E’ possibile individuare un ordine del discorso politico nel momento del declino della politica? Nel momento che, fuori dal Novecento che ne è stato il secolo dell’espressione più compiuta, la sua narrazione dei tempi storici e delle società si è trasformata in linguaggio quotidiano? Nel momento che, anziché tracciare linee di orizzonte e di futuro, si conclude nello spazio di un presente fine a se stesso? Sono queste domande, espresse nei termini dell’inquietudine, che hanno retto e tessuto le fila delle pagine che compongono questo libro. Un’inquietudine che, come il titolo scelto suggerisce, rappresenta l’elemento costitutivo rispetto alla nostra relazione con i discorsi, ai dispositivi che contengono e che dispiegano nel loro farsi corpi, principi di organizzazione del mondo, principi di visione e di-visione, principi di sovversioni cognitive possibili, investimenti pratici, mobilitazioni e azioni collettive. Un’inquietudine «nei confronti di ciò che il discorso è nella sua materiale realtà di cosa pronunciata o scritta; inquietudine nei confronti di quest’esistenza transitoria, destinata magari a cancellarsi, ma secondo una durata che non ci appartiene; inquietudine nell’avvertire dietro a questa attività, pur quotidiana e grigia, poteri e pericoli che si immaginano a stento; inquietudine nel sospettare lotte, vittorie, ferite, dominazioni, servitù attraverso tante parole, di cui l’uso ha ridotto da sì gran tempo le asperità» (Foucault, 1971; tr. it. 2004, p. 4). Un’inquietudine resa quindi più acuta dal tramonto della politica, e con essa della modernità così come l’abbiamo conosciuta. Perché la politica, come è stato scritto (cfr. Tronti, 1998, p. 5), ha rappresentato la radice della modernità, il fondamento che le ha consentito di dispiegarsi fino alla sua radicalizzazione. Ma il tramonto della modernità, nelle conseguenze che la radicalizzano (cfr. Giddens, 1990; tr. it. 1994), rende la politica possibile piuttosto che necessaria. Indagare lo spazio di questo possibile – o, per meglio dire, dei possibili – significa provare a tracciare nuovi confini entro una rotta ancora da decifrare. Si tratta di riarticolare le categorie di cui disponiamo, e che ci sono state consegnate in eredità – anche se, per parafrasare Hannah Arendt, si tratta di un’eredità senza testamento. Perché se è vero che la politica come radice e come grande narrazione della modernità è al tramonto, pure avremmo bisogno di distinguere fra la pratica politica e la capacità di giudizio, ovvero fra la politica e il politico. Non semplicemente l’ordine politico, dunque, ma un punto archimedico a partire dal quale si può riflettere sull’ordine politico. Nella loro caratterizzazione grammaticale, il politico e la politica rappresentano gli equivalenti di quella sostantivizzazione degli aggettivi attraverso cui i greci ponevano il generale come un determinato, facendogli assumere significati differenti a seconda del sostantivo cui si riferiva: unità politiche o ordinamenti, gruppi, problemi, processi, conflitti, modi di agire e modi di vedere. In questo senso, poiché si tratta di un determinato campo di azione, avremmo in altre parole bisogno di distinguere fra la politica come relazione fra le persone e la politica come responsabilità nei confronti del mondo. Com’è noto, è stata Hannah Arendt (1993; tr. it. 2001) a caratterizzare così la politica, perché essa nasce tra le persone, si afferma come relazione e ha al suo centro, sempre, la preoccupazione per il mondo. Cambiare, conservare o fondare un mondo; deserto e oasi – ovvero: scongiurare il pericolo di portare il deserto nelle oasi (ibid., pp. 151-152). Ma questa distinzione serve per l’analisi, per leggere fino in fondo il progetto e i fallimenti della modernità, perché, nella sua effettualità, il compito della politica è mettere in relazione le persone affinché si prendano cura del mondo. La sostituzione della politica con la storia, ovvero della possibilità con la necessità, che ha caratterizzato il Novecento, unito al «disperato desiderio di essere esentati dalla facoltà di agire» (ibid., p. 11) ha assunto a proprio fondamento un’idea di giudizio che si esprime come capacità di ordinamento e di sussunzione (ad esempio del particolare sotto il generale e l’universale), che può esercitarsi sul particolare ma non sul criterio in sé che lo istituisce. Precipitata nel girone della necessità storica, la politica ha conosciuto il suo tramonto perché non è stata in grado di discernere piuttosto che ordinare e sussumere. Di costruire una facoltà di giudizio, in altre parole, senza criteri necessari. Perché, come è stato più volte scritto, è la contingenza il luogo della politica, l’urgenza del quotidiano che non deve però essere ridotto all’impotenza del qui e ora, ma neppure radicato in un passato che non consente un’effettiva esperienza del presente. Impraticabile la strada della grande narrazione, che cosa resta se non lo spazio del tempo breve, l’inseguimento delle variazioni di superficie? In questo dilemma si consuma la crisi della politica – e, di conseguenza, del discorso politico. Si è cercato di individuare una risposta possibile a questo dilemma e all’inquitudine a cui si è già fatto cenno seguendo i fili delle analisi sul discorso e sulla politica di Michel Foucault e Hannah Arendt, provando a darne una interpretazione sociologica. Altrove (cfr. Lombardo, 2006b e 2006c), si è già affrontata la questione di una definizione della politica anche come sistema simbolico, in cui il linguaggio politico ha il potere di imporre specifiche rappresentazioni e immaginazioni del mondo; di coordinare emotivamente strutture cognitive e culturali complesse; di esplicitare visioni del mondo allo scopo di stabilire, conservare, rafforzare o trasformare l’ordine simbolico delle cose (cfr. Lombardo, 2006b, pp. 10-11). Così come si è detto del potere del linguaggio che non deriva dal linguaggio stesso, ma da condizioni esterne che gli conferiscono quell’autorità che, in quanto tale, il linguaggio simbolizza. Potere, tuttavia, che non è mai identico a se stesso, posto che, come le ricerche di Foucault testimoniano, non si finisce mai di passare dalle parole d’ordine all’ordine muto delle cose e viceversa (cfr. Lombardo 2006c, pp. 104-105). Il compito di questo lavoro è invece di pensare un ordine del discorso politico qui e ora, nelle nuove condizioni date dalla crisi della politica (e della modernità). Il riferimento è a L’ordine del discorso di Michel Foucault, ai suoi principi costitutivi: rovesciamento, discontinuità, specificità, esteriorità. Bisogna innanzitutto operare un rovesciamento, guardare alla rarefazione dei discorsi piuttosto che al principio universale che li produce. Non più la grande narrazione (ad esempio della volontà di verità), ma neppure semplici ritagli; non un discorso illimitato ma pratiche discontinue; non un insieme di significati precostituiti ma un principio di specificità in grado di imporre un ordine alle cose del mondo; non un’analisi delle sue condizioni di verità ma, attraverso il principio di esteriorità, esplorare le sue condizioni esterne di possibilità (cfr. Foucault, 1971; tr. it. 2004, pp. 26-27). Un ordine del discorso, quindi, caratterizzato da questi principi; una concezione della politica come relazione e responsabilità rispetto al mondo. A partire da questo modello analitico, utilizzando queste chiavi, si sono analizzati i discorsi che Valter Veltroni ha pronunciato nelle provincie italiane durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del 2008. Lo si è fatto perché, al di là della polemica politica e della pressione dell’attualità, nelle intenzioni di Veltroni, nei suoi libri e nei suoi discorsi programmatici, è sembrato potersi cogliere la stessa inquietudine di cui si è già detto. L’inquietudine - per un’eredità senza testamento, per un linguaggio privo di codici, per l’esplorazione di spazi dove piantare alberi (come avrebbe detto Hannah Arendt, richiamata dallo stesso Veltroni nel suo discorso al Lingotto, a proposito della costruzione di futuro) – sembra essere l’elemento che meglio esprime la base del progetto politico di Veltroni, la preoccupazione che lo informa e che lo orienta. Utilizzare questi discorsi come caso di studio non significa, come dovrebbe essere evidente, condividerne le finalità politiche o suggerire che la rotta che è possibile individuare fosse l’unica possibile. In quanto studiosi, a noi interessano le condizioni di possibilità dei discorsi, non la loro attualità (e attualizzazione) politica.

L'ordine del discorso politico / Lombardo, Carmelo. - STAMPA. - (2018), pp. 5-260.

L'ordine del discorso politico

Lombardo, Carmelo
2018

Abstract

E’ possibile individuare un ordine del discorso politico nel momento del declino della politica? Nel momento che, fuori dal Novecento che ne è stato il secolo dell’espressione più compiuta, la sua narrazione dei tempi storici e delle società si è trasformata in linguaggio quotidiano? Nel momento che, anziché tracciare linee di orizzonte e di futuro, si conclude nello spazio di un presente fine a se stesso? Sono queste domande, espresse nei termini dell’inquietudine, che hanno retto e tessuto le fila delle pagine che compongono questo libro. Un’inquietudine che, come il titolo scelto suggerisce, rappresenta l’elemento costitutivo rispetto alla nostra relazione con i discorsi, ai dispositivi che contengono e che dispiegano nel loro farsi corpi, principi di organizzazione del mondo, principi di visione e di-visione, principi di sovversioni cognitive possibili, investimenti pratici, mobilitazioni e azioni collettive. Un’inquietudine «nei confronti di ciò che il discorso è nella sua materiale realtà di cosa pronunciata o scritta; inquietudine nei confronti di quest’esistenza transitoria, destinata magari a cancellarsi, ma secondo una durata che non ci appartiene; inquietudine nell’avvertire dietro a questa attività, pur quotidiana e grigia, poteri e pericoli che si immaginano a stento; inquietudine nel sospettare lotte, vittorie, ferite, dominazioni, servitù attraverso tante parole, di cui l’uso ha ridotto da sì gran tempo le asperità» (Foucault, 1971; tr. it. 2004, p. 4). Un’inquietudine resa quindi più acuta dal tramonto della politica, e con essa della modernità così come l’abbiamo conosciuta. Perché la politica, come è stato scritto (cfr. Tronti, 1998, p. 5), ha rappresentato la radice della modernità, il fondamento che le ha consentito di dispiegarsi fino alla sua radicalizzazione. Ma il tramonto della modernità, nelle conseguenze che la radicalizzano (cfr. Giddens, 1990; tr. it. 1994), rende la politica possibile piuttosto che necessaria. Indagare lo spazio di questo possibile – o, per meglio dire, dei possibili – significa provare a tracciare nuovi confini entro una rotta ancora da decifrare. Si tratta di riarticolare le categorie di cui disponiamo, e che ci sono state consegnate in eredità – anche se, per parafrasare Hannah Arendt, si tratta di un’eredità senza testamento. Perché se è vero che la politica come radice e come grande narrazione della modernità è al tramonto, pure avremmo bisogno di distinguere fra la pratica politica e la capacità di giudizio, ovvero fra la politica e il politico. Non semplicemente l’ordine politico, dunque, ma un punto archimedico a partire dal quale si può riflettere sull’ordine politico. Nella loro caratterizzazione grammaticale, il politico e la politica rappresentano gli equivalenti di quella sostantivizzazione degli aggettivi attraverso cui i greci ponevano il generale come un determinato, facendogli assumere significati differenti a seconda del sostantivo cui si riferiva: unità politiche o ordinamenti, gruppi, problemi, processi, conflitti, modi di agire e modi di vedere. In questo senso, poiché si tratta di un determinato campo di azione, avremmo in altre parole bisogno di distinguere fra la politica come relazione fra le persone e la politica come responsabilità nei confronti del mondo. Com’è noto, è stata Hannah Arendt (1993; tr. it. 2001) a caratterizzare così la politica, perché essa nasce tra le persone, si afferma come relazione e ha al suo centro, sempre, la preoccupazione per il mondo. Cambiare, conservare o fondare un mondo; deserto e oasi – ovvero: scongiurare il pericolo di portare il deserto nelle oasi (ibid., pp. 151-152). Ma questa distinzione serve per l’analisi, per leggere fino in fondo il progetto e i fallimenti della modernità, perché, nella sua effettualità, il compito della politica è mettere in relazione le persone affinché si prendano cura del mondo. La sostituzione della politica con la storia, ovvero della possibilità con la necessità, che ha caratterizzato il Novecento, unito al «disperato desiderio di essere esentati dalla facoltà di agire» (ibid., p. 11) ha assunto a proprio fondamento un’idea di giudizio che si esprime come capacità di ordinamento e di sussunzione (ad esempio del particolare sotto il generale e l’universale), che può esercitarsi sul particolare ma non sul criterio in sé che lo istituisce. Precipitata nel girone della necessità storica, la politica ha conosciuto il suo tramonto perché non è stata in grado di discernere piuttosto che ordinare e sussumere. Di costruire una facoltà di giudizio, in altre parole, senza criteri necessari. Perché, come è stato più volte scritto, è la contingenza il luogo della politica, l’urgenza del quotidiano che non deve però essere ridotto all’impotenza del qui e ora, ma neppure radicato in un passato che non consente un’effettiva esperienza del presente. Impraticabile la strada della grande narrazione, che cosa resta se non lo spazio del tempo breve, l’inseguimento delle variazioni di superficie? In questo dilemma si consuma la crisi della politica – e, di conseguenza, del discorso politico. Si è cercato di individuare una risposta possibile a questo dilemma e all’inquitudine a cui si è già fatto cenno seguendo i fili delle analisi sul discorso e sulla politica di Michel Foucault e Hannah Arendt, provando a darne una interpretazione sociologica. Altrove (cfr. Lombardo, 2006b e 2006c), si è già affrontata la questione di una definizione della politica anche come sistema simbolico, in cui il linguaggio politico ha il potere di imporre specifiche rappresentazioni e immaginazioni del mondo; di coordinare emotivamente strutture cognitive e culturali complesse; di esplicitare visioni del mondo allo scopo di stabilire, conservare, rafforzare o trasformare l’ordine simbolico delle cose (cfr. Lombardo, 2006b, pp. 10-11). Così come si è detto del potere del linguaggio che non deriva dal linguaggio stesso, ma da condizioni esterne che gli conferiscono quell’autorità che, in quanto tale, il linguaggio simbolizza. Potere, tuttavia, che non è mai identico a se stesso, posto che, come le ricerche di Foucault testimoniano, non si finisce mai di passare dalle parole d’ordine all’ordine muto delle cose e viceversa (cfr. Lombardo 2006c, pp. 104-105). Il compito di questo lavoro è invece di pensare un ordine del discorso politico qui e ora, nelle nuove condizioni date dalla crisi della politica (e della modernità). Il riferimento è a L’ordine del discorso di Michel Foucault, ai suoi principi costitutivi: rovesciamento, discontinuità, specificità, esteriorità. Bisogna innanzitutto operare un rovesciamento, guardare alla rarefazione dei discorsi piuttosto che al principio universale che li produce. Non più la grande narrazione (ad esempio della volontà di verità), ma neppure semplici ritagli; non un discorso illimitato ma pratiche discontinue; non un insieme di significati precostituiti ma un principio di specificità in grado di imporre un ordine alle cose del mondo; non un’analisi delle sue condizioni di verità ma, attraverso il principio di esteriorità, esplorare le sue condizioni esterne di possibilità (cfr. Foucault, 1971; tr. it. 2004, pp. 26-27). Un ordine del discorso, quindi, caratterizzato da questi principi; una concezione della politica come relazione e responsabilità rispetto al mondo. A partire da questo modello analitico, utilizzando queste chiavi, si sono analizzati i discorsi che Valter Veltroni ha pronunciato nelle provincie italiane durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del 2008. Lo si è fatto perché, al di là della polemica politica e della pressione dell’attualità, nelle intenzioni di Veltroni, nei suoi libri e nei suoi discorsi programmatici, è sembrato potersi cogliere la stessa inquietudine di cui si è già detto. L’inquietudine - per un’eredità senza testamento, per un linguaggio privo di codici, per l’esplorazione di spazi dove piantare alberi (come avrebbe detto Hannah Arendt, richiamata dallo stesso Veltroni nel suo discorso al Lingotto, a proposito della costruzione di futuro) – sembra essere l’elemento che meglio esprime la base del progetto politico di Veltroni, la preoccupazione che lo informa e che lo orienta. Utilizzare questi discorsi come caso di studio non significa, come dovrebbe essere evidente, condividerne le finalità politiche o suggerire che la rotta che è possibile individuare fosse l’unica possibile. In quanto studiosi, a noi interessano le condizioni di possibilità dei discorsi, non la loro attualità (e attualizzazione) politica.
2018
Linguaggio politico; sociologia della politica; sociologia delle rappresentazioni simboliche
Lombardo, Carmelo
06 Curatela::06a Curatela
L'ordine del discorso politico / Lombardo, Carmelo. - STAMPA. - (2018), pp. 5-260.
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