ABSTRACT Architetture sensibili. Il Museo Ebraico e il Monumento alle Vittime dell’Olocausto a Berlino. Il museo è un oggetto di studio di grande interesse per il semiotico, un luogo che non solo è deputato alla memoria e alla trasmissione culturale in tutti i suoi aspetti, ma che nella sua realizzazione pratica è il tripudio delle semiotiche sincretiche e della traduzione intersemiotica. Jurij Lotman, nel saggio “La semiosfera”, usa proprio lo spazio museale come esempio dell’eterogeneità vitale e costitutiva della cultura: immaginiamo, egli dice, di trovarci in un ambiente in cui coesistono e interagiscono materiali diversi, come oggetti di varie epoche, iscrizioni in lingue note e ignote, istruzioni ai visitatori, itinerari, piante e schemi spaziali, regole di comportamento, e in più i visitatori stessi… (Lotman 1984, p. 64 trad.it.). Altri studiosi hanno intrapreso lo studio del museo in una prospettiva semiotica. Questo interesse è oggi se possibile enfatizzato dai musei di nuova concezione, spesso opere di architettura altamente significative, veri e propri landmark che richiamano l’attenzione sui ruoli che il museo ha assunto rispetto al passato. In particolare la “nuova museologia”, le cui idee in realtà iniziano a diffondersi subito dopo la seconda guerra mondiale, assegna un posto centrale al visitatore, al quale, rispetto al passato, riconosce un ruolo fondamentalmente attivo, nel suo modo di accostarsi all’arte e di fruire degli spazi a essa dedicati, un ruolo inoltre determinante per la stessa sopravvivenza di queste istituzioni così complesse. Nella trasformazione del museo di ultima generazione l’architettura svolge un ruolo fondamentale, In base ai diversi contesti e alle personalità dei progettisti, si possono stilare tipologie molto varie delle soluzioni adottate, ma alla fine ogni museo è sempre unico, deve essere riconoscibile come sia personalità semiotica – come identità o in certi casi anche vera e propria marca - sia come “opera” firmata essa stessa malgrado la sua originaria vocazione di contenitore per altre opere. Proprio a partire da questa prima semplice idea del rapporto fra contenitore/contenuto, il museo si presenta basilarmente come un oggetto nello spazio, visto-percepito dall’esterno, e come un particolare effetto-spazio, visto-percepito dall’interno. Il rapporto fra esterno e interno potrebbe già dare luogo a molte riflessioni. Ad esempio, una delle pratiche semiotiche dell’architettura del riuso, oggi molto diffuse, si basa proprio sull’operazione dello “staccare” la morfologia esterna degli edifici, un tempo codificata in base alla corrispondenza rispetto a specifiche funzioni, dalle attività che si svolgono invece al loro interno: così diventano musei edifici originariamente destinati ad altro. E’ quando accade a grandi edifici di epoca moderna oggi abbandonati per i più vari motivi – il cambiamento delle attività produttive e dell’organizzazione sociale, l’inglobamento nella città - e ridestinati a nuovo uso: fabbriche, stazioni, ospedali. Negli esempi più felici, essi sono anzitutto musei di se stessi, di ciò che erano, delle attività che accoglievano, e sono inoltre nuovi contenitori per l’arte. Si tratta di uno dei mezzi attraverso i quali lo spazio del museo, in modo più o meno marcato, tende in generale a produrre un effetto di locale “eterotopia” rispetto al tessuto della città, a costituire un luogo di commutazione della sua percezione ordinaria, un punto di discontinuità nel suo tessuto, che ci obbliga a pensare ai “paesaggi percettivi” che vi si alternano. E’ evidente che lo spazio del museo istituisce per il cittadino e più in generale per il visitatore la possibilità di esperire uno spazio diverso da quello abituale, per dimensioni, allestimento e funzioni, che lo introduca complessivamente ad un’altra dimensione semiosica rispetto a quella abituale. Uno spazio altro, anzitutto, una disgiuntura, per esperire un senso dello spazio diverso e istituire per il suo tramite il contatto con un altro tempo (museo storico) altre culture (museo etnografico), un'altra percezione del reale (museo d’arte) e così via. Questi spazi museali ed espositivi (come del resto ad altri fini quelli ludici e quelli commerciali) si propongono infatti di enfatizzare la percezione sensoriale nell’esperienza estetica e nella fruizione culturale (il movimento o la sosta nello spazio e in subordine la visione, l’ascolto, il tatto). In modi diversi, le architetture contemporanee sembrano rendere possibile anche un ribaltamento di queste esperienze metropolitane dall’”interno” dei luoghi deputati verso l’esterno che le contiene. In molti casi, dunque, il museo affida una parte importante della propria missione alla concezione stessa del proprio spazio – cioè all’ architettura e alla sua presunta efficacia spaziale, attiva sia nell’ambientare le opere, sia nell’accogliere i visitatori che vogliono esperirle. Riferendosi al “soggetto della decifrazione museale”, Manar Hammad, al termine della sua analisi del doppio museo della Centrale Montemartini osserva che si tratta di un soggetto cognitivo, dotato di un bagaglio culturale e quindi di una competenza variabili, in parte attivati o addirittura costruiti dallo stesso allestimento museale, che rendono ogni visita potenzialmente diversa dall’altra, benché tutte probabilmente siano accomunate da un nucleo o schema comune, che è scopo di un’analisi semiotica mettere in evidenza. Ma il visitatore del museo è anche un soggetto pragmatico, che deve percorrerne le sale e gli spazi al fine di “guardarle e di guardarne gli oggetti”, e poiché “l’estensione dei luoghi e la loro disposizione topologica autorizza molteplici circuiti di visita, ci sono altrettanti percorsi lineari generatori di effetti di senso.” Ovviamente, i visitatori si stratificano in base alle loro competenze e agli specifici obiettivi delle loro visite. Infine, Hammad ricorda che la visita di un museo raramente si svolge in totale solitudine: il visitatore deve anche fare i conti con gli altri visitatori, e “aggiustare” i propri percorsi a quelli degli altri: in questo senso, oltre ad essere un soggetto osservatore, è anche un soggetto situato. E’ da questo punto di arrivo che vorrei riaprire il discorso, mettendo in evidenza non solo il percorso di visita - cognitivo, pragmatico - iscritto dal dispositivo museale, ma anche l’esperienza di visita. Non di solo “sapere” – prodotto e distillato dalla visione, dalla lettura, dall’ascolto ecc., e neppure dall’eventuale manipolazioni di oggetti o da suggerite performance- è infatti intessuta l’interpretazione del museo, ma anche di una dimensione più diretta della percezione: il “sentire”, l’estesia. L’esperienza del visitatore è anzitutto corporea, riconducibile alla sua esperienza propriocettiva oltre che esterocettiva: egli è un corpo nello spazio e scambia informazioni con quanto lo circonda ed elabora senso già a questo livello, anche solo con semplici investimenti timici di euforia/disforia. Diverso è il modo in cui “si sente” ed è disposto verso l’esterno se è in piedi/sdraiato/accucciato, se normo-orientato oppure disorientato. Le caratteristiche ambientali – di dimensioni, di orientamento, di temperatura, di illuminazione, di materiali, di colori possono influire sullo stato del soggetto, manipolarlo e farlo sentire espanso/contratto//teso/rilassato; come sul piano timico l’articolazione fra luce e buio possono farlo sentire sicuro/insicuro, noncurante/attento. Nel momento in cui egli entra nello spazio del museo d’altro canto accetta, in termini narrativi, il contratto fiduciario che gli è offerto dall’enunciazione museale, che probabilmente già conosce attraverso la comunicazione esterna, e riguardo la quale ha già formulato delle specifiche attese. Gli strumenti semiotici attraverso i quali possiamo tentare di descrivere questi luoghi e questi processi di produzione di senso riguardano da un lato le specificità degli oggetti testuali, che sembrano ben rispondere all’analisi secondo i modi di significazione semi-simbolici, caratterizzati dalla correlazione fra categorie dei due piani di espressione e contenuto, che si rivela particolarmente adatto a dar conto delle articolazioni dei testi artistici astratti e tridimensionali, come oggetti, architetture, spazi. D’altro canto, bisogna dar conto dei modi specifici di fruizione che essi presuppongono, e che in genere si affrontano considerando i visitatori come dei soggetti narrativi, dalle competenze stratificate, instradati lungo percorsi determinati. Al tempo stesso, ci sembra importante non banalizzare la qualità particolare dell’esperienza e dei percorsi allestiti dai nuovi spazi architettonici e museali che ci proponiamo di descrivere, e dunque ci sembra che nel modello di analisi ne andrebbe enfatizzata la dimensione percettiva e timica, come radice delle possibili diverse modalità (o stadi) di relazione fra soggetto e oggetto. E’ sempre possibile, inoltre, che frequentazione individuale e/o collettiva di uno spazio dia luogo forme idiosincratiche di fruizione, inizialmente non previste da chi ha concepito o allestito gli spazi in questione, e che in certi casi possono arrivare alla risemantizzazione. A partire dal tema estetico, Jacques Geninasca (1997) proponeva ad esempio di distinguere fra diversi tipi di prensione, corrispondenti a diversi “modi del senso”, cioè a modi di ricondurre la diversità fenomenica ad unità intelligibile, corrispondenti a diverse attitudini semiotiche. Fra di essi la prensione “impressiva”, sembra mettere in corrispondenza, grazie a specifiche forme ritmiche, fissate in figure, certe manifestazioni esterne (il profilo di un paesaggio, ad esempio – ma potrebbe trattarsi anche dello skyline di una città, dei versi di una poesia, di una melodia, di un quadro o di un edificio) con gli stati interni del soggetto, “incernierando” insieme tratti esterocettivi, propriocettivi e timici, in una forma non tanto di interpretazione quanto di semiosi in atto. Il Museo Ebraico di Daniel Libeskind a Berlino, su cui si focalizza l’analisi, rappresenta forse uno degli esempi più noti di architettura sensibile: un’architettura fortemente espressiva rispetto al tema assegnato, che svolge con i suoi mezzi un discorso appassionato e al tempo stesso predispone un percorso per il visitatore fortemente improntato all’idea che l’esperienza della visita produca in lui trasformazioni profonde, che coinvolgano tutte le dimensioni del suo simulacro semiotico: pragmatica, cognitiva, patemica, o timico-percettiva. Al centro dell’esperienza di visita vi è la sollecitazione percettiva, ovviamente preparata e accompagnata da indicazioni verbali (attraverso cartelli, didascalie posti lungo il percorso, o guide cartacee, o ancora audioguide), sulla quale può venire a innestarsi una conoscenza riflessa che metta in correlazione le sensazioni e le emozioni provate con i temi e gli argomenti affrontati. Il “senso” che il visitatore dovrebbe trarre dalla visita si configura come un caso di semiosi in atto. In certa misura queste reazioni del soggetto nello spazio sono programmabili e programmate, in certi casi sono implicitamente o esplicitamente codificate – pensiamo all’architettura religiosa -, e forse da un punto di vista storico questi “effetti” oggi ci colpiscono in modo particolare perché pensiamo che i valori dell’architettura moderna siano legati più all’astrazione che non alla densità percettiva.

“Architetture sensibili. Il Museo Ebraico e il Monumento alle Vittime dell’Olocausto a Berlino” / Pezzini, Isabella. - In: VS. - ISSN 0393-8255. - 109-111:(2009), pp. 57-81.

“Architetture sensibili. Il Museo Ebraico e il Monumento alle Vittime dell’Olocausto a Berlino”

PEZZINI, Isabella
2009

Abstract

ABSTRACT Architetture sensibili. Il Museo Ebraico e il Monumento alle Vittime dell’Olocausto a Berlino. Il museo è un oggetto di studio di grande interesse per il semiotico, un luogo che non solo è deputato alla memoria e alla trasmissione culturale in tutti i suoi aspetti, ma che nella sua realizzazione pratica è il tripudio delle semiotiche sincretiche e della traduzione intersemiotica. Jurij Lotman, nel saggio “La semiosfera”, usa proprio lo spazio museale come esempio dell’eterogeneità vitale e costitutiva della cultura: immaginiamo, egli dice, di trovarci in un ambiente in cui coesistono e interagiscono materiali diversi, come oggetti di varie epoche, iscrizioni in lingue note e ignote, istruzioni ai visitatori, itinerari, piante e schemi spaziali, regole di comportamento, e in più i visitatori stessi… (Lotman 1984, p. 64 trad.it.). Altri studiosi hanno intrapreso lo studio del museo in una prospettiva semiotica. Questo interesse è oggi se possibile enfatizzato dai musei di nuova concezione, spesso opere di architettura altamente significative, veri e propri landmark che richiamano l’attenzione sui ruoli che il museo ha assunto rispetto al passato. In particolare la “nuova museologia”, le cui idee in realtà iniziano a diffondersi subito dopo la seconda guerra mondiale, assegna un posto centrale al visitatore, al quale, rispetto al passato, riconosce un ruolo fondamentalmente attivo, nel suo modo di accostarsi all’arte e di fruire degli spazi a essa dedicati, un ruolo inoltre determinante per la stessa sopravvivenza di queste istituzioni così complesse. Nella trasformazione del museo di ultima generazione l’architettura svolge un ruolo fondamentale, In base ai diversi contesti e alle personalità dei progettisti, si possono stilare tipologie molto varie delle soluzioni adottate, ma alla fine ogni museo è sempre unico, deve essere riconoscibile come sia personalità semiotica – come identità o in certi casi anche vera e propria marca - sia come “opera” firmata essa stessa malgrado la sua originaria vocazione di contenitore per altre opere. Proprio a partire da questa prima semplice idea del rapporto fra contenitore/contenuto, il museo si presenta basilarmente come un oggetto nello spazio, visto-percepito dall’esterno, e come un particolare effetto-spazio, visto-percepito dall’interno. Il rapporto fra esterno e interno potrebbe già dare luogo a molte riflessioni. Ad esempio, una delle pratiche semiotiche dell’architettura del riuso, oggi molto diffuse, si basa proprio sull’operazione dello “staccare” la morfologia esterna degli edifici, un tempo codificata in base alla corrispondenza rispetto a specifiche funzioni, dalle attività che si svolgono invece al loro interno: così diventano musei edifici originariamente destinati ad altro. E’ quando accade a grandi edifici di epoca moderna oggi abbandonati per i più vari motivi – il cambiamento delle attività produttive e dell’organizzazione sociale, l’inglobamento nella città - e ridestinati a nuovo uso: fabbriche, stazioni, ospedali. Negli esempi più felici, essi sono anzitutto musei di se stessi, di ciò che erano, delle attività che accoglievano, e sono inoltre nuovi contenitori per l’arte. Si tratta di uno dei mezzi attraverso i quali lo spazio del museo, in modo più o meno marcato, tende in generale a produrre un effetto di locale “eterotopia” rispetto al tessuto della città, a costituire un luogo di commutazione della sua percezione ordinaria, un punto di discontinuità nel suo tessuto, che ci obbliga a pensare ai “paesaggi percettivi” che vi si alternano. E’ evidente che lo spazio del museo istituisce per il cittadino e più in generale per il visitatore la possibilità di esperire uno spazio diverso da quello abituale, per dimensioni, allestimento e funzioni, che lo introduca complessivamente ad un’altra dimensione semiosica rispetto a quella abituale. Uno spazio altro, anzitutto, una disgiuntura, per esperire un senso dello spazio diverso e istituire per il suo tramite il contatto con un altro tempo (museo storico) altre culture (museo etnografico), un'altra percezione del reale (museo d’arte) e così via. Questi spazi museali ed espositivi (come del resto ad altri fini quelli ludici e quelli commerciali) si propongono infatti di enfatizzare la percezione sensoriale nell’esperienza estetica e nella fruizione culturale (il movimento o la sosta nello spazio e in subordine la visione, l’ascolto, il tatto). In modi diversi, le architetture contemporanee sembrano rendere possibile anche un ribaltamento di queste esperienze metropolitane dall’”interno” dei luoghi deputati verso l’esterno che le contiene. In molti casi, dunque, il museo affida una parte importante della propria missione alla concezione stessa del proprio spazio – cioè all’ architettura e alla sua presunta efficacia spaziale, attiva sia nell’ambientare le opere, sia nell’accogliere i visitatori che vogliono esperirle. Riferendosi al “soggetto della decifrazione museale”, Manar Hammad, al termine della sua analisi del doppio museo della Centrale Montemartini osserva che si tratta di un soggetto cognitivo, dotato di un bagaglio culturale e quindi di una competenza variabili, in parte attivati o addirittura costruiti dallo stesso allestimento museale, che rendono ogni visita potenzialmente diversa dall’altra, benché tutte probabilmente siano accomunate da un nucleo o schema comune, che è scopo di un’analisi semiotica mettere in evidenza. Ma il visitatore del museo è anche un soggetto pragmatico, che deve percorrerne le sale e gli spazi al fine di “guardarle e di guardarne gli oggetti”, e poiché “l’estensione dei luoghi e la loro disposizione topologica autorizza molteplici circuiti di visita, ci sono altrettanti percorsi lineari generatori di effetti di senso.” Ovviamente, i visitatori si stratificano in base alle loro competenze e agli specifici obiettivi delle loro visite. Infine, Hammad ricorda che la visita di un museo raramente si svolge in totale solitudine: il visitatore deve anche fare i conti con gli altri visitatori, e “aggiustare” i propri percorsi a quelli degli altri: in questo senso, oltre ad essere un soggetto osservatore, è anche un soggetto situato. E’ da questo punto di arrivo che vorrei riaprire il discorso, mettendo in evidenza non solo il percorso di visita - cognitivo, pragmatico - iscritto dal dispositivo museale, ma anche l’esperienza di visita. Non di solo “sapere” – prodotto e distillato dalla visione, dalla lettura, dall’ascolto ecc., e neppure dall’eventuale manipolazioni di oggetti o da suggerite performance- è infatti intessuta l’interpretazione del museo, ma anche di una dimensione più diretta della percezione: il “sentire”, l’estesia. L’esperienza del visitatore è anzitutto corporea, riconducibile alla sua esperienza propriocettiva oltre che esterocettiva: egli è un corpo nello spazio e scambia informazioni con quanto lo circonda ed elabora senso già a questo livello, anche solo con semplici investimenti timici di euforia/disforia. Diverso è il modo in cui “si sente” ed è disposto verso l’esterno se è in piedi/sdraiato/accucciato, se normo-orientato oppure disorientato. Le caratteristiche ambientali – di dimensioni, di orientamento, di temperatura, di illuminazione, di materiali, di colori possono influire sullo stato del soggetto, manipolarlo e farlo sentire espanso/contratto//teso/rilassato; come sul piano timico l’articolazione fra luce e buio possono farlo sentire sicuro/insicuro, noncurante/attento. Nel momento in cui egli entra nello spazio del museo d’altro canto accetta, in termini narrativi, il contratto fiduciario che gli è offerto dall’enunciazione museale, che probabilmente già conosce attraverso la comunicazione esterna, e riguardo la quale ha già formulato delle specifiche attese. Gli strumenti semiotici attraverso i quali possiamo tentare di descrivere questi luoghi e questi processi di produzione di senso riguardano da un lato le specificità degli oggetti testuali, che sembrano ben rispondere all’analisi secondo i modi di significazione semi-simbolici, caratterizzati dalla correlazione fra categorie dei due piani di espressione e contenuto, che si rivela particolarmente adatto a dar conto delle articolazioni dei testi artistici astratti e tridimensionali, come oggetti, architetture, spazi. D’altro canto, bisogna dar conto dei modi specifici di fruizione che essi presuppongono, e che in genere si affrontano considerando i visitatori come dei soggetti narrativi, dalle competenze stratificate, instradati lungo percorsi determinati. Al tempo stesso, ci sembra importante non banalizzare la qualità particolare dell’esperienza e dei percorsi allestiti dai nuovi spazi architettonici e museali che ci proponiamo di descrivere, e dunque ci sembra che nel modello di analisi ne andrebbe enfatizzata la dimensione percettiva e timica, come radice delle possibili diverse modalità (o stadi) di relazione fra soggetto e oggetto. E’ sempre possibile, inoltre, che frequentazione individuale e/o collettiva di uno spazio dia luogo forme idiosincratiche di fruizione, inizialmente non previste da chi ha concepito o allestito gli spazi in questione, e che in certi casi possono arrivare alla risemantizzazione. A partire dal tema estetico, Jacques Geninasca (1997) proponeva ad esempio di distinguere fra diversi tipi di prensione, corrispondenti a diversi “modi del senso”, cioè a modi di ricondurre la diversità fenomenica ad unità intelligibile, corrispondenti a diverse attitudini semiotiche. Fra di essi la prensione “impressiva”, sembra mettere in corrispondenza, grazie a specifiche forme ritmiche, fissate in figure, certe manifestazioni esterne (il profilo di un paesaggio, ad esempio – ma potrebbe trattarsi anche dello skyline di una città, dei versi di una poesia, di una melodia, di un quadro o di un edificio) con gli stati interni del soggetto, “incernierando” insieme tratti esterocettivi, propriocettivi e timici, in una forma non tanto di interpretazione quanto di semiosi in atto. Il Museo Ebraico di Daniel Libeskind a Berlino, su cui si focalizza l’analisi, rappresenta forse uno degli esempi più noti di architettura sensibile: un’architettura fortemente espressiva rispetto al tema assegnato, che svolge con i suoi mezzi un discorso appassionato e al tempo stesso predispone un percorso per il visitatore fortemente improntato all’idea che l’esperienza della visita produca in lui trasformazioni profonde, che coinvolgano tutte le dimensioni del suo simulacro semiotico: pragmatica, cognitiva, patemica, o timico-percettiva. Al centro dell’esperienza di visita vi è la sollecitazione percettiva, ovviamente preparata e accompagnata da indicazioni verbali (attraverso cartelli, didascalie posti lungo il percorso, o guide cartacee, o ancora audioguide), sulla quale può venire a innestarsi una conoscenza riflessa che metta in correlazione le sensazioni e le emozioni provate con i temi e gli argomenti affrontati. Il “senso” che il visitatore dovrebbe trarre dalla visita si configura come un caso di semiosi in atto. In certa misura queste reazioni del soggetto nello spazio sono programmabili e programmate, in certi casi sono implicitamente o esplicitamente codificate – pensiamo all’architettura religiosa -, e forse da un punto di vista storico questi “effetti” oggi ci colpiscono in modo particolare perché pensiamo che i valori dell’architettura moderna siano legati più all’astrazione che non alla densità percettiva.
2009
semiotica dello spazio, semiotica del museo
01 Pubblicazione su rivista::01a Articolo in rivista
“Architetture sensibili. Il Museo Ebraico e il Monumento alle Vittime dell’Olocausto a Berlino” / Pezzini, Isabella. - In: VS. - ISSN 0393-8255. - 109-111:(2009), pp. 57-81.
File allegati a questo prodotto
Non ci sono file associati a questo prodotto.

I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11573/46203
 Attenzione

Attenzione! I dati visualizzati non sono stati sottoposti a validazione da parte dell'ateneo

Citazioni
  • ???jsp.display-item.citation.pmc??? ND
  • Scopus ND
  • ???jsp.display-item.citation.isi??? ND
social impact