Molto spesso il ruolo che svolge o meglio potrebbe svolgere la disciplina e la pratica architettonica all’interno della vita sociale del nostro paese viene sottovalutata. Quando la società denuncia un malessere, un problema, data la complessità della sua struttura, la risposta da fornire non può più essere unisona, deve necessariamente avere dei caratteri multidisciplinari e culturali tali da poter fornire una valida risposta. Una delle problematiche che affligge il nostro paese, a cui non si è più potuto non dare ascolto dopo la sentenza Torreggiani del 2013, è la condizione in cui verte l’edilizia penitenziaria italiana. Attraverso questa sentenza la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per la violazione della Convenzione europea dei diritti umani. “L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, questo quanto recita l’art. 27 della Costituzione italiana. Secondo i principi costituzionali pertanto la pena non può essere solo retributiva, in quanto il suo scopo è anche quello della rieducazione del condannato per un suo futuro reinserimento nella società, presa in causa come parte lesa. A partire da questo assunto occorre porsi la domanda su quale ruolo dovrebbe o potrebbe assumere l’architettura per umanizzare la pena e gli spazi destinati a essa. “Il fine dell’architettura è la felicità umana, con i suoi attributi di sicurezza, stabilità, di genere, di armonia e di riso”. Questa tema è talmente complesso da mettere in campo questioni provenienti da diverse discipline, trattandosi sicuramente di una questione multidisciplinare, in cui l’architettura e il progetto possono svolgere un ruolo significativo, l’architettura ha in potenza tutte le capacità culturali e tecniche per poter dare una risposta che non sia solo meramente normativa ma che sia portatrice di significati educatori. Molto spesso il risultato degli interventi di edilizia carceraria si sono tradotti in concretizzazioni di aspetti quantitativi e normativi perdendo la vista quella qualità spaziale in grado di dare o ridare quella dignità che il detenuto ha perso o non ha mai avuto. Si intende partire dall’architettura proprio perché già in passato in Italia sono statti i progetti architettonici ad anticipare la riforma avvenuta in campo normativo. Basti pensare la carcere di Nuoro di Ridolfi o la casa circondariale di Rebibbia di Lenci, progetti e poi edifici che hanno lanciato degli input significativi per il successivo ordinamento penitenziario del 1975.
Architettura e carcere. Verso una pena riabilitativa / Gorgo, Letizia. - ELETTRONICO. - (2018), pp. 72-75.
Architettura e carcere. Verso una pena riabilitativa.
Gorgo
2018
Abstract
Molto spesso il ruolo che svolge o meglio potrebbe svolgere la disciplina e la pratica architettonica all’interno della vita sociale del nostro paese viene sottovalutata. Quando la società denuncia un malessere, un problema, data la complessità della sua struttura, la risposta da fornire non può più essere unisona, deve necessariamente avere dei caratteri multidisciplinari e culturali tali da poter fornire una valida risposta. Una delle problematiche che affligge il nostro paese, a cui non si è più potuto non dare ascolto dopo la sentenza Torreggiani del 2013, è la condizione in cui verte l’edilizia penitenziaria italiana. Attraverso questa sentenza la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per la violazione della Convenzione europea dei diritti umani. “L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, questo quanto recita l’art. 27 della Costituzione italiana. Secondo i principi costituzionali pertanto la pena non può essere solo retributiva, in quanto il suo scopo è anche quello della rieducazione del condannato per un suo futuro reinserimento nella società, presa in causa come parte lesa. A partire da questo assunto occorre porsi la domanda su quale ruolo dovrebbe o potrebbe assumere l’architettura per umanizzare la pena e gli spazi destinati a essa. “Il fine dell’architettura è la felicità umana, con i suoi attributi di sicurezza, stabilità, di genere, di armonia e di riso”. Questa tema è talmente complesso da mettere in campo questioni provenienti da diverse discipline, trattandosi sicuramente di una questione multidisciplinare, in cui l’architettura e il progetto possono svolgere un ruolo significativo, l’architettura ha in potenza tutte le capacità culturali e tecniche per poter dare una risposta che non sia solo meramente normativa ma che sia portatrice di significati educatori. Molto spesso il risultato degli interventi di edilizia carceraria si sono tradotti in concretizzazioni di aspetti quantitativi e normativi perdendo la vista quella qualità spaziale in grado di dare o ridare quella dignità che il detenuto ha perso o non ha mai avuto. Si intende partire dall’architettura proprio perché già in passato in Italia sono statti i progetti architettonici ad anticipare la riforma avvenuta in campo normativo. Basti pensare la carcere di Nuoro di Ridolfi o la casa circondariale di Rebibbia di Lenci, progetti e poi edifici che hanno lanciato degli input significativi per il successivo ordinamento penitenziario del 1975.File | Dimensione | Formato | |
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