La precedente formulazione della clausola definitoria dell’illecito disciplinare del magistrato, contenuta nel r.d.l. 31 maggio 1946 n. 511 era troppo indeterminata, lasciando al giudice del merito ampio margine di discrezionalità e finendo con l’attribuirgli il compito di individuazione concreta delle condotte sanzionabili, come del resto hanno avuto modo di affermare anche le Sezioni Unite civili in una pronuncia del 2001. Il legislatore, nel riformulare la clausola, avrebbe potuto ispirarsi ai principi civilistici, in particolare a quelli propri del diritto del lavoro. Invece, ha preferito ispirarsi alle garanzie proprie del diritto e della procedura penale, scelta questa che pare senz’altro da approvare. La tipicizzazione dell’illecito disciplinare secondo il principio di stretta legalità ha seguito due tappe fondamentali. La prima è stata segnata con il decreto del febbraio 2006, nel quale accanto ad una più attenta definizione dell’illecito si era comunque mantenuta una clausola onnicomprensiva, che si riteneva potesse meglio garantire la completezza del sistema. Tuttavia, non sembra da accogliere l’opinione per la quale la centralità del «dovere» del magistrato rende legittimo il ricorso a clausole generali e analogia in malam partem, in quanto la Costituzione pone la «materia dei doveri e della responsabilità disciplinare» sotto «l’impero della legge», e non sotto il potere, che può degenerare in arbitrio, di chi giudichi la responsabilità medesima. Veniamo, dunque, alla seconda tappa della trasformazione del sistema, che si ha con la legge 24 ottobre 2006 n. 269, che elimina gran parte delle clausole comunque affette da genericità. Nell’ottica di un avvicinamento dell’illecito disciplinare alle garanzie penalistiche, la l. n. 269/2006 introduce l’art. 3-bis che afferma che l’illecito disciplinare non si configura quando il fatto è di scarsa rilevanza. La formula richiama immediatamente il principio di necessaria offensività, individuando non una causa di non punibilità, ma propriamente un’ipotesi in cui è esclusa la stessa configurabilità dell’illecito. La formula utilizzata dalla legge per descrivere il principio della scarsa rilevanza del fatto, tuttavia, si presenta più ampia, in primo luogo perché lascia sussistere la possibilità di accertamento di «una qualche rilevanza» del fatto che potrebbe non equivalere alla «non sufficiente rilevanza», ed in secondo luogo perché ha ad oggetto il fatto e non l’evento, come invece accade per il principio di offensività. Una accezione ampia del principio di sufficiente rilevanza, pertanto, potrà condurre alla conclusione dell’insussistenza dell’illecito disciplinare non soltanto per l’oggettiva assenza dell’offesa rilevante agli interessi tutelati dalla norma, ma anche per l’insufficiente rilevanza della condotta tenuta e/o dell’elemento psicologico, in questo modo dando rilievo ad una «ridotta colpevolezza». Il legislatore non ha definito con una clausola generale il titolo soggettivo dell’illecito disciplinare. Questo porta a concludere che la responsabilità possa essere attribuita per dolo o per colpa, salve le specifiche indicazioni contenute nella descrizione dei singoli illeciti, i quali potranno richiedere espressamente determinate forme di dolo o di colpa (esclusa la colpa lievissima per le ragioni dette). Una clausola generale, comunque, potrebbe fare maggiore chiarezza. Per quanto riguarda la «parte speciale» del nuovo ordinamento disciplinare, è l’art. 1 del decreto che costituisce il «faro» per una corretta ricostruzione. In base ad esso, possono distinguersi (a) l’illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni; (b) l’illecito disciplinare fuori dall’esercizio delle funzioni e (c) l’illecito disciplinare conseguente al reato (meglio si direbbe coincidente col reato o corrispondente al reato). Soffermandomi sui profili che consentono di spiegare meglio il significato di una precisa tipicizzazione, comincerò dall’illecito disciplinato dall’art. 2 lett. a). Questa è una fattispecie «causalmente orientata», in cui viene tipicizzato solo l’evento (il danno ad una delle parti), mancando al contrario ogni indicazione relativa alla condotta o all’elemento soggettivo. Questa è una sorta di «clausola omnibus», in cui si approfondisce il senso di una non sufficiente tipicizzazione, non escludendosi l’opportunità di ulteriori specificazioni. Diversamente è a dirsi per l’illecito definito alla lettera c) del medesimo articolo, che punisce «l’inosservanza dell’obbligo di astensione», richiedendo espressamente la «consapevolezza» dell’illecito e con ciò circoscrivendo meglio la fattispecie, altrimenti troppo ampia e di pericolosa applicazione. La legge prevede poi gli illeciti per la violazione della «segretezza degli atti» e del «riserbo». Si manifesta qui uno dei profili che hanno maggiormente interessato il dibattito, vale a dire i rapporti del magistrato con la stampa (le c.d. esternazioni). Entrano in gioco valori costituzionali, a partire da quello della libera manifestazione del pensiero. È da condividere l’idea di chi ritenga che l’esternazione sia consentita in presenza di «giustificato motivo» a tutela della collettività, ma anche a difesa dell’operato del magistrato. Passando agli illeciti descritti nel comma 2 dell’art. 2, bisogna affrontare il tema dei limiti in cui l’interpretazione non corretta costituisca illecito disciplinare. Ebbene, emerge dal sistema che disciplinarmente non costituisce illecito l’interpretazione in sé in quanto erronea, bensì la non corretta attività giudiziaria che si possa sussumere sotto gli illeciti specificamente strutturati nel comma 1 dell’art. 2. Particolarmente interessante è l’analisi della lettera g), la quale descrive la «grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile», in cui le diverse valvole di sicurezza che essa contiene salvaguardano lo schema di fattispecie. L’art. 3 riguarda gli illeciti fuori dall’esercizio delle funzioni. Di particolare delicatezza si presentano le fattispecie di cui alle lettere g), h) e i), relative a interessi e attività personali del magistrato, anche in ordine alle sue presunte attività politiche, in riferimento alle quali era avvertito come maggiormente opportuno un intervento in sede disciplinare. In sostanza lo spirito del sistema dà rilievo al «vincolo» che possa realmente condizionare l’attività del magistrato nell’espletamento delle sue funzioni. Per quanto attiene alle sanzioni, sembra che esse siano ispirate ad un fondamentale equilibrio. In riferimento al procedimento, preme sottolineare in questa sede il profilo dell’«obbligatorietà» dell’azione disciplinare, che costituisce in un certo senso il verso della tipicizzazione dell’illecito, la quale porta con sé anche il principio della «denuncia circostanziata», che impone di indicare già nella denuncia tutti gli elementi dell’illecito, pena la archiviazione del procedimento. A quest’ultimo meccanismo, assieme a quello della sufficiente rilevanza dell’illecito, è affidata un’importante funzione equilibratrice, cui dovrebbe conseguire un consistente effetto deflattivo. Concludendo, sembra che nel complesso il nuovo sistema di responsabilità disciplinare del magistrato possa considerarsi riuscito, essendo state gettate basi importanti, quali il corretto rapporto della giustizia con il cittadino-utente, l’intangibilità dell’accertamento giudiziale, oltre che il primato della legge e lo svincolo dai condizionamenti «partitici» nel rispetto delle scelte ideali del magistrato nella sua comune vita di relazione.

La responsabilità disciplinare / Fiorella, Antonio. - STAMPA. - (2008), pp. 147-162.

La responsabilità disciplinare

FIORELLA, ANTONIO
2008

Abstract

La precedente formulazione della clausola definitoria dell’illecito disciplinare del magistrato, contenuta nel r.d.l. 31 maggio 1946 n. 511 era troppo indeterminata, lasciando al giudice del merito ampio margine di discrezionalità e finendo con l’attribuirgli il compito di individuazione concreta delle condotte sanzionabili, come del resto hanno avuto modo di affermare anche le Sezioni Unite civili in una pronuncia del 2001. Il legislatore, nel riformulare la clausola, avrebbe potuto ispirarsi ai principi civilistici, in particolare a quelli propri del diritto del lavoro. Invece, ha preferito ispirarsi alle garanzie proprie del diritto e della procedura penale, scelta questa che pare senz’altro da approvare. La tipicizzazione dell’illecito disciplinare secondo il principio di stretta legalità ha seguito due tappe fondamentali. La prima è stata segnata con il decreto del febbraio 2006, nel quale accanto ad una più attenta definizione dell’illecito si era comunque mantenuta una clausola onnicomprensiva, che si riteneva potesse meglio garantire la completezza del sistema. Tuttavia, non sembra da accogliere l’opinione per la quale la centralità del «dovere» del magistrato rende legittimo il ricorso a clausole generali e analogia in malam partem, in quanto la Costituzione pone la «materia dei doveri e della responsabilità disciplinare» sotto «l’impero della legge», e non sotto il potere, che può degenerare in arbitrio, di chi giudichi la responsabilità medesima. Veniamo, dunque, alla seconda tappa della trasformazione del sistema, che si ha con la legge 24 ottobre 2006 n. 269, che elimina gran parte delle clausole comunque affette da genericità. Nell’ottica di un avvicinamento dell’illecito disciplinare alle garanzie penalistiche, la l. n. 269/2006 introduce l’art. 3-bis che afferma che l’illecito disciplinare non si configura quando il fatto è di scarsa rilevanza. La formula richiama immediatamente il principio di necessaria offensività, individuando non una causa di non punibilità, ma propriamente un’ipotesi in cui è esclusa la stessa configurabilità dell’illecito. La formula utilizzata dalla legge per descrivere il principio della scarsa rilevanza del fatto, tuttavia, si presenta più ampia, in primo luogo perché lascia sussistere la possibilità di accertamento di «una qualche rilevanza» del fatto che potrebbe non equivalere alla «non sufficiente rilevanza», ed in secondo luogo perché ha ad oggetto il fatto e non l’evento, come invece accade per il principio di offensività. Una accezione ampia del principio di sufficiente rilevanza, pertanto, potrà condurre alla conclusione dell’insussistenza dell’illecito disciplinare non soltanto per l’oggettiva assenza dell’offesa rilevante agli interessi tutelati dalla norma, ma anche per l’insufficiente rilevanza della condotta tenuta e/o dell’elemento psicologico, in questo modo dando rilievo ad una «ridotta colpevolezza». Il legislatore non ha definito con una clausola generale il titolo soggettivo dell’illecito disciplinare. Questo porta a concludere che la responsabilità possa essere attribuita per dolo o per colpa, salve le specifiche indicazioni contenute nella descrizione dei singoli illeciti, i quali potranno richiedere espressamente determinate forme di dolo o di colpa (esclusa la colpa lievissima per le ragioni dette). Una clausola generale, comunque, potrebbe fare maggiore chiarezza. Per quanto riguarda la «parte speciale» del nuovo ordinamento disciplinare, è l’art. 1 del decreto che costituisce il «faro» per una corretta ricostruzione. In base ad esso, possono distinguersi (a) l’illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni; (b) l’illecito disciplinare fuori dall’esercizio delle funzioni e (c) l’illecito disciplinare conseguente al reato (meglio si direbbe coincidente col reato o corrispondente al reato). Soffermandomi sui profili che consentono di spiegare meglio il significato di una precisa tipicizzazione, comincerò dall’illecito disciplinato dall’art. 2 lett. a). Questa è una fattispecie «causalmente orientata», in cui viene tipicizzato solo l’evento (il danno ad una delle parti), mancando al contrario ogni indicazione relativa alla condotta o all’elemento soggettivo. Questa è una sorta di «clausola omnibus», in cui si approfondisce il senso di una non sufficiente tipicizzazione, non escludendosi l’opportunità di ulteriori specificazioni. Diversamente è a dirsi per l’illecito definito alla lettera c) del medesimo articolo, che punisce «l’inosservanza dell’obbligo di astensione», richiedendo espressamente la «consapevolezza» dell’illecito e con ciò circoscrivendo meglio la fattispecie, altrimenti troppo ampia e di pericolosa applicazione. La legge prevede poi gli illeciti per la violazione della «segretezza degli atti» e del «riserbo». Si manifesta qui uno dei profili che hanno maggiormente interessato il dibattito, vale a dire i rapporti del magistrato con la stampa (le c.d. esternazioni). Entrano in gioco valori costituzionali, a partire da quello della libera manifestazione del pensiero. È da condividere l’idea di chi ritenga che l’esternazione sia consentita in presenza di «giustificato motivo» a tutela della collettività, ma anche a difesa dell’operato del magistrato. Passando agli illeciti descritti nel comma 2 dell’art. 2, bisogna affrontare il tema dei limiti in cui l’interpretazione non corretta costituisca illecito disciplinare. Ebbene, emerge dal sistema che disciplinarmente non costituisce illecito l’interpretazione in sé in quanto erronea, bensì la non corretta attività giudiziaria che si possa sussumere sotto gli illeciti specificamente strutturati nel comma 1 dell’art. 2. Particolarmente interessante è l’analisi della lettera g), la quale descrive la «grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile», in cui le diverse valvole di sicurezza che essa contiene salvaguardano lo schema di fattispecie. L’art. 3 riguarda gli illeciti fuori dall’esercizio delle funzioni. Di particolare delicatezza si presentano le fattispecie di cui alle lettere g), h) e i), relative a interessi e attività personali del magistrato, anche in ordine alle sue presunte attività politiche, in riferimento alle quali era avvertito come maggiormente opportuno un intervento in sede disciplinare. In sostanza lo spirito del sistema dà rilievo al «vincolo» che possa realmente condizionare l’attività del magistrato nell’espletamento delle sue funzioni. Per quanto attiene alle sanzioni, sembra che esse siano ispirate ad un fondamentale equilibrio. In riferimento al procedimento, preme sottolineare in questa sede il profilo dell’«obbligatorietà» dell’azione disciplinare, che costituisce in un certo senso il verso della tipicizzazione dell’illecito, la quale porta con sé anche il principio della «denuncia circostanziata», che impone di indicare già nella denuncia tutti gli elementi dell’illecito, pena la archiviazione del procedimento. A quest’ultimo meccanismo, assieme a quello della sufficiente rilevanza dell’illecito, è affidata un’importante funzione equilibratrice, cui dovrebbe conseguire un consistente effetto deflattivo. Concludendo, sembra che nel complesso il nuovo sistema di responsabilità disciplinare del magistrato possa considerarsi riuscito, essendo state gettate basi importanti, quali il corretto rapporto della giustizia con il cittadino-utente, l’intangibilità dell’accertamento giudiziale, oltre che il primato della legge e lo svincolo dai condizionamenti «partitici» nel rispetto delle scelte ideali del magistrato nella sua comune vita di relazione.
2008
Ordinamento giudiziario. Itinerari di riforma
9788824317764
02 Pubblicazione su volume::02a Capitolo o Articolo
La responsabilità disciplinare / Fiorella, Antonio. - STAMPA. - (2008), pp. 147-162.
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