Nell’àmbito delle fonti determinative esterne al contratto, assume particolare rilievo il rinvio a terzi sostanzialmente o formalmente estranei all’area di incidenza degli effetti, con la conseguente attribuzione ad essi del potere di partecipare alla definizione del programma negoziale. L’art. 1349 c.c., nell’attribuire ai contraenti la facoltà di deferire ad un terzo la determinazione dell’oggetto del contratto, disciplina un istituto complesso, che impone collegamenti sistematici con i temi della qualificazione dell’atto, della meritevolezza di esso e dell’incidenza degli effetti. Come tale, l’arbitraggio è un istituto che si radica integralmente nel diritto sostanziale, anche se in passato esso ha suscitato il prevalente interesse degli studiosi del processo, i quali si sono occupati più che altro del rapporto tra la funzione dell’arbitratore ed il ruolo dell’arbitro. Sul punto, la dottrina si è divisa, da un canto, essendovi chi assegna al fenomeno la qualifica di vero e proprio giudizio; dall’altro, chi nega all’arbitratore la funzione di giudice, assegnandogli il ruolo di mero determinatore di un elemento non del tutto definito dalle parti del contratto. Sennonché, la funzione dell’arbitratore non ha nulla a che vedere con quella del giudice, la decisione di rimettere al terzo la determinazione di uno specifico elemento del negozio non presupponendo di necessità l’esistenza di una controversia economica o giuridica tra le parti e le ragioni che inducono i contraenti ad interpellare un terzo potendo essere le più svariate. Tra queste potrebbe persino ravvisarsi il contrasto tra i contraenti in ordine ad elementi non condivisi (ad esempio la valutazione di un bene), ma la più frequente (e che nulla ha a che vedere con la lite) risiede nella mancanza di cognizioni tecniche richieste dalla peculiare natura dell’accordo. L’intervento sull’atto negoziale da parte di un soggetto diverso dai contraenti, per la precisazione di uno degli elementi essenziali all’assetto degli interessi, induce ad interrogarsi sull’ampiezza del potere di colmare le lacune del regolamento deferibile al terzo e, correlativamente, sui limiti dell’iniziativa delle parti di rimettere a costui il suddetto potere. In altri termini, è necessario chiarire se nell’arbitraggio le parti possono rimettere al terzo qualsivoglia aspetto del regolamento da esse lasciato indefinito (fino addirittura ad ipotizzare un rinvio in bianco, un “vorremo ciò che Tizio vorrà”), ovvero se tale facoltà di rimettersi al terzo incontri dei limiti e quali. Il problema di fondo, la soluzione del quale condiziona evidentemente la risposta all’interrogativo che ci si pone, è quello di stabilire se la clausola di rinvio alla fonte determinativa esterna acceda ad un contratto già perfezionatosi (completo, nel senso di avere ogni attitudine alla produzione dell’effetto, quest’ultimo venendo soltanto differito al momento della determinazione dell’oggetto) ovvero se la relatio (vale a dire il richiamo all’altrui funzione determinativa) sia chiamata ad integrare, secondo il meccanismo della formazione progressiva dell’atto, un negozio originariamente incompleto, costituendo essa stessa fonte e non semplice momento/occasione di produzione di effetti. Nel primo caso, invero, saremmo davvero costretti – di là dalla collocazione sistematica dell’art. 1349 c.c. – a radicare il fenomeno nella disciplina di quell’unico elemento per il quale, come constatato, la legge equipara, nella logica della completezza (nel senso di attitudine a produrre effetti) del negozio, attuale e futura possibilità di determinazione: l’oggetto del contratto. ITALIANO
Arbitraggio / Criscuolo, Fabrizio. - STAMPA. - (2011), pp. 92-98.
Arbitraggio
fabrizio criscuoloWriting – Original Draft Preparation
2011
Abstract
Nell’àmbito delle fonti determinative esterne al contratto, assume particolare rilievo il rinvio a terzi sostanzialmente o formalmente estranei all’area di incidenza degli effetti, con la conseguente attribuzione ad essi del potere di partecipare alla definizione del programma negoziale. L’art. 1349 c.c., nell’attribuire ai contraenti la facoltà di deferire ad un terzo la determinazione dell’oggetto del contratto, disciplina un istituto complesso, che impone collegamenti sistematici con i temi della qualificazione dell’atto, della meritevolezza di esso e dell’incidenza degli effetti. Come tale, l’arbitraggio è un istituto che si radica integralmente nel diritto sostanziale, anche se in passato esso ha suscitato il prevalente interesse degli studiosi del processo, i quali si sono occupati più che altro del rapporto tra la funzione dell’arbitratore ed il ruolo dell’arbitro. Sul punto, la dottrina si è divisa, da un canto, essendovi chi assegna al fenomeno la qualifica di vero e proprio giudizio; dall’altro, chi nega all’arbitratore la funzione di giudice, assegnandogli il ruolo di mero determinatore di un elemento non del tutto definito dalle parti del contratto. Sennonché, la funzione dell’arbitratore non ha nulla a che vedere con quella del giudice, la decisione di rimettere al terzo la determinazione di uno specifico elemento del negozio non presupponendo di necessità l’esistenza di una controversia economica o giuridica tra le parti e le ragioni che inducono i contraenti ad interpellare un terzo potendo essere le più svariate. Tra queste potrebbe persino ravvisarsi il contrasto tra i contraenti in ordine ad elementi non condivisi (ad esempio la valutazione di un bene), ma la più frequente (e che nulla ha a che vedere con la lite) risiede nella mancanza di cognizioni tecniche richieste dalla peculiare natura dell’accordo. L’intervento sull’atto negoziale da parte di un soggetto diverso dai contraenti, per la precisazione di uno degli elementi essenziali all’assetto degli interessi, induce ad interrogarsi sull’ampiezza del potere di colmare le lacune del regolamento deferibile al terzo e, correlativamente, sui limiti dell’iniziativa delle parti di rimettere a costui il suddetto potere. In altri termini, è necessario chiarire se nell’arbitraggio le parti possono rimettere al terzo qualsivoglia aspetto del regolamento da esse lasciato indefinito (fino addirittura ad ipotizzare un rinvio in bianco, un “vorremo ciò che Tizio vorrà”), ovvero se tale facoltà di rimettersi al terzo incontri dei limiti e quali. Il problema di fondo, la soluzione del quale condiziona evidentemente la risposta all’interrogativo che ci si pone, è quello di stabilire se la clausola di rinvio alla fonte determinativa esterna acceda ad un contratto già perfezionatosi (completo, nel senso di avere ogni attitudine alla produzione dell’effetto, quest’ultimo venendo soltanto differito al momento della determinazione dell’oggetto) ovvero se la relatio (vale a dire il richiamo all’altrui funzione determinativa) sia chiamata ad integrare, secondo il meccanismo della formazione progressiva dell’atto, un negozio originariamente incompleto, costituendo essa stessa fonte e non semplice momento/occasione di produzione di effetti. Nel primo caso, invero, saremmo davvero costretti – di là dalla collocazione sistematica dell’art. 1349 c.c. – a radicare il fenomeno nella disciplina di quell’unico elemento per il quale, come constatato, la legge equipara, nella logica della completezza (nel senso di attitudine a produrre effetti) del negozio, attuale e futura possibilità di determinazione: l’oggetto del contratto. ITALIANOFile | Dimensione | Formato | |
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