Vitruvio aveva stigmatizzato i requisiti che l’opera architettonica dovrebbe avere, ovvero venustas, firmitas e utilitas (traducibili, in termini un po’ più riduttivi di quanto espresso nelle parole in latino come: bellezza, solidità strutturale e funzionalità). Secondo diverse accezioni stilistiche e figurative in tutti i periodi storici gli architetti hanno cercato di contemperare funzionalità e bellezza, cercando di realizzare forme, che, nel risolvere un’esigenza dell’uomo, soddisfacessero un’aspirazione dello spirito di godimento estetico. La funzione varia nel tempo, al variare delle esigenze dell’uomo, ma, mantenendosi in un certo ambito tipologico, la funzione abitativa di una casa o di un edificio pubblico del passato non sono così distanti da quelle odierne; o meglio, riferendosi agli elementi di dettaglio, le dimensioni di una scala, restano legate comunque alle dimensioni antropometriche. Al pari la firmitas, pur nei grandi progressi della tecnica e delle tecnologie, che consentono arditezze strutturali sempre più spinte, è sempre subordinata alla legge di gravità degli edifici. La definizione di “bellezza” in ambito architettonico, invece, è qualcosa di più sfuggente: varia a seconda dei diversi ambiti culturali, dei periodi storici e dei diversi soggetti ricettori, tanto che tutte le volte che i trattatisti del passato hanno cercato di dare parametri e definizioni quantitative della bellezza in ambito architettonico, gli stessi sono stati superati da opere successive, che hanno ribaltato valori estetici dell’epoca precedente. Un nuovo atteggiamento culturale, che ha preso finalmente in considerazione le esigenze di un’utenza ampliata (disabili su sedia a ruote, non vedenti, non udenti, ma anche anziani e persone con disabilità temporanee), ha definito un quadro esigenziale diverso di riferimento per i tecnici, ponendo nuove frontiere al progetto architettonico. Purtroppo al momento, l’integrazione di quegli elementi necessari al superamento delle barriere architettoniche con il progetto dell’edificio, dello spazio pubblico (piazza o area verde) avviene troppo spesso in maniera posticcia e disorganica, quasi come se gli elementi “rampa”, corrimano, bagno, ecc., fossero protesi aggiuntive al corpo primigenio dell’architettura. La definizione di struttura messa “a norma” contribuisce all’idea del trapianto di oggetti spuri, aggiunti dopo, ai quali ci si deve pensare per forza, dopo aver realizzato l’opera bella. Spesso quegli elementi sono realizzati in modo da avere un aspetto sanitarizzato per dire a tutti: ci sono e la sistemazione è a posto “burocraticamente”. Seguendo, invece, un principio intramontabile di bellezza, secondo cui una buona forma, con belli e giusti materiali, incorpora opportunamente l’utilitas, tutti quegli accorgimenti utili al superamento delle barriere architettoniche dovrebbero essere fisiologicamente incorporati nell’architettura, elementi pensati opportunamente ed integrati nell’immagine complessiva dello spazio e della sistemazione architettonica. L’elemento “rampa”, che nell’immaginario collettivo è la soluzione che per eccellenza consente di eliminare le barriere architettoniche, nell’assolvere alla precisa funzione di superare un dislivello con un piano inclinato, può divenire elemento morfologico con una sua valenza estetica. Allora, come per gli altri elementi costitutivi dell’architettura, l’architetto può operare in chiave semantica, accentuando e connotando quell’elemento o mimetizzandolo, ma sempre operando con registri diversi secondo valutazioni esteticamente congruenti. La bellezza della soluzione, vista come integrazione della forma volta a risolvere una particolare funzione all’interno di altre funzioni diverse, può essere elemento importante di manifestazione di un’idea base e principio di “design universale”: ciò che è utile per qualcuno che si trova in condizione di maggiore svantaggio non può che avere una ricaduta positiva anche sugli individui che si trovano in condizioni psicofisiche ottimali, rendendo l’ambiente sicuro, comfortevole e qualitativamente migliore per tutti i potenziali utilizzatori, senza differenziazioni di sorta. L’integrazione, anche nella soluzione architettonica, soddisfa un principio trans-epocale e trans-culturale di bellezza!

L'estetica nell'architettura accessibile delle aree verdi / Empler, Tommaso. - In: TSPORT. - ISSN 1121-6913. - STAMPA. - 271:(2010), pp. 93-95.

L'estetica nell'architettura accessibile delle aree verdi

EMPLER, TOMMASO
2010

Abstract

Vitruvio aveva stigmatizzato i requisiti che l’opera architettonica dovrebbe avere, ovvero venustas, firmitas e utilitas (traducibili, in termini un po’ più riduttivi di quanto espresso nelle parole in latino come: bellezza, solidità strutturale e funzionalità). Secondo diverse accezioni stilistiche e figurative in tutti i periodi storici gli architetti hanno cercato di contemperare funzionalità e bellezza, cercando di realizzare forme, che, nel risolvere un’esigenza dell’uomo, soddisfacessero un’aspirazione dello spirito di godimento estetico. La funzione varia nel tempo, al variare delle esigenze dell’uomo, ma, mantenendosi in un certo ambito tipologico, la funzione abitativa di una casa o di un edificio pubblico del passato non sono così distanti da quelle odierne; o meglio, riferendosi agli elementi di dettaglio, le dimensioni di una scala, restano legate comunque alle dimensioni antropometriche. Al pari la firmitas, pur nei grandi progressi della tecnica e delle tecnologie, che consentono arditezze strutturali sempre più spinte, è sempre subordinata alla legge di gravità degli edifici. La definizione di “bellezza” in ambito architettonico, invece, è qualcosa di più sfuggente: varia a seconda dei diversi ambiti culturali, dei periodi storici e dei diversi soggetti ricettori, tanto che tutte le volte che i trattatisti del passato hanno cercato di dare parametri e definizioni quantitative della bellezza in ambito architettonico, gli stessi sono stati superati da opere successive, che hanno ribaltato valori estetici dell’epoca precedente. Un nuovo atteggiamento culturale, che ha preso finalmente in considerazione le esigenze di un’utenza ampliata (disabili su sedia a ruote, non vedenti, non udenti, ma anche anziani e persone con disabilità temporanee), ha definito un quadro esigenziale diverso di riferimento per i tecnici, ponendo nuove frontiere al progetto architettonico. Purtroppo al momento, l’integrazione di quegli elementi necessari al superamento delle barriere architettoniche con il progetto dell’edificio, dello spazio pubblico (piazza o area verde) avviene troppo spesso in maniera posticcia e disorganica, quasi come se gli elementi “rampa”, corrimano, bagno, ecc., fossero protesi aggiuntive al corpo primigenio dell’architettura. La definizione di struttura messa “a norma” contribuisce all’idea del trapianto di oggetti spuri, aggiunti dopo, ai quali ci si deve pensare per forza, dopo aver realizzato l’opera bella. Spesso quegli elementi sono realizzati in modo da avere un aspetto sanitarizzato per dire a tutti: ci sono e la sistemazione è a posto “burocraticamente”. Seguendo, invece, un principio intramontabile di bellezza, secondo cui una buona forma, con belli e giusti materiali, incorpora opportunamente l’utilitas, tutti quegli accorgimenti utili al superamento delle barriere architettoniche dovrebbero essere fisiologicamente incorporati nell’architettura, elementi pensati opportunamente ed integrati nell’immagine complessiva dello spazio e della sistemazione architettonica. L’elemento “rampa”, che nell’immaginario collettivo è la soluzione che per eccellenza consente di eliminare le barriere architettoniche, nell’assolvere alla precisa funzione di superare un dislivello con un piano inclinato, può divenire elemento morfologico con una sua valenza estetica. Allora, come per gli altri elementi costitutivi dell’architettura, l’architetto può operare in chiave semantica, accentuando e connotando quell’elemento o mimetizzandolo, ma sempre operando con registri diversi secondo valutazioni esteticamente congruenti. La bellezza della soluzione, vista come integrazione della forma volta a risolvere una particolare funzione all’interno di altre funzioni diverse, può essere elemento importante di manifestazione di un’idea base e principio di “design universale”: ciò che è utile per qualcuno che si trova in condizione di maggiore svantaggio non può che avere una ricaduta positiva anche sugli individui che si trovano in condizioni psicofisiche ottimali, rendendo l’ambiente sicuro, comfortevole e qualitativamente migliore per tutti i potenziali utilizzatori, senza differenziazioni di sorta. L’integrazione, anche nella soluzione architettonica, soddisfa un principio trans-epocale e trans-culturale di bellezza!
2010
sport; universal design; accessibilità; percezione sensoriale
01 Pubblicazione su rivista::01a Articolo in rivista
L'estetica nell'architettura accessibile delle aree verdi / Empler, Tommaso. - In: TSPORT. - ISSN 1121-6913. - STAMPA. - 271:(2010), pp. 93-95.
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