In questa tesi ho tentato di comprendere come i percorsi biografici degli studenti di archeologia vengono influenzati dall’incorporazione della pratica archeologica inerente all’antichità romana e come quest’ultima, a sua volta, influenza i contesti in cui viene praticata. Ho strutturato la tesi in due parti. Nella prima parte ho tentato di descrivere i processi di (ri)negoziazione di senso che studenti e professionisti innescano praticando un sapere piuttosto essenzializzante e positivista che, allo stesso tempo, cercano costantemente di piegare a loro misura per rispondere a delle domande personali e intime. In questa cornice il sapere archeologico mi sembra abbia dotato i miei interlocutori di uno speciale linguaggio per fare a patti con il mondo globalizzato, fratturato, in costante mutazione valoriale e particolarmente avaro di sistemi per progettare la propria vita presente. Nella seconda parte ho invece provato a descrivere come l’individuazione e lo sfruttamento del passato romano e della relativa identità sia stata portata avanti, specialmente da alcuni attori dell’arena politica locale, al fine di effettuare una forte (ri)caratterizzazione di un territorio e una popolazione che, ricorrendo ad una complessa retorica di stereotipi e giochi d’autenticità, si autorappresenta come “ibrida”, “sbagliata”, “imperfetta” e “napoletana”, nella sua accezione più negativa. Nel primo capitolo ho tentato di fare un confronto tra le tradizioni di studi archeologici anglosassoni e quelle italiane. Ho comparato l’archeologia “post-processuale”, gli studi etnografici sull’archeologia e sui beni archeologici con le scuole italiane di Archeologia Classica e quelle relative alle discipline Demo-etnoantropologiche sul Patrimonio Culturale. Da questa panoramica mi sembra emerga piuttosto chiaramente un’archeologia italiana quasi sempre incapace di dialogare con i territori in cui opera, caratterizzata da un impianto smaccatamente positivista e sostanzialmente nazionalista che mette in moto ciò che ho definito “trappola scientista”. Tuttavia, allo stesso tempo, ho cercato di mostrare la forza poetica che gli stessi studenti e professionisti riescono a sollecitare muovendosi negli spazi intimi delle “pratiche scientifiche” nel tentativo di liberarsi da questa trappola sotto la maschera della loro completa adesione ad essa. Nel secondo capitolo ho cercato di rendere conto del mio percorso di ricerca etnografico cercando di metterne in risalto la natura esperienziale, emotiva e politica, a partire dalle tensioni da “effetto specchio” che possono generarsi ogni volta che ci si cimenta in una ricerca sulla ricerca, producendo un sapere sulla produzione di un sapere. Ho raccontato dunque delle ansie e delle aspirazioni che ho condiviso con gli altri studenti di archeologia cimentandomi in prima persona nel lavoro di scavo “mentre si fa scienza”, così come delle tensioni generate dalla mia successiva richiesta di essere svincolato dal lavoro di scavo. In tal senso ho raccontato delle diverse organizzazioni della cosiddetta osservazione partecipante alternando una “postura maggiormente partecipante”, cioè coinvolta e docile alle logiche della gerarchia dello scavo, con una “postura maggiormente osservante” cioè esplicitamente svincolata dal lavoro di scavo e assai più libera di muoversi all’interno dei diversi settori del sito mappandone ansie e aspirazioni. Nel terzo capitolo ho tentato di esplorare il senso della professionalità archeologica partendo dalla comune concezione dell’archeologia come scienza positiva, metodologica e svincolata dalla soggettività dell’archeologo e dal suo modo di organizzare il mondo, un modello piuttosto diffuso nella scuola italiana di archeologia romana. Ho quindi cercato di mostrare come tale biforcazione tra “Scienza” e “Cultura”, “Pubblico” e “Privato” e tra “Lavoro” e “Soggettività” sia funzionale alla “trappola scientista” e dunque alla (ri)produzione di una archeologia come una Pratica di Stato che si autorappresenta come l’unico punto di vista di tutti i punti di vista. A questo punto ho descritto tutta una serie di poetiche e di pratiche archeologiche di bracconaggio che si sviluppano proprio dentro gli scavi “scientifici” come la (ri)costruzione di legami familiari dentro e fuori lo scavo, l’utilizzo della pratica archeologica scientifica per rispondere ad una serie di “domande intime”: come posso (ri)stabilire il legame che si è deteriorato con mio padre? Quanto è importante la mia presenza dentro una comunità di pratica? Quanto le mie prodezze archeologiche possono farmi sentire “legittimato”? Il contatto con il mondo romano mi (di)mostra un mondo pacificato e a misura d’uomo, un mondo nostalgico che può guidare la mia azione nel presente? Nel quarto capitolo, riflettendo sulla figura letteraria del Golem (letteralmente “embrione”), ho proposto il nome di Golem archeologico per indicare la ricostruzione archeologica e il suo carattere misto; contemporaneamente materiale e discorsivo, tangibile ed emotivo, produttivo e (ri)produttivo, convenzionale ed autoriale. Riprendendo le riflessioni di de Certeau sulla scrittura della storia come attività contraddittoria tra reale e discorso che “tappa i buchi”, ricostruisce le fratture e ricuce gli strappi, ho tentato di descrivere il potere sensificante ed emotivo che la pratica archeologica conferisce ai suoi praticanti e nello specifico ai percorsi biografici di una studentessa e di uno studente di archeologia. Questi giovani archeologi non solo vivono le quotidiane incertezze dell’Italia precarizzata, globalizzata e contemporanea, sono anche accomunati dall’aver vissuto la tragica frattura esistenziale della perdita di un genitore in tenera età. In questo quadro ho tentato di mostrare la forza emotiva esercitata sui sé da una pratica che mette insieme delle realia, cose “realmente accadute”, con delle (ri)costruzioni “scientifiche”. Ricuce nel presente gli strappi generati dalle assenze. Vista da questa prospettiva l’archeologia diventa una pratica ironicamente sincronica che permette agli archeologi di “farsi autori del proprio passato”, un passato idilliaco e nostalgico, superando indenni tutto il ventaglio delle incognite dal tempo che scorre. Gli archeologi possono dunque mettere in moto il loro Golem che è anche il loro intimo universo. La seconda parte della tesi inizia con il quinto capitolo che è dedicato all’osservazione di come il linguaggio dei beni archeologici romani sia divenuto, alla fine degli anni Ottanta, la risorsa prediletta di due sindaci impegnati in un contesto territoriale profondamente industrializzato come l’area del basso Lazio in cui sorge un importante stabilimento automobilistico; nello specifico i territori di due comuni che per questioni di riservatezza ho chiamato Lumache e Rane. La costruzione della fabbrica agli inizi degli anni Settanta ha profondamente trasformato un contesto di economia rurale e mezzadrile facendo giungere una grande quantità di operai campani e torinesi, con la relativa riserva di stereotipi sui “napoletani” e sugli “operai alienati” che “inquinano”. Da questo processo è emerso lo stereotipo di questa area come la terra del “metalmezzadro”: un individuo che non primeggia in nulla, abituato ad essere prono al padrone, che ha abbandonato l’agricoltura e che fa rimpiangere il mitico e nostalgico tempo dello splendore antico. Ecco che l’emersione dalla terra della città romana di Ranae, “improvvisamente” individuata alla fine degli anni Ottanta attraverso la diffusione di una “sensibilità archeologica”, ha fornito alcuni amministratori locali della possibilità di (ri)produrre una discendenza identitaria più accattivante e maggiormente spendibile nell’attrazione del consenso a fronte di una popolazione che spesso si autorappresenta come “sbagliata”, “inadatta”, “né carne né pesce”, “immorale”, “brutta” e “inquinante”. In questo senso, più degli archeologi, i golem messi in moto dai sindaci hanno la caratteristica vividezza di istituzionalizzare una (ri)produzione autoriale e personale del paesaggio, con tutto ciò che questo ne consegue. Qui entrano in gioco dei complessi processi di negoziazione che fanno coincidere e confliggere, valori, estetiche e matericità tra interessi campanilistici, performance politiche, valori nazionali e gerarchie globali. L’antica città di Ranae, infatti, insiste sui bordi dei confini comunali di Lumache e Rane, con una netta predominanza di Lumache che gode dei monumenti e dei siti più importanti. Succede così che se in un primo momento (1985-2007) il sindaco di Rane inaugura la riscoperta dell’identità romana di Rane impadronendosi per primo, con i discorsi archeologici, delle rovine nel territorio di Lumache; in un secondo momento (2008-oggi) avviene esattamente il contrario, con il sindaco di Lumache che viene accusato, dai suoi avversari politici, di aver rubato agli aquinati di oggi il nome della città di Ranae e dunque il loro passato. Non si deve pensare che questo processo venga svolto in totale passività degli abitanti. Negli spazi intimi, infatti, l’adesione alla “classica” contrapposizione campanilistica tra Scimmarucari (mangiatori di lumache, soprannome dei lumachesi) e Ranocchiari (mangiatori di rane, soprannome dei ranesi), fa sì che gli abitanti di Lumache non mostrino alcun interesse nella valorizzazione di una antica città che porta il nome dei loro acerrimi rivali, anzi la contestano più o meno apertamente. In conclusione ho provato a riflettere sulle ragioni di questi conflitti e sulle incomprensioni che si generano ogni qualvolta la pratica archeologica scientifica viene applicata senza prestare ascolto alle tensioni e alle incognite del contesto locale. Ne emerge un’archeologia romana sbilanciata su posizioni positiviste, un sapere sempre uguale a se stesso, che maschera costantemente il suo portato emotivo e che non tiene conto dei sistemi cosmogonici locali con i relativi sistemi di dominio simbolico e materiale. La proposta che vorrei avanzare è invece quella di un’archeologia che faccia tesoro del suo carattere politico, poetico ed emotivo sforzandosi di adottare un linguaggio maggiormente inclusivo e aperto alle negoziazioni e alle ansie e alle aspirazioni dei contesti in cui opera.

La terra di mezzo. La pratica archeologica come ricostruzione del sé nel Lazio contemporaneo / Cozza, Fulvio. - (2020 Feb 05).

La terra di mezzo. La pratica archeologica come ricostruzione del sé nel Lazio contemporaneo

COZZA, FULVIO
05/02/2020

Abstract

In questa tesi ho tentato di comprendere come i percorsi biografici degli studenti di archeologia vengono influenzati dall’incorporazione della pratica archeologica inerente all’antichità romana e come quest’ultima, a sua volta, influenza i contesti in cui viene praticata. Ho strutturato la tesi in due parti. Nella prima parte ho tentato di descrivere i processi di (ri)negoziazione di senso che studenti e professionisti innescano praticando un sapere piuttosto essenzializzante e positivista che, allo stesso tempo, cercano costantemente di piegare a loro misura per rispondere a delle domande personali e intime. In questa cornice il sapere archeologico mi sembra abbia dotato i miei interlocutori di uno speciale linguaggio per fare a patti con il mondo globalizzato, fratturato, in costante mutazione valoriale e particolarmente avaro di sistemi per progettare la propria vita presente. Nella seconda parte ho invece provato a descrivere come l’individuazione e lo sfruttamento del passato romano e della relativa identità sia stata portata avanti, specialmente da alcuni attori dell’arena politica locale, al fine di effettuare una forte (ri)caratterizzazione di un territorio e una popolazione che, ricorrendo ad una complessa retorica di stereotipi e giochi d’autenticità, si autorappresenta come “ibrida”, “sbagliata”, “imperfetta” e “napoletana”, nella sua accezione più negativa. Nel primo capitolo ho tentato di fare un confronto tra le tradizioni di studi archeologici anglosassoni e quelle italiane. Ho comparato l’archeologia “post-processuale”, gli studi etnografici sull’archeologia e sui beni archeologici con le scuole italiane di Archeologia Classica e quelle relative alle discipline Demo-etnoantropologiche sul Patrimonio Culturale. Da questa panoramica mi sembra emerga piuttosto chiaramente un’archeologia italiana quasi sempre incapace di dialogare con i territori in cui opera, caratterizzata da un impianto smaccatamente positivista e sostanzialmente nazionalista che mette in moto ciò che ho definito “trappola scientista”. Tuttavia, allo stesso tempo, ho cercato di mostrare la forza poetica che gli stessi studenti e professionisti riescono a sollecitare muovendosi negli spazi intimi delle “pratiche scientifiche” nel tentativo di liberarsi da questa trappola sotto la maschera della loro completa adesione ad essa. Nel secondo capitolo ho cercato di rendere conto del mio percorso di ricerca etnografico cercando di metterne in risalto la natura esperienziale, emotiva e politica, a partire dalle tensioni da “effetto specchio” che possono generarsi ogni volta che ci si cimenta in una ricerca sulla ricerca, producendo un sapere sulla produzione di un sapere. Ho raccontato dunque delle ansie e delle aspirazioni che ho condiviso con gli altri studenti di archeologia cimentandomi in prima persona nel lavoro di scavo “mentre si fa scienza”, così come delle tensioni generate dalla mia successiva richiesta di essere svincolato dal lavoro di scavo. In tal senso ho raccontato delle diverse organizzazioni della cosiddetta osservazione partecipante alternando una “postura maggiormente partecipante”, cioè coinvolta e docile alle logiche della gerarchia dello scavo, con una “postura maggiormente osservante” cioè esplicitamente svincolata dal lavoro di scavo e assai più libera di muoversi all’interno dei diversi settori del sito mappandone ansie e aspirazioni. Nel terzo capitolo ho tentato di esplorare il senso della professionalità archeologica partendo dalla comune concezione dell’archeologia come scienza positiva, metodologica e svincolata dalla soggettività dell’archeologo e dal suo modo di organizzare il mondo, un modello piuttosto diffuso nella scuola italiana di archeologia romana. Ho quindi cercato di mostrare come tale biforcazione tra “Scienza” e “Cultura”, “Pubblico” e “Privato” e tra “Lavoro” e “Soggettività” sia funzionale alla “trappola scientista” e dunque alla (ri)produzione di una archeologia come una Pratica di Stato che si autorappresenta come l’unico punto di vista di tutti i punti di vista. A questo punto ho descritto tutta una serie di poetiche e di pratiche archeologiche di bracconaggio che si sviluppano proprio dentro gli scavi “scientifici” come la (ri)costruzione di legami familiari dentro e fuori lo scavo, l’utilizzo della pratica archeologica scientifica per rispondere ad una serie di “domande intime”: come posso (ri)stabilire il legame che si è deteriorato con mio padre? Quanto è importante la mia presenza dentro una comunità di pratica? Quanto le mie prodezze archeologiche possono farmi sentire “legittimato”? Il contatto con il mondo romano mi (di)mostra un mondo pacificato e a misura d’uomo, un mondo nostalgico che può guidare la mia azione nel presente? Nel quarto capitolo, riflettendo sulla figura letteraria del Golem (letteralmente “embrione”), ho proposto il nome di Golem archeologico per indicare la ricostruzione archeologica e il suo carattere misto; contemporaneamente materiale e discorsivo, tangibile ed emotivo, produttivo e (ri)produttivo, convenzionale ed autoriale. Riprendendo le riflessioni di de Certeau sulla scrittura della storia come attività contraddittoria tra reale e discorso che “tappa i buchi”, ricostruisce le fratture e ricuce gli strappi, ho tentato di descrivere il potere sensificante ed emotivo che la pratica archeologica conferisce ai suoi praticanti e nello specifico ai percorsi biografici di una studentessa e di uno studente di archeologia. Questi giovani archeologi non solo vivono le quotidiane incertezze dell’Italia precarizzata, globalizzata e contemporanea, sono anche accomunati dall’aver vissuto la tragica frattura esistenziale della perdita di un genitore in tenera età. In questo quadro ho tentato di mostrare la forza emotiva esercitata sui sé da una pratica che mette insieme delle realia, cose “realmente accadute”, con delle (ri)costruzioni “scientifiche”. Ricuce nel presente gli strappi generati dalle assenze. Vista da questa prospettiva l’archeologia diventa una pratica ironicamente sincronica che permette agli archeologi di “farsi autori del proprio passato”, un passato idilliaco e nostalgico, superando indenni tutto il ventaglio delle incognite dal tempo che scorre. Gli archeologi possono dunque mettere in moto il loro Golem che è anche il loro intimo universo. La seconda parte della tesi inizia con il quinto capitolo che è dedicato all’osservazione di come il linguaggio dei beni archeologici romani sia divenuto, alla fine degli anni Ottanta, la risorsa prediletta di due sindaci impegnati in un contesto territoriale profondamente industrializzato come l’area del basso Lazio in cui sorge un importante stabilimento automobilistico; nello specifico i territori di due comuni che per questioni di riservatezza ho chiamato Lumache e Rane. La costruzione della fabbrica agli inizi degli anni Settanta ha profondamente trasformato un contesto di economia rurale e mezzadrile facendo giungere una grande quantità di operai campani e torinesi, con la relativa riserva di stereotipi sui “napoletani” e sugli “operai alienati” che “inquinano”. Da questo processo è emerso lo stereotipo di questa area come la terra del “metalmezzadro”: un individuo che non primeggia in nulla, abituato ad essere prono al padrone, che ha abbandonato l’agricoltura e che fa rimpiangere il mitico e nostalgico tempo dello splendore antico. Ecco che l’emersione dalla terra della città romana di Ranae, “improvvisamente” individuata alla fine degli anni Ottanta attraverso la diffusione di una “sensibilità archeologica”, ha fornito alcuni amministratori locali della possibilità di (ri)produrre una discendenza identitaria più accattivante e maggiormente spendibile nell’attrazione del consenso a fronte di una popolazione che spesso si autorappresenta come “sbagliata”, “inadatta”, “né carne né pesce”, “immorale”, “brutta” e “inquinante”. In questo senso, più degli archeologi, i golem messi in moto dai sindaci hanno la caratteristica vividezza di istituzionalizzare una (ri)produzione autoriale e personale del paesaggio, con tutto ciò che questo ne consegue. Qui entrano in gioco dei complessi processi di negoziazione che fanno coincidere e confliggere, valori, estetiche e matericità tra interessi campanilistici, performance politiche, valori nazionali e gerarchie globali. L’antica città di Ranae, infatti, insiste sui bordi dei confini comunali di Lumache e Rane, con una netta predominanza di Lumache che gode dei monumenti e dei siti più importanti. Succede così che se in un primo momento (1985-2007) il sindaco di Rane inaugura la riscoperta dell’identità romana di Rane impadronendosi per primo, con i discorsi archeologici, delle rovine nel territorio di Lumache; in un secondo momento (2008-oggi) avviene esattamente il contrario, con il sindaco di Lumache che viene accusato, dai suoi avversari politici, di aver rubato agli aquinati di oggi il nome della città di Ranae e dunque il loro passato. Non si deve pensare che questo processo venga svolto in totale passività degli abitanti. Negli spazi intimi, infatti, l’adesione alla “classica” contrapposizione campanilistica tra Scimmarucari (mangiatori di lumache, soprannome dei lumachesi) e Ranocchiari (mangiatori di rane, soprannome dei ranesi), fa sì che gli abitanti di Lumache non mostrino alcun interesse nella valorizzazione di una antica città che porta il nome dei loro acerrimi rivali, anzi la contestano più o meno apertamente. In conclusione ho provato a riflettere sulle ragioni di questi conflitti e sulle incomprensioni che si generano ogni qualvolta la pratica archeologica scientifica viene applicata senza prestare ascolto alle tensioni e alle incognite del contesto locale. Ne emerge un’archeologia romana sbilanciata su posizioni positiviste, un sapere sempre uguale a se stesso, che maschera costantemente il suo portato emotivo e che non tiene conto dei sistemi cosmogonici locali con i relativi sistemi di dominio simbolico e materiale. La proposta che vorrei avanzare è invece quella di un’archeologia che faccia tesoro del suo carattere politico, poetico ed emotivo sforzandosi di adottare un linguaggio maggiormente inclusivo e aperto alle negoziazioni e alle ansie e alle aspirazioni dei contesti in cui opera.
5-feb-2020
File allegati a questo prodotto
File Dimensione Formato  
Tesi_dottorato_Cozza.pdf

Open Access dal 06/02/2020

Tipologia: Tesi di dottorato
Licenza: Tutti i diritti riservati (All rights reserved)
Dimensione 1.33 MB
Formato Adobe PDF
1.33 MB Adobe PDF

I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11573/1359075
Citazioni
  • ???jsp.display-item.citation.pmc??? ND
  • Scopus ND
  • ???jsp.display-item.citation.isi??? ND
social impact