vita quotidiana registrato dalla classe di età 25-34. I risultati suggeriscono che, dopo un più incurante periodo giovanile, le probabilità di discriminazione percepita aumentino significativamente all’aumentare delle responsabilità e dei rapporti socio-economici, per poi diminuire gradualmente con la maturità e la condizione di anziano. Il picco posticipato della discriminazione nella vita lavorativa coincide peraltro con una età in cui le aspettative di affermazione professionale, le responsabilità familiari ed anche la conoscenza delle norme si fanno mediamente più forti; e parallelamente dovrebbe crescere anche la sensibilità a reali o presunti atteggiamenti discriminatori da parte dei nativi. Per quanto riguarda lo stato civile, i risultati attuali confermano l’orientamento prevalente della letteratura: la condizione di coniugato è associata con più basso livello di discriminazione. In linea con la letteratura sono anche i risultati riguardanti occupazione e posizione lavorativa: una migliore condizione socio-economica è associata con un livello più basso di discriminazione. Tuttavia, i valori di rischio di discriminazione, per coloro che occupano posizioni nel lavoro meno prestigiose, sono nella vita quotidiana più bassi dei valori di rischio che essi corrono nel contesto lavorativo: fatto che suggerisce una minore rilevanza dello status socio-economico nel contesto civico. Il livello di istruzione, a sua volta, non è perfettamente sovrapponibile alle precedenti misure della condizione socio-economica. La sua associazione con la discriminazione non è infatti lineare. Livelli più alti di istruzione sono sempre associati con minore percezione di discriminazione, ma le probabilità di discriminazione per i laureati sono maggiori di quelle per i diplomati, sia nel lavoro che nella vita quotidiana. Ciò suggerisce che i laureati possano essere condizionati da maggiori aspettative, connaturate al titolo di studio, che non sempre trovano risposte soddisfacenti nel contesto lavorativo corrispondente al titolo, più competitivo di quello in cui operano altri soggetti meno istruiti, e neppure nella vita quotidiana, dove il possesso di una laurea non cancella necessariamente l’etichetta di straniero. Per quanto riguarda il ruolo del livello economico del paese di origine e della provenienza da determinate aree geografiche, i risultati sono in linea con gli orientamenti prevalenti della ricerca scientifica. La provenienza da paesi a basso sviluppo e da alcuni particolari paesi, appartenenti ad aree critiche, è associata con maggiori probabilità di discriminazione percepita. Gli attuali risultati aggiungono a tutto ciò che le maggiori probabilità di discriminazione per coloro che provengono da particolari paesi non sono cancellate quando si controlla non solo per il livello di sviluppo del paese di origine ma anche per caratteristiche personali come età, stato civile, istruzione, occupazione, e tempo nel paese ospitante. La presente ricerca ha affrontato il controverso aspetto del tempo trascorso nel paese ospitante utilizzando anche l’aspetto satellite della acquisizione della cittadinanza. I risultati ottenuti permettono di affermare che il tempo nel paese ospitante ha un impatto a prima vista irrazionale sulla discriminazione. Dopo un periodo iniziale (0-2 anni) caratterizzato da bassa discriminazione, le probabilità di discriminazione aumentano significativamente nel tempo. Questo andamento, individuato in relazione alla discriminazione sul lavoro, è stato confermato e indirettamente rafforzato da un corrispondente andamento nella discriminazione percepita nella vita quotidiana. Bisogna aspettare che il periodo trascorso nel paese ospitante sia maggiore di 30 anni per avere una significativa riduzione della discriminazione percepita in ambiente lavorativo. Per quanto riguarda la vita quotidiana, la riduzione dopo oltre 30 anni di permanenza non è neppure significativa. Inoltre, tale andamento persiste controllando sia per l’età degli immigrati sia per l’età al momento dell’arrivo. Il fatto è rilevante, anche perché si contrappone alla ottimistica ipotesi di una attenuazione, col passare del tempo, dei problemi di integrazione e assimilazione degli immigrati. Il fatto, d’altra parte, sembra difficilmente ascrivibile ad una crescente discriminazione da parte dell’ambiente circostante: in effetti la logica suggerirebbe proprio il contrario, ossia maggiore discriminazione nel momento iniziale, che è anche il più difficile in termini di integrazione e assimilazione. Si può pertanto avanzare l’ipotesi che la crescente probabilità di discriminazione percepita sia dovuta ad una decrescente disponibilità dell’immigrato a ritenersi soddisfatto delle condizioni nel paese ospitante. In altre parole, dopo un primo periodo di luna di miele con la società ospitante, seguirebbe un atteggiamento più critico nei confronti di questa ultima. Coerentemente con quanto detto, l’acquisizione della cittadinanza del paese ospitante – a sua volta legata al tempo trascorso in quest’ultimo – non ha, coeteris paribus, effetti sensibili sulla discriminazione percepita in ambito lavorativo, anche se diminuisce la discriminazione percepita nella vita quotidiana. A parità di tempo trascorso nel paese ospitante, rimane comunque significativa la differenza tra generations 2−1.75 e immigrati arrivati in età superiore a 15 anni, questi ultimi con più elevate probabilità di percepire una discriminazione negativa nei loro confronti. I risultati ottenuti con la variabile “religione” gettano una luce su un aspetto assai dibattuto e controverso del discorso su immigrazione-assimilazione-integrazione-discriminazione. Il primo fatto rilevante che emerge a questo proposito dalla presente ricerca è che il non appartenere ad alcuna religione è associato con minori probabilità di discriminazione. Questo risultato, tuttavia, non è in sé dirimente, poiché il dichiarare “nessuna religione” è significativamente correlato con l’area geografica di provenienza, e questa ultima, a sua volta, con livello di sviluppo economico e istruzione. Controllando però per tutte queste variabili, e altre ancora, i risultati per quanto riguarda il legame tra religione e discriminazione non cambiano sostanzialmente. Gli appartenenti alle religioni musulmana, cattolica, ortodossa e protestante continuano a presentare probabilità di discriminazione nettamente superiori. Che si tratti di un atteggiamento discriminatorio nei loro confronti, determinato da una ostilità contro la loro religione, è nel complesso dei casi poco credibile. Un’ostilità verso la religione degli immigranti può essere ipotesi realistica se questi ultimi sono musulmani in un paese non-musulmano; è ipotesi meno realistica nel caso di immigrati cristiani in un paese prevalentemente cristiano e ancora meno realistica nel caso di immigrati cattolici in un paese prevalentemente cattolico. D’altra parte, non è neppure realistico pensare che la discriminazione percepita da certi gruppi religiosi sia solo il riflesso della ostilità verso gli immigrati in genere, perché ciò non spiegherebbe la assai minore discriminazione percepita da altri gruppi religiosi. D’altra parte, come si è visto in precedenza, le differenze tra un credo religioso e l’altro si sovrappongono ad altre differenze: sicuramente a differenze di sviluppo economico e di istruzione tra i paesi di origine – differenze peraltro prese in considerazione in questa ricerca – ma probabilmente anche a più elusive differenze di ordine culturale. In definitiva, quanto precede suggerisce che la discriminazione percepita – coeteris paribus – da certi gruppi religiosi di immigrati sia associata ad atteggiamenti e all’osservanza di precetti e valori che non trovano necessariamente riscontro nella società ospitante e che aumentano le probabilità di andare incontro a fatti discriminatori e/o a dare maggiore rilevanza a tali fatti.

Immigrati e Discriminazioni in Italia / Solivetti, Luigi Maria. - (2018), pp. 333-360.

Immigrati e Discriminazioni in Italia

Solivetti Luigi Maria
2018

Abstract

Immigrati e Discriminazioni in Italia Negli ultimi decenni vi è stato un crescente interesse, nei paesi occidentali, per il tema della discriminazione degli immigrati. In effetti, il tema della discriminazione non era nuovo: esso era stato tuttavia studiato precedentemente e in modo più intenso dopo la fine della II guerra mondiale, soprattutto in relazione alla condizione di minoranze etniche o etnico-religiose appartenenti alla popolazione nativa. Lo slittamento dell’interesse degli studiosi verso la popolazione immigrata si è verificato in connessione al fenomeno di un assai consistente aumento delle migrazioni internazionali, in particolare di quelle aventi come destinazione i paesi dell’Occidente. Tale interesse è stato acuito al tempo stesso dai risultati di molti studi, condotti nei paesi più interessati dalla immigrazione internazionale, che hanno rilevato il forte impatto negativo della discriminazione sulle persone vittime di essa. Tale impatto sembra produrre nelle vittime conseguenze gravi, dai disturbi psichici, alla non-integrazione, al risentimento e alla aggressività verso la società ospitante e i suoi nativi, fino a manifestazioni collettive di violenza e ad atti di terrorismo. Un usuale modo di studiare la discriminazione subita dagli immigrati è consistito nell’analisi dei meccanismi e delle determinanti dell’atteggiamento di ostilità dei nativi nei confronti degli immigrati. Questo approccio ha prodotto risultati di grande interesse. Tuttavia, esso presenta anche limitazioni. Dal momento che le motivazioni dell’atto sociale sono generalmente non chiare, vi può essere discriminazione effettiva che non è percepita da coloro che ne sono l’oggetto, e discriminazione percepita laddove essa era assente. Gli immigrati possono interpretare come discriminazione i loro problemi di mobilità sociale dovuti a mancanza di qualificazione per il mercato della società ospitante, carenza di risorse e inadeguate capacità linguistiche. In definitiva, tuttavia, la fondatezza o meno della percezione di essere discriminati non è determinante per le conseguenze che ne discendono. Come intuito da Thomas e Thomas (1928: 571-572) a proposito della percezione dei fatti sociali in generale: “It is not important whether or not the interpretation is correct — if men define situations as real, they are real in their consequences”. Alla luce di tutto ciò, la presente ricerca si è posta come obiettivo non l’individuazione delle determinanti dell’ostilità dei nativi, ma l’analisi delle condizioni socio-economiche individuali associate con la percezione, da parte degli immigrati, di essere discriminati. Si è in effetti ritenuto che le già menzionate conseguenze negative della discriminazione possono essere riportate alla ostilità dei nativi, ma la loro condizione necessaria e sufficiente è la sola percezione di essere discriminati. La ricerca in oggetto si è basata sui dati raccolti dall’Istat nel corso della prima vasta indagine nazionale condotta in Italia sulla integrazione degli immigrati. Lo stesso Istat ha poi affidato l’analisi dei dati a vari gruppi di ricerca, composti in massima parte da docenti universitari, distribuendo i vari temi sulla base delle competenze specifiche di ciascun gruppo. L’analisi della discriminazione degli immigrati in Italia è stata condotta concentrando l’attenzione su due principali contesti: la discriminazione in ambito lavorativo e la assai meno studiata discriminazione in ambito quotidiano. Per la discriminazione in ambito lavorativo, presente in circa 17% dei casi, agli intervistati era stato chiesto in cosa fosse consistita la discriminazione eventualmente subita: è prevalso di gran lunga (34 per cento degli eventi segnalati) “un clima ostile da parte di superiori, colleghi o clienti” seguito da “carichi di lavoro eccessivi o penalizzanti” (quasi 19 per cento degli eventi). Per la discriminazione nella vita quotidiana, presente nel 12% dei casi, si aveva a che fare non con una sola variabile dicotomica (sì/no), come nel caso della discriminazione in ambito lavorativo, ma con sei variabili dicotomiche, ciascuna delle quali riguardante uno specifico contesto della vita quotidiana: discriminazione nella ricerca di una casa, nella sanità, nella richiesta di un prestito, nella richiesta di una assicurazione, discriminazione nei locali pubblici, e discriminazione nei rapporti con i vicini. Per individuare fattori associati con la presenza o meno di una discriminazione percepita, si è fatto riferimento alle caratteristiche individuali degli immigrati: genere, età al momento dell’intervista, età all’arrivo in Italia, anni di permanenza in Italia, stato civile, cittadinanza italiana o meno, titolo di studio, religione di appartenenza, condizione lavorativa, qualifica lavorativa, paese di origine, area geografica di origine, e categoria di sviluppo economico del paese di origine. Non è stato invece possibile condurre una comparazione tra prima e seconda generazione degli immigrati, per via dell’esiguo numero di osservazioni riguardanti immigrati di seconda generazione con esperienze lavorative. Per tale motivo, si è fatto ricorso ai dati riguardanti l’età degli immigrati al tempo dell’arrivo in Italia. Su questa base, si è costruita una categoria – proxy della seconda generazione – comprendente gli stranieri nati in Italia e gli immigrati con età all’arrivo tra 0 e 5 anni. Gli immigrati in età pre-scolare – appartenenti alla cosiddetta 1.75 generation – sono i più simili agli stranieri nati nel paese ospitante (seconda generazione) in quanto non hanno quasi memoria del loro paese di origine, non sono stati alfabetizzati nella lingua dei loro genitori, parlano senza accento la lingua del paese ospitante e la loro socializzazione è avvenuta sostanzialmente in questo ultimo. Essi dovrebbero pertanto avere migliori chances di integrazione e assimilazione. L’analisi descrittiva è stata effettuata ricorrendo a distribuzioni univariate e bivariate. Per questi calcoli, e per tutti gli altri riguardanti proporzioni e medie, si è tenuto conto dei pesi di popolazione del campione. Per valutare l’indipendenza tra le variabili, si è utilizzato il test statistico del chi-quadrato di Pearson, con la correzione di secondo grado, per il disegno di campionamento, di Rao e Scott (1984). Successivamente, i dati disponibili sopra menzionati sono stati utilizzati – nel caso della discriminazione in ambito lavorativo – per una analisi basata su modelli di regressione logistica (Generalized Linear Models, binomial family, logistic type, maximum likelihood optimization), al fine di analizzare l’impatto di ciascuna delle caratteristiche sopra indicate, coeteris paribus, sulla variabile dipendente binaria (il fatto di avere percepito o meno una discriminazione nei propri confronti in ambito lavorativo). Per la discriminazione in ambito di vita quotidiana, in considerazione della natura della variabile dipendente (costituita dal conteggio di eventi di numero comunque limitato) e della forte dispersione dei suoi valori (che presentano una varianza assai superiore alla media), si è utilizzato un modello binomiale negativo (Negative binomial, mean-dispersion model). In tale modello, i valori della variabile dipendente sono ritenuti prodotti da un processo di conteggio di tipo Poisson (valori costituiti da numeri interi non negativi, i cui incrementi sono indipendenti) e il modello stesso costituisce una generalizzazione di una regressione di Poisson, caratterizzata dal fatto di non assumere, come invece fa questa ultima, che la varianza sia uguale alla media. I risultati ottenuti mostrano che la discriminazione percepita dagli immigrati è più frequente negli uomini che nelle donne, in coloro che sono giunti in Italia ad una età maggiore, nei celibi più che nei coniugati, negli immigrati privi di titoli di studio o con titolo basso, in coloro che appartengono a determinate religioni (mussulmana, cristiana protestante, cattolica), in coloro che hanno una posizione nel lavoro meno prestigiosa, che provengono da un paese con un basso reddito medio, o da un’area geografica come l’Africa sub-sahariana, il Nord Africa e il Medio Oriente. La discriminazione percepita è meno frequente, invece, in coloro che si dichiarano non appartenenti ad alcuna religione, e in coloro che sono giunti da poco in Italia. In effetti, l’impatto del tempo trascorso in Italia sulla discriminazione percepita ha un andamento curvilineo: la percentuale dei casi di discriminazione è bassa nel periodo immediatamente successivo all’arrivo, cresce poi nel tempo e successivamente diminuisce. L’impatto della variabile età sulla discriminazione percepita segue anche esso un andamento curvilineo, prima crescente poi decrescente. Anche la variabile istruzione ha un impatto non lineare: se alla bassa istruzione segue una più alta percentuale di discriminati, la percentuale di laureati che si dichiarano discriminati è maggiore di quella dei diplomati. Per quanto riguarda la variabile genere, la minore discriminazione percepita dalle donne, già riscontrata in ambito lavorativo, e confermata dai dati sulla vita quotidiana. Questa conferma, tuttavia, si verifica solo a livello di dati aggregati. Se si analizzano i risultati per ciascuno dei sei specifici contesti di vita quotidiana, si scopre che la maggiore discriminazione percepita dagli uomini rispetto alle donne e molto forte nella ricerca di una casa (13,7 contro 7,8 per cento), e significativa nella ricerca di un prestito, e non-significativa nelle assicurazioni e nei rapporti con i vicini, mentre le proporzioni si rovesciano per quanto riguarda locali pubblici e sanità, con le donne che percepiscono maggiore discriminazione; per la sanità, in particolare, la differenza e significativa (3,2 per cento delle donne contro 2,2 per cento degli uomini). Nella discriminazione percepita nella vita quotidiana, il rischio di discriminazione per le donne è significativamente inferiore a quello degli uomini solo a parità di area di origine e di sviluppo economico del paese di origine, suggerendo che la rilevanza di queste due ultime variabili è determinante. La ragione di quanto precede consiste nel fatto che i valori di discriminazione percepita dalle donne originarie di certe aree geografiche e provenienti da certi livelli di sviluppo sono superiori a quelli degli uomini che provengono da altre aree e livelli di sviluppo. Dai dati infatti emerge che il valore medio di discriminazione percepita dalle donne originarie dell’Africa Sub-Sahariana è inferiore a quello degli uomini della stessa area ma comunque altissimo, pari a quello degli uomini originari dell’Asia Centrale e superiore a quelli degli uomini di tutte le altre aree. Le donne originarie dell’Europa Occidentale e dell’America del Nord presentano un valore medio di incidenza di discriminazione decisamente basso ma superiore a quello degli uomini originari delle stesse aree; in altri casi – es., America Latina – le differenze sono nulle; mentre gli uomini presentano una discriminazione assai superiore a quella delle donne quando l’area di origine è Asia Centrale, Asia Meridionale o Medio Oriente e Africa del Nord. Al di là di queste comparazioni, i risultati ottenuti permettono di meglio comprendere alcuni aspetti delle possibili determinanti della discriminazione percepita dagli immigrati. Si può notare come la presente ricerca ha prodotto risultati inediti per quanto riguarda due aspetti – il genere e l’età degli immigrati – il cui impatto sulla discriminazione è considerato di regola poco controverso. Nella letteratura corrente, il genere è considerato come significativo tout court per la discriminazione percepita. I risultati qui ottenuti mostrano invece una situazione articolata, in cui la maggiore probabilità complessiva di discriminazione sul lavoro degli uomini rispetto alle donne è solo la somma di situazioni assai differenti che si verificano per gli immigrati a seconda delle varie aree geografiche e dei vari paesi di origine. Da un punto di vista logico, è difficile immaginare che le donne siano effettivamente meno discriminate degli uomini nel lavoro; ed è ancora più difficile sostenere questa ipotesi alla luce del fatto che, nel caso di certe aree di provenienza, sono le donne a percepire maggiore discriminazione. Si può pertanto avanzare una diversa ipotesi, e cioè che queste differenze siano dovute a differenze tra le donne stesse per quanto riguarda le esperienze e l’atteggiamento nei confronti del mondo del lavoro, a loro volta associati anche con la cultura e le condizioni di origine. Anche i risultati ottenuti in materia di discriminazione nella vita quotidiana, suggeriscono – per quanto riguarda le differenze di discriminazione tra uomini e donne – un quadro più articolato di quello usualmente previsto. La maggiore discriminazione percepita dagli uomini è significativa soltanto se si tiene conto del contesto di ricerca di una casa; emerge al tempo stesso una maggiore discriminazione percepita dalle donne nei locali pubblici e soprattutto nella sanità, contesti dove è emerso essere rilevante il loro ruolo di madri. I risultati ottenuti dai modelli di regressione multipla applicati alla vita quotidiana sono in linea con quanto precede: le differenze di discriminazione tra uomini e donne sono significative solo se si controlla per il livello di sviluppo del paese di origine e l’area geografica. In effetti, le donne originarie dell’Africa Sub-Sahariana o di altri paesi low-income presentano tassi di discriminazione più alti degli uomini provenienti da altre aree o da livelli di sviluppo medio-alti. Mentre gli uomini originari in particolare dell’Asia Centrale, del Medio Oriente e Africa del Nord, ossia di aree dove prevale la religione musulmana, presentano valori medi di discriminazione molto più alti delle donne originarie delle stesse aree: un fatto che potrebbe essere associato con il ruolo più domestico svolto dalle donne in determinati contesti. A sua volta, l’età è comunemente ritenuta associata con una decrescente probabilità di discriminazione. I risultati della presente ricerca fanno emergere, prima del decremento, un aumento della discriminazione all’avanzare dell’età, con un picco nella discriminazione sul lavoro registrato dalla classe di età 35-44 e un picco nella discriminazione nella vita quotidiana registrato dalla classe di età 25-34. I risultati suggeriscono che, dopo un più incurante periodo giovanile, le probabilità di discriminazione percepita aumentino significativamente all’aumentare delle responsabilità e dei rapporti socio-economici, per poi diminuire gradualmente con la maturità e la condizione di anziano. Il picco posticipato della discriminazione nella vita lavorativa coincide peraltro con una età in cui le aspettative di affermazione professionale, le responsabilità familiari ed anche la conoscenza delle norme si fanno mediamente più forti; e parallelamente dovrebbe crescere anche la sensibilità a reali o presunti atteggiamenti discriminatori da parte dei nativi. Per quanto riguarda lo stato civile, i risultati attuali confermano l’orientamento prevalente della letteratura: la condizione di coniugato è associata con più basso livello di discriminazione. In linea con la letteratura sono anche i risultati riguardanti occupazione e posizione lavorativa: una migliore condizione socio-economica è associata con un livello più basso di discriminazione. Tuttavia, i valori di rischio di discriminazione, per coloro che occupano posizioni nel lavoro meno prestigiose, sono nella vita quotidiana più bassi dei valori di rischio che essi corrono nel contesto lavorativo: fatto che suggerisce una minore rilevanza dello status socio-economico nel contesto civico. Il livello di istruzione, a sua volta, non è perfettamente sovrapponibile alle precedenti misure della condizione socio-economica. La sua associazione con la discriminazione non è infatti lineare. Livelli più alti di istruzione sono sempre associati con minore percezione di discriminazione, ma le probabilità di discriminazione per i laureati sono maggiori di quelle per i diplomati, sia nel lavoro che nella vita quotidiana. Ciò suggerisce che i laureati possano essere condizionati da maggiori aspettative, connaturate al titolo di studio, che non sempre trovano risposte soddisfacenti nel contesto lavorativo corrispondente al titolo, più competitivo di quello in cui operano altri soggetti meno istruiti, e neppure nella vita quotidiana, dove il possesso di una laurea non cancella necessariamente l’etichetta di straniero. Per quanto riguarda il ruolo del livello economico del paese di origine e della provenienza da determinate aree geografiche, i risultati sono in linea con gli orientamenti prevalenti della ricerca scientifica. La provenienza da paesi a basso sviluppo e da alcuni particolari paesi, appartenenti ad aree critiche, è associata con maggiori probabilità di discriminazione percepita. Gli attuali risultati aggiungono a tutto ciò che le maggiori probabilità di discriminazione per coloro che provengono da particolari paesi non sono cancellate quando si controlla non solo per il livello di sviluppo del paese di origine ma anche per caratteristiche personali come età, stato civile, istruzione, occupazione, e tempo nel paese ospitante. La presente ricerca ha affrontato il controverso aspetto del tempo trascorso nel paese ospitante utilizzando anche l’aspetto satellite della acquisizione della cittadinanza. I risultati ottenuti permettono di affermare che il tempo nel paese ospitante ha un impatto a prima vista irrazionale sulla discriminazione. Dopo un periodo iniziale (0-2 anni) caratterizzato da bassa discriminazione, le probabilità di discriminazione aumentano significativamente nel tempo. Questo andamento, individuato in relazione alla discriminazione sul lavoro, è stato confermato e indirettamente rafforzato da un corrispondente andamento nella discriminazione percepita nella vita quotidiana. Bisogna aspettare che il periodo trascorso nel paese ospitante sia maggiore di 30 anni per avere una significativa riduzione della discriminazione percepita in ambiente lavorativo. Per quanto riguarda la vita quotidiana, la riduzione dopo oltre 30 anni di permanenza non è neppure significativa. Inoltre, tale andamento persiste controllando sia per l’età degli immigrati sia per l’età al momento dell’arrivo. Il fatto è rilevante, anche perché si contrappone alla ottimistica ipotesi di una attenuazione, col passare del tempo, dei problemi di integrazione e assimilazione degli immigrati. Il fatto, d’altra parte, sembra difficilmente ascrivibile ad una crescente discriminazione da parte dell’ambiente circostante: in effetti la logica suggerirebbe proprio il contrario, ossia maggiore discriminazione nel momento iniziale, che è anche il più difficile in termini di integrazione e assimilazione. Si può pertanto avanzare l’ipotesi che la crescente probabilità di discriminazione percepita sia dovuta ad una decrescente disponibilità dell’immigrato a ritenersi soddisfatto delle condizioni nel paese ospitante. In altre parole, dopo un primo periodo di luna di miele con la società ospitante, seguirebbe un atteggiamento più critico nei confronti di questa ultima. Coerentemente con quanto detto, l’acquisizione della cittadinanza del paese ospitante – a sua volta legata al tempo trascorso in quest’ultimo – non ha, coeteris paribus, effetti sensibili sulla discriminazione percepita in ambito lavorativo, anche se diminuisce la discriminazione percepita nella vita quotidiana. A parità di tempo trascorso nel paese ospitante, rimane comunque significativa la differenza tra generations 2−1.75 e immigrati arrivati in età superiore a 15 anni, questi ultimi con più elevate probabilità di percepire una discriminazione negativa nei loro confronti. I risultati ottenuti con la variabile “religione” gettano una luce su un aspetto assai dibattuto e controverso del discorso su immigrazione-assimilazione-integrazione-discriminazione. Il primo fatto rilevante che emerge a questo proposito dalla presente ricerca è che il non appartenere ad alcuna religione è associato con minori probabilità di discriminazione. Questo risultato, tuttavia, non è in sé dirimente, poiché il dichiarare “nessuna religione” è significativamente correlato con l’area geografica di provenienza, e questa ultima, a sua volta, con livello di sviluppo economico e istruzione. Controllando però per tutte queste variabili, e altre ancora, i risultati per quanto riguarda il legame tra religione e discriminazione non cambiano sostanzialmente. Gli appartenenti alle religioni musulmana, cattolica, ortodossa e protestante continuano a presentare probabilità di discriminazione nettamente superiori. Che si tratti di un atteggiamento discriminatorio nei loro confronti, determinato da una ostilità contro la loro religione, è nel complesso dei casi poco credibile. Un’ostilità verso la religione degli immigranti può essere ipotesi realistica se questi ultimi sono musulmani in un paese non-musulmano; è ipotesi meno realistica nel caso di immigrati cristiani in un paese prevalentemente cristiano e ancora meno realistica nel caso di immigrati cattolici in un paese prevalentemente cattolico. D’altra parte, non è neppure realistico pensare che la discriminazione percepita da certi gruppi religiosi sia solo il riflesso della ostilità verso gli immigrati in genere, perché ciò non spiegherebbe la assai minore discriminazione percepita da altri gruppi religiosi. D’altra parte, come si è visto in precedenza, le differenze tra un credo religioso e l’altro si sovrappongono ad altre differenze: sicuramente a differenze di sviluppo economico e di istruzione tra i paesi di origine – differenze peraltro prese in considerazione in questa ricerca – ma probabilmente anche a più elusive differenze di ordine culturale. In definitiva, quanto precede suggerisce che la discriminazione percepita – coeteris paribus – da certi gruppi religiosi di immigrati sia associata ad atteggiamenti e all’osservanza di precetti e valori che non trovano necessariamente riscontro nella società ospitante e che aumentano le probabilità di andare incontro a fatti discriminatori e/o a dare maggiore rilevanza a tali fatti.
2018
Vita e Percorsi di Integrazione degli Immigrati in Italia
978-88-458-1968-1
immigrazione; discriminazione; condizioni socio-economiche
02 Pubblicazione su volume::02a Capitolo o Articolo
Immigrati e Discriminazioni in Italia / Solivetti, Luigi Maria. - (2018), pp. 333-360.
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