Questo saggio intende proporre un ragionamento critico attorno alle definizioni teoriche e alle prassi operative che definiscono la comunicazione del rischio come disciplina peculiare ed autonoma nel campo delle professioni comunicative e come ambito specifico della risk analysis, insieme alla valutazione e alla gestione del rischio (CAC, 1997). Il processo di primo grado dell’Aquila, e soprattutto la sua sentenza, le cui motivazioni sono state pubblicate alla fine del 2012 (Tribunale dell’Aquila, 2012) hanno rilanciato una approfondita e per molti versi urgente discussione sulla comunicazione del rischio in Italia. Tuttavia, considerando lo stato dell’arte del dibattito accademico (e professionale) su questo tema, la sentenza sembra proporre una visione opaca degli obiettivi, degli strumenti operativi e, soprattutto, dei limiti del modello di comunicazione del rischio cui si fa più o meno esplicitamente riferimento. Non è infatti chiaro di quale comunicazione del rischio si parli, a fronte di un dibattito che fino al 2009 aveva già prodotto quasi venticinquemila contributi scientifici contenenti l’espressione “risk communication”, e soltanto quattrocentosettantanove pubblicazioni in Italia con l’equivalente "comunicazione del rischio". Tradizionalmente, la comunicazione del rischio è posta in stretta relazione con tutte le attività organizzate volte a ridurre efficacemente e responsabilmente i pericoli per la salute, l’ambiente e il benessere. In particolare, nel Codex Alimentarius viene fornita una schematizzazione largamente adottata dai risk managers operanti anche in ambiti diversi da quello della sicurezza alimentare, nell’ambito della quale essa è stata elaborata. Nel documento, predisposto dalla FAO congiuntamente all’OMS si postula infatti l’idea che l’analisi del rischio debba essere inteso come un processo integrato, che deve includere la valutazione del rischio, la gestione del rischio e la comunicazione del rischio, intese come componenti strettamente interdipendenti tra loro, reciprocamente interferenti tra loro ed essenziali per il raggiungimento di un unico obiettivo, e cioè la tutela della salute umana e della sicurezza del cibo (CAC, 1997: 68). Questi pur scarni dati bibliometrici sono già sufficienti a trarre alcune conseguenze di rilievo. La prima è che l’espressione “risk communication” identifica un tema chiaramente riconoscibile e ben strutturato nel dibattito scientifico internazionale, come testimoniato anche dalla fioritura di riviste accademiche specializzate. Inoltre, nell’area anglosassone, per diversi motivi “storici” come la nascita di numerosi centri di ricerca creati ad hoc, il dibattito si è accompagnato ad una produttiva collaborazione tra ricercatori e autorità di protezione, che appare molto più circoscritta in Italia.
Quale idea della comunicazione del rischio? Tra teoria, prassi e assunti impliciti / Cerase, Andrea. - (2015), pp. 145-168.
Quale idea della comunicazione del rischio? Tra teoria, prassi e assunti impliciti
cerase
2015
Abstract
Questo saggio intende proporre un ragionamento critico attorno alle definizioni teoriche e alle prassi operative che definiscono la comunicazione del rischio come disciplina peculiare ed autonoma nel campo delle professioni comunicative e come ambito specifico della risk analysis, insieme alla valutazione e alla gestione del rischio (CAC, 1997). Il processo di primo grado dell’Aquila, e soprattutto la sua sentenza, le cui motivazioni sono state pubblicate alla fine del 2012 (Tribunale dell’Aquila, 2012) hanno rilanciato una approfondita e per molti versi urgente discussione sulla comunicazione del rischio in Italia. Tuttavia, considerando lo stato dell’arte del dibattito accademico (e professionale) su questo tema, la sentenza sembra proporre una visione opaca degli obiettivi, degli strumenti operativi e, soprattutto, dei limiti del modello di comunicazione del rischio cui si fa più o meno esplicitamente riferimento. Non è infatti chiaro di quale comunicazione del rischio si parli, a fronte di un dibattito che fino al 2009 aveva già prodotto quasi venticinquemila contributi scientifici contenenti l’espressione “risk communication”, e soltanto quattrocentosettantanove pubblicazioni in Italia con l’equivalente "comunicazione del rischio". Tradizionalmente, la comunicazione del rischio è posta in stretta relazione con tutte le attività organizzate volte a ridurre efficacemente e responsabilmente i pericoli per la salute, l’ambiente e il benessere. In particolare, nel Codex Alimentarius viene fornita una schematizzazione largamente adottata dai risk managers operanti anche in ambiti diversi da quello della sicurezza alimentare, nell’ambito della quale essa è stata elaborata. Nel documento, predisposto dalla FAO congiuntamente all’OMS si postula infatti l’idea che l’analisi del rischio debba essere inteso come un processo integrato, che deve includere la valutazione del rischio, la gestione del rischio e la comunicazione del rischio, intese come componenti strettamente interdipendenti tra loro, reciprocamente interferenti tra loro ed essenziali per il raggiungimento di un unico obiettivo, e cioè la tutela della salute umana e della sicurezza del cibo (CAC, 1997: 68). Questi pur scarni dati bibliometrici sono già sufficienti a trarre alcune conseguenze di rilievo. La prima è che l’espressione “risk communication” identifica un tema chiaramente riconoscibile e ben strutturato nel dibattito scientifico internazionale, come testimoniato anche dalla fioritura di riviste accademiche specializzate. Inoltre, nell’area anglosassone, per diversi motivi “storici” come la nascita di numerosi centri di ricerca creati ad hoc, il dibattito si è accompagnato ad una produttiva collaborazione tra ricercatori e autorità di protezione, che appare molto più circoscritta in Italia.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.