Tradizionalmente le armi sono state sempre presenti nelle case degli italiani. Prima come strumento di caccia, poi come attrezzo sportivo e ricreativo, le armi hanno sempre accompagnato la cultura del nostro Paese. Basti osservare l’arte e la letteratura dal 6/700, fino all’inizio dello scorso secolo, per scorgere le armi quali oggetti del quotidiano, ordinari strumenti di utilità e svago della vita di tutte le classi sociali. È con il fascismo che le armi cominciano ad allontanarsi: l’affermarsi del totalitarismo richiede un preciso controllo, e l’adozione del TULPS nel 1931 istituisce una rigida sorveglianza sulla possibilità di portare armi, riservata ordinariamente solo alle forze armate e alla milizia, e sottoposta per il resto a un regime di autorizzazione fortemente discrezionale. Con la Seconda Guerra Mondiale l’occupazione, la resistenza e la guerra civile portano le armi da guerra nella quotidianità del nostro Paese, con una parentesi sanguinosa che tuttavia dura poco. Nel secondo dopoguerra si sviluppa notevolmente il tiro sportivo, mentre la caccia perde gran parte del suo valore di strumento di sopravvivenza, per trasformarsi in attività ludica. Ma con l’introduzione in Italia di elementi della cultura statunitense – i film dell’epopea del West prima, poi i film di guerra e infine i film e telefilm d’azione e i videogames – le armi cessano di essere uno strumento di utilità e svago per divenire, nell’immaginario collettivo, strumento di morte. Nel contempo il terrorismo e gli “anni di piombo” portano a irrigidire la normativa sulle armi, rafforzando il controllo già previsto dal fascismo e a esso sopravvissuto. Le armi sono uscite quindi dalle case degli italiani. La doppietta dietro la porta o appesa sopra il camino viene chiusa nell’armadio blindato, sparisce dalla vista. Tra gli italiani e le armi si scava un fossato, si determina una distanza cognitiva che rafforza la visione negativa delle armi generata dalla cultura dell’intrattenimento statunitense. Le armi cominciano a far paura. Tradizionalmente, l’addestramento alle armi era parte dei riti iniziatici degli adolescenti. Ora le armi vengono considerate come oggetti carichi di negatività, da cui tenere lontani i giovani per evitare che ne siano corrotti. Il bias cognitivo, il pregiudizio, ha finito per affermarsi quasi universalmente nella contemporaneità, e persino l’attività scientifica è stata condizionata, fino a teorizzare il disarmo integrale dei cittadini per motivi di sicurezza, Lo stato sociale maturo ha generato un modello di tutela sociale che è arrivato a un tale punto di tutela dell’individuo da considerarlo quasi un disabile, da proteggere da qualsiasi rischio, anche potenziale. In questa prospettiva il rischio percepito prende il posto di quello reale nella progettazione delle politiche pubbliche, e qualsiasi azione individuale che possa comportare un rischio potenziale viene scoraggiata e ingabbiata in severe e complesse regole di comportamento. Ciò ha comportato l’inevitabile funzionalizzazione dell’individuo e delle sue istanze, cosicché il diritto a detenere e portare armi recede facilmente rispetto all’interesse pubblico, considerato sempre prevalente. Questa impostazione è comune nei media, e, come si diceva, anche nell’attività scientifica. Le armi detenute dai cittadini sono quindi viste come un elemento di turbativa dell’ordine pubblico, almeno potenziale. E, sebbene la letteratura scientifica abbia escluso che il numero delle armi detenute sia una grandezza che influisce sui reati commessi con le armi, è, diremmo, patrimonio comune il pensiero che la limitazione delle armi private diminuisca i reati e aumenti la sicurezza. Di recente, persino un rapporto di un noto istituto di ricerca sociale ha sostenuto che l’aumento delle licenze di porto d’armi fosse un vulnus, almeno potenziale, per la pubblica sicurezza, e che possa aumentare i reati compiuti con le armi. Queste affermazioni erano rese possibili dal fatto che mancava, finora, una ricerca sui reati compiuti con le armi legalmente detenute, e, in particolare, sugli omicidi. Questo studio colma quindi questa grave lacuna, e contribuisce, come primo passo, ad avviare una valutazione più serena del fenomeno, mettendo in luce elementi che smentiscono alcuni luoghi comuni, ma aprono degli interrogativi che costituiscono un importante filone di ricerca da seguire.

INTRODUZIONE ALLA RICERCA: LA CULTURA DELLE ARMI TRA INNOVAZIONE E TRADIZIONE / DE NARDIS, Paolo. - (2019), pp. 9-18.

INTRODUZIONE ALLA RICERCA: LA CULTURA DELLE ARMI TRA INNOVAZIONE E TRADIZIONE

PAOLO DE NARDIS
2019

Abstract

Tradizionalmente le armi sono state sempre presenti nelle case degli italiani. Prima come strumento di caccia, poi come attrezzo sportivo e ricreativo, le armi hanno sempre accompagnato la cultura del nostro Paese. Basti osservare l’arte e la letteratura dal 6/700, fino all’inizio dello scorso secolo, per scorgere le armi quali oggetti del quotidiano, ordinari strumenti di utilità e svago della vita di tutte le classi sociali. È con il fascismo che le armi cominciano ad allontanarsi: l’affermarsi del totalitarismo richiede un preciso controllo, e l’adozione del TULPS nel 1931 istituisce una rigida sorveglianza sulla possibilità di portare armi, riservata ordinariamente solo alle forze armate e alla milizia, e sottoposta per il resto a un regime di autorizzazione fortemente discrezionale. Con la Seconda Guerra Mondiale l’occupazione, la resistenza e la guerra civile portano le armi da guerra nella quotidianità del nostro Paese, con una parentesi sanguinosa che tuttavia dura poco. Nel secondo dopoguerra si sviluppa notevolmente il tiro sportivo, mentre la caccia perde gran parte del suo valore di strumento di sopravvivenza, per trasformarsi in attività ludica. Ma con l’introduzione in Italia di elementi della cultura statunitense – i film dell’epopea del West prima, poi i film di guerra e infine i film e telefilm d’azione e i videogames – le armi cessano di essere uno strumento di utilità e svago per divenire, nell’immaginario collettivo, strumento di morte. Nel contempo il terrorismo e gli “anni di piombo” portano a irrigidire la normativa sulle armi, rafforzando il controllo già previsto dal fascismo e a esso sopravvissuto. Le armi sono uscite quindi dalle case degli italiani. La doppietta dietro la porta o appesa sopra il camino viene chiusa nell’armadio blindato, sparisce dalla vista. Tra gli italiani e le armi si scava un fossato, si determina una distanza cognitiva che rafforza la visione negativa delle armi generata dalla cultura dell’intrattenimento statunitense. Le armi cominciano a far paura. Tradizionalmente, l’addestramento alle armi era parte dei riti iniziatici degli adolescenti. Ora le armi vengono considerate come oggetti carichi di negatività, da cui tenere lontani i giovani per evitare che ne siano corrotti. Il bias cognitivo, il pregiudizio, ha finito per affermarsi quasi universalmente nella contemporaneità, e persino l’attività scientifica è stata condizionata, fino a teorizzare il disarmo integrale dei cittadini per motivi di sicurezza, Lo stato sociale maturo ha generato un modello di tutela sociale che è arrivato a un tale punto di tutela dell’individuo da considerarlo quasi un disabile, da proteggere da qualsiasi rischio, anche potenziale. In questa prospettiva il rischio percepito prende il posto di quello reale nella progettazione delle politiche pubbliche, e qualsiasi azione individuale che possa comportare un rischio potenziale viene scoraggiata e ingabbiata in severe e complesse regole di comportamento. Ciò ha comportato l’inevitabile funzionalizzazione dell’individuo e delle sue istanze, cosicché il diritto a detenere e portare armi recede facilmente rispetto all’interesse pubblico, considerato sempre prevalente. Questa impostazione è comune nei media, e, come si diceva, anche nell’attività scientifica. Le armi detenute dai cittadini sono quindi viste come un elemento di turbativa dell’ordine pubblico, almeno potenziale. E, sebbene la letteratura scientifica abbia escluso che il numero delle armi detenute sia una grandezza che influisce sui reati commessi con le armi, è, diremmo, patrimonio comune il pensiero che la limitazione delle armi private diminuisca i reati e aumenti la sicurezza. Di recente, persino un rapporto di un noto istituto di ricerca sociale ha sostenuto che l’aumento delle licenze di porto d’armi fosse un vulnus, almeno potenziale, per la pubblica sicurezza, e che possa aumentare i reati compiuti con le armi. Queste affermazioni erano rese possibili dal fatto che mancava, finora, una ricerca sui reati compiuti con le armi legalmente detenute, e, in particolare, sugli omicidi. Questo studio colma quindi questa grave lacuna, e contribuisce, come primo passo, ad avviare una valutazione più serena del fenomeno, mettendo in luce elementi che smentiscono alcuni luoghi comuni, ma aprono degli interrogativi che costituiscono un importante filone di ricerca da seguire.
2019
SICUREZZA E LEGALITà
9788863182163
SICUREZZA; CRIMINALITà; LEGALITà
02 Pubblicazione su volume::02a Capitolo o Articolo
INTRODUZIONE ALLA RICERCA: LA CULTURA DELLE ARMI TRA INNOVAZIONE E TRADIZIONE / DE NARDIS, Paolo. - (2019), pp. 9-18.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11573/1340247
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